Avviso ai lettori. Qui si parla di un “Giornale di partito”, in un’epoca nella quale i giornali non vendono più tante copie, e i “Partiti” organizzati e di massa sono scomparsi.
di Roberto Roscani
Fandango editore - 20 euro)
Chissà se è destinato a piacere anche a chi non ha lavorato in quel giornale, oppure a chi quel quotidiano in vita sua non l’ha mai letto, il bel libro “l’Unità. Una storia, tante storie” (Fandango libri, € 20), uscito in questi giorni nei quali ricorre il centesimo anniversario della testata (12 febbraio 1924). L’ha scritto Roberto Roscani, che all’Unità ci entrò da ragazzo, e ci passò una vita. Un percorso esistenziale e professionale comune a molti di noi ex rimasti ancora su piazza: quasi tutti catalogabili nella casella dei cosiddetti “boomer” (negli Usa, i nati tra il 1946 e il 1964). O più precisamente da noi in Italia i “figli della Ricostruzione” e i fu-“sessantottini”. Prim’ancora, coloro che scelsero la Sinistra dopo la morte di Palmiro Togliatti (1964).
In media - ho calcolato a spanne - noi superstiti almeno trentacinque di quei cento anni li abbiamo vissuti là dentro, e possiamo testimoniare a carico di diversi luoghi comuni negativi, come di un grosso grumo di difetti, errori e orrori, e di alcuni esempi luminosi per passione civile o impegno professionale. Con Roscani ho condiviso su per giù quella cronologia. “Prima ancora di scriverci, l’Unità l’ho letta. Ma per prima cosa l’ho diffusa. Non venduta. (…) Diffondere voleva dire andare nelle case, suonando ai campanelli di domenica mattina, farsi dire cento no e qualche sì”. È l’incipit del libro, che rispecchia un comune sentire di quei giovani “militanti” che divennero su quelle scrivanie dei giornalisti, pensando all’inizio che l’impegno politico dovesse prevalere su quello professionale, per poi passare la vita a difendere la propria autonomia, con alterni ma sempre interessanti risultati.
Ciò non significa ritrovarsi necessariamente per solidarietà generazionale in tutti i ricordi e giudizi dell’autore. Ma una memoria comune, che salta agli occhi sin dalle prime pagine, è la galleria di alcuni mitologici personaggi e colleghi. Amici e “compagni”, come ci si definiva, ritratti in una sequenza introduttiva forse nella stessa formidabile assemblea di redazione che deve essere stata la prima, o una delle prime cui mi toccò di partecipare. Sono iniziati da poco gli anni Settanta nella sede storica del giornale in via dei Taurini 19, quartiere romano di San Lorenzo. Assistiamo qui allo scintillante duetto dialettico tra gli ex giovani “gappisti”, Alfredo Reichlin e Arminio Savioli, divenuti l’uno il direttore, l’altro l’inviato di punta che, tra gli altri, intervistò Fidel e gli fece rivelare in anteprima mondiale – ripresa integralmente in prima pagina dal New York Times - la sua conversione al socialismo.
Come Roscani ricorda, Arminio durante un’azione partigiana aveva salvato Alfredo dalla morte sicura per mano delle SS, sparando a bruciapelo a un militare che l’aveva arrestato mentre nascondeva in tasca una pistola. I due non ne parlavano mai, tra loro, e neanche in famiglia, figurarsi al giornale. Quel che mi rimane impresso, molto più del loro scambio di battute, è il controcanto che qualcuno di noi più giovane rilanciò in quell’assemblea. Parafrasando Gertrude Stein, in quel suo verso che evocava “una rosa”, che “è una rosa, è una rosa” per dire del nostro lavoro in “un giornale”, che “è un giornale, è un giornale”. Si trattava di Franco Petrone, che avevo conosciuto nella mia vita precedente alla Federazione giovanile comunista. Una generazione – la nostra - che aveva vissuto il crollo di tanti miti. Battuta pronta e ingegno fine, smagato e intelligente, a quei tempi di ritorno dalla corrispondenza da Berlino, morrà presto, a soli quarantadue anni, in un incidente.
