Stalinisti e crociani. Il culto della libertà e il conformismo politico. Opposti inconciliabili convivevano in una pattuglia intellettualmente eccentrica di giornalisti comunisti. Ligi alla ferrea disciplina del partito nonostante si fossero formati in anni di fuoco e di ferro alla scuola di Benedetto Croce, il filosofo liberale più influente nell’Italia antifascista. Sembra impossibile oggi. L'idealismo di Croce, la ferocia di Stalin. Che cosa potevano avere in comune? Eppure in quella redazione dell'Unità, nella Napoli del dopoguerra, si respirava un'originale contaminazione culturale. Arricchita dalle incursioni nella critica letteraria alla maniera di Francesco De Sanctis e animata dal meridionalismo eroico dei cento uomini d’acciaio invocati da Guido Dorso. Ma su ogni ragionamento, su ogni scelta, s'imponeva il realismo di Palmiro Togliatti e la lezione di Antonio Gramsci. Un fantastico Pantheon politico-culturale.
Tutto iniziò nel marzo 1944, in pieno conflitto mondiale, quando il segretario del PCI, nome di battaglia Ercoli, sbarcò in una Napoli devastata. Togliatti aveva chiare le linee per la costruzione del "partito nuovo" in un'Italia ancora sotto il giogo nazifascista per più della metà dello Stivale. L'egemonia culturale - quella vera - passava anche nel confronto, a volte aspro, con le posizioni di Croce. Il giornalismo in quegli anni fu un'articolazione della lotta politica condotta da un partito, il PCI che, all'indomani dell'armistizio, l'8 settembre 1943, nel Mezzogiorno d'Italia "non esisteva" (così scrisse in un documento ufficiale per il V congresso nazionale svoltosi a cavallo tra il 1945 e il 1946 il dirigente Velio Spano che fu anche direttore dell'edizione meridionale dell'Unità).
"L'Unità" tuttavia apre la prima redazione, radicata a Napoli, soltanto nel 1949, quattro anni dopo la fine della guerra. Negli anni immediatamente precedenti la sinistra frontista si identifica ne "La Voce", un foglio diffusissimo in grado di mescolare brillanti uomini di partito come Mario Alicata con giovani intellettuali e giornalisti eccellenti del rango di Alberto Jacoviello. La contaminazione tra sensibilità diverse si sublimerà poi negli uffici dell'Unità, un misto di pulsioni libertarie e militanza rigorosa. Atmosfere e drammi individuali raccontati decenni dopo in "Mistero napoletano", il libro di Ermanno Rea che proprio in quelle stanze si avviò alla professione. Personalità complesse e tormentate danno voce al giornale dei comunisti. Francesca Spada, morta suicida poco dopo il gesto estremo di un matematico geniale quale fu Renato Caccioppoli, abituale frequentatore della redazione napoletana. Paolo Ricci, artista e critico teatrale ascoltato e temuto persino da Eduardo De Filippo. Massimo Caprara, da segretario particolare di Togliatti a eretico totale. Sandro Rossi, attento critico musicale nelle serate mondane del teatro San Carlo. E poi gli scrittori Luigi Incoronato (anch'egli suicida), Enzo Striano, Aldo De Jaco, Bepi Lecaldano, gli amici-rivali Domenico Rea e Luigi Compagnone. Esponenti di quella élite intellettuale, borghese, anticonformista che aveva sposato la causa del comunismo italiano. Ai quali nel PCI facevano da sponda, non senza però vivaci polemiche, dirigenti approdati al marxismo attraverso la lettura di Benedetto Croce: Giorgio Amendola, figlio del liberale Giovanni assassinato dai fascisti; il futuro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; Gerardo Chiaromonte; Maurizio Valenzi, primo sindaco comunista di Napoli; Andrea Geremicca, Carlo Fermariello e tanti altri ancora.
Élite e popolo. Oggi i sovranisti di mezzo mondo alimentano un'odiosa contrapposizione fomentando le paure e gli istinti più retrivi di un elettorato smarrito. In quello scorcio di Novecento invece i gruppi dirigenti del comunismo italiano vedevano nel giornale-bandiera lo strumento ideale per condurre la lotta di classe e la battaglia delle idee. Le Feste dell'Unità organizzate in ogni angolo del Paese sono state il luogo della socializzazione di massa decenni prima della spersonalizzante invasione dei social. Ne ricordo una, irripetibile, nella Mostra d'Oltremare. La prima volta di una festa nazionale nel Sud, a Napoli. Settembre 1976.
Sul palco si materializza un santo laico. Ha 76 anni, è già immortale. “Siete una forza, siatene coscienti” dice alla folla con la sua cadenza inimitabile. Un fremito attraversa Napoli, una Napoli colta e popolare, stracciona e aristocratica, un tempo fascista, monarchica, laurina, democristiana, in quello scorcio dei '70 sorprendentemente comunista. La nottata sta passando, passerà. Eduardo è al fianco di Maurizio. Dalla Mostra d’Oltremare, zeppa di gente, traboccano illusioni. Il più grande drammaturgo italiano e il sindaco rosso. Quasi mezzo secolo fa l'umiliata capitale del Sud si ricongiunge nel voto al resto d’Italia. I sindaci comunisti - da Torino a Roma, fin giù a Napoli con Valenzi - raccontano una società in ebollizione. Il 20 giugno 1976 un italiano su tre ha votato Pci. Persino nell'antica capitale del regno meridionale, neppure i vertici di Botteghe Oscure speravano tanto.
“Te piace ‘o presepe?”. Per quanto Nennillo/Luca De Filippo ripetesse con ostinazione dispettosa il suo no, il presepe partenopeo - messo in scena nel teatro Mediterraneo della Mostra - si trasformò da quinta teatrale a evento politico. Piace, eccome se piace. La realtà si impossessa della poesia, il desiderio di un’armonia impossibile sembra avverarsi. Napