MAISON
VALENTINO
LA PROVA
COL MAESTRO

Esce in libreria il 29 settembre per le edizioni All Around 'Io ero mia', un libro di Manuela Cassarà, giornalista e fra molte attività anche collaboratrice di Foglieviaggi: una traversata divertente, personalissima, ricca di aneddoti e di incontri con grandi personaggi del mondo della moda, ma anche di viaggi esotici, episodi non convenzionali, sempre segnati da passionalità, curiosità e joie de vivre, con uno stile lieve e non scontato. Anticipiamo qui un capitolo di 'Io ero mia': la domanda di assunzione alla Maison Valentino e il primo incontro con il mito dell'alta moda.


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"Io ero mia - vita, moda e miracoli" di Manuela Cassarà
Edizioni All Around - collana Flipper


Se ero stata assunta alla Maison, era stato tutto merito di mia madre.

Era stata lei a vedere l’annuncio sul Messaggero, quello in cui la Valentino Couture cercava una disegnatrice.

Lei che aveva telefonato di sua iniziativa, per prendere un appuntamento a mio nome. Lei che aveva deciso per me, cosa che avrebbe voluto fare più spesso e volentieri. Io ero affaccendata a fare altro: a essere infelice per colpa del mio ragazzo fedifrago, a far finta di studiare Architettura, dove mi ero iscritta finito il Liceo Artistico, in contemporanea alla rivolta studentesca che, nella facoltà, aveva trovato casa.

Era il 1968, dopotutto.

Io c’ero ma pensavo solo ai fatti miei e a schivare i sanpietrini.

Lo so, la cosa non mi fa onore, vorrei poter darmi un tono più impegnato.

Ma ero una ragazza sciocchina e superficiale.

Con mia grande sorpresa la Maison mi aveva cercato.

Fatto il colloquio con la Direttrice, di quel giorno non ricordo proprio nulla, segno di quanto m’importasse.

Immagino mi avranno messo a un tavolino a copiare un figurino, con il compito di farlo uguale a quello del Sig. Valentino.

Disegnare vestiti era sempre stato un mio pallino. Per farmi stare tranquilla bastava lasciarmi giocare con le bambole di carta.

Passavo ore a creare e copiare completini.

La mia musa era Grace.

Grace Kelly.

Una volta l’avevo incontrata, la mia dea, al Consolato Italiano del Principato di Monaco. Prova una foto che conservo come una reliquia. Peccato che, mentre Grace mi passava accanto, adorabile e elegantissima, io, bimbetta bassina e tracagnotta, la mascella a filo con la balaustra, l’avessi accolta con un dito nel naso.

Colta in flagrante a futura memoria.

Tornando a quel primo incontro, per giorni non ci aveva contattato nessuno.

La Bio, una che il toro lo afferrava per le corna, e che mi ha trasmesso la sua impazienza, aveva telefonato per avere notizie; l’avevano condita con un secco: «Il Signor Valentino non ha ancora deciso. In lizza sono rimaste solo sua figlia e una russa».

Qualche giorno dopo avevano richiamato: ero la prescelta.

Nell’Atelier di Via Gregoriana, senza tanti preamboli, mi avevano buttato nell’arena, lo studio del Sig. Valentino: uno stanzone tappezzato di verde bottiglia, con pelli di zebra e poltrone di velluto.

Stile Imperial Safari potremmo definirlo.

Lui se ne stava seduto dietro l’enorme scrivania, ieratico e compassato, in un completo color crema, attillato.

Con un cenno mi aveva indicato di sedermi. Lì, proprio davanti a lui.

Da un blocchetto giallo uovo sodo, con il suo nome stampato color testa di moro a giustezza della larghezza, aveva strappato un foglietto, con lo schizzo di un abitino all’apparenza semplice, senza troppi dettagli, senza il figurino. Aggiungerlo, con le debite proporzioni, sarebbe stato il mio compito. E se lo aspettava preciso, uguale a quello che avrebbe disegnato lui, se solo se ne fosse preso la briga.

Mi sono sempre domandata il perché di questa pigrizia.

Era pure buio pesto, unica fonte di luce, quella di una abat-jour soffusa; mi si era messo alle spalle e mi osservava con quel suo sguardo da basilisco. La soggezione mi paralizzava. La matita mi tremava tra le mani.

«Forse preferisci stare da sola?», aveva chiesto.

Già, chissà come mai?

Strano a dirsi, andò tutto bene. Ancora più strano a dirsi, in seguito non mi avrebbe mai fatto rifare un disegno.

E non era uno che perdonasse un’inesattezza.

Una volta approvati, gli schizzi finivano sul tavolo di Madame Ginette, Prèmiere del Leggero, una giunonica parigina, maga del drappeggio, del plissé e del dèvoré, capace di modellare chiffon e velluti per farne abiti impalpabili; o su quello di Anna, la Prèmiere del Pesante, tanto grande di bravura quanto piccoletta di altezza, infallibile nel realizzare impeccabili tailleurini double, abitini magistralmente fatti di nulla se non della perfezione di quelle stoffe preziose cucite a mano, punto dopo punto, da gruppi di fanciulle in candidi camici bianchi, a capo chino, pavide e pazienti.

Per il Sig. V ogni schizzo era un ologramma che conteneva le istruzioni, i codici per così dire, di un capo che sarebbe stato sublime. La sua mente immaginava come sarebbe caduto il tessuto, conosceva già il taglio, concepiva ogni dettaglio.

E io li capivo, li completavo.

Tra i tanti disegni passati per le mie mani ne ricordo uno appena intravisto: l’abito top secret che avrebbe indossato Jacqueline Kennedy per sposare Aristotele Onassis. Un completo color panna, gonna a pieghe al ginocchio, il sopra intarsiato con balze di pizzo, lunghe maniche fino ai polsi, accollato, studiatamente pudico.

Non credo che la futura Jackie O’ l’avesse scelto a caso.

Con l’aggiunta di un grande fiocco nei capelli, la virginale immagine di jeune fille fin de siècle era completa. Quasi volesse sancire la sua rinascita.

Con quel vestito Jackie avrebbe sostituito per sempre, nella memoria collettiva, il tragico velo nero da vedova inconsolabile.

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