Il nome di Petrone non c’è nell’indice di Roscani. Ma ricorre quello di un altro “figgiccino”, organizzazione giovanile piena di “eretici” cresciuti nei licei degli anni Sessanta a pane Ho Chi Min e Che Guevara, e che faceva capo a un partito dove altri “eretici” – Berlinguer, Occhetto che si mimetizzavano dentro a una folla assai più grigia - a poco a poco sarebbero presto assurti a ruoli tali da imporre strappi e svolte che apparivano solo qualche anno prima inimmaginabili: Renzo Foa divenne direttore dell’Unità - dal 1990 al 1992 – e fu il primo che veniva dritto dalla redazione e non da Botteghe Oscure, dopo aver letto il mondo con occhiali laici, le corrispondenze dall’Estremo Oriente, gli incontri con Gorbaciov, Dubcek. Scritti raccolti e poi ripubblicati sotto il titolo inequivocabile: “Ho visto morire il comunismo”. Proprio in quei mesi della direzione Foa da sotto la testata scompare la scritta: “organo del partito comunista italiano”, che ci sembrava contraddicesse il precetto togliattiano di dar vita - proprio nei giorni del dopoguerra in cui lanciava l’idea della costruzione di un “partito nuovo”, insieme strutturato e di massa - a un giornale nuovo, insieme di informazione e di formazione politica: un “Corriere della sera” delle classi popolari.
A proposito di Togliatti, sul giornale diretto da un direttore politico non giornalista, come Gerardo Chiaromonte, uscì in prima pagina destando un putiferio e una scomunica del segretario Alessandro Natta pubblicata poi – scrive Roscani - “poco diplomaticamente in basso in una pagina interna”, un articolo sulla detenzione di Antonio Gramsci che faceva intendere come la dirigenza togliattiana del Pcd’I gli avesse reso “la vita impossibile”.
Chi si metta oggi a sfogliare il volume di Roberto, tenga dunque a mente quella citazione/manifesto di un giornale/giornale, simile alla metafora della rosa/rosa uscita dalla penna di colei che fu la più vivace talent scout di artisti e intellettuali della lost generation dell’inizio del secolo scorso per capire la storia complessa che questo volume racconta. Che è dagli anni Novanta del secolo scorso anche l’inizio di una lunga agonia con relativo fallimento – anche nel senso di crack finanziario - e la morte di quell’esperienza. Fasi ultime, sopravvenute nel nuovo millennio, che non vengono affrontate dal libro di Roscani, ma sottintese tra le righe come un memento mori della generazione perduta dei giornalisti comunisti.
Bastino due episodi. Non fui, e non ricordo perché, tra quelli che parteciparono alla festa – funerale del giornalista comunista, con balli e musiche, organizzata a margine di non so più quale svolta (del giornale e del partito). Ma ero nell’ufficio del redattore-capo quando la direzione chiese per Pasqua un’opera inneggiante alla pace (proprio mentre il governo D’Alema partecipava al bombardamento Nato di Belgrado) al geniale leader dell’”arte povera” Jannis Kounellis. Lui preparò uno spiedo sanguinolento, con soldatini carrarmati e armi conficcati dentro le pieghe della carne di manzo, e quella foto capolavoro non fu pubblicata.
Si procedeva verso una voragine. Perché quel giornale fu anche un’impresa, e i tempi della sua crisi finanziaria a volte precedettero, altre seguirono i tempi delle crisi politiche-politiche. Finché ambedue i pilastri su cui si reggeva il nostro impegno, il partito-editore e il giornale, non cessarono di esistere.
Questo libro trae la sua forza proprio dal contraddittorio gioco di specchi che riproduce, tra individualità differenti e sfaccettate con percorsi paralleli, incrociati, divergenti. Persino le prove di autonomia vennero più spesso da direttori politici che non da direttori-giornalisti presi dall’esterno della redazione: Roscani rivela un episodio inedito su Alfredo Reichlin che rigettò al mittente le “correzioni” che Tonino Tatò gli spediva per fax di un’intervista a Berlinguer, e pubblicò il testo non pattuito. Nei giornali non di partito, non credo che sia mai accaduto che uscissero testi dell’editore non concordati.
Un partito pieno di “eretici”, e che aveva svolto un ruolo “ereticale” nel movimento internazionale non poteva non creare e poi seppellire un giornale che esprimeva analoghe “eresie” editoriali. Basate su una linea di fondo: far parlare i fatti, la cronaca, le inchieste. La redazione fu all’altezza di queste sfide solo se e quando usò il partito come fonte, come una fonte in più, e non come una limitazione. Forse è per queste potenzialità che nel primo decennio del Duemila dalle macerie di quella esperienza poté realizzarsi l’inatteso successo editoriale della ripartenza dell’Unità con direttori più esterni che mai come Furio Colombo e Antonio Padellaro. Tanti nuovi lettori, un “mercato” inesplorato… Ma il volume di Roscani si ferma prima, e bisognerà attendere, chissà, un altro libro per capire perché e come quell’esperienza sia stata liquidata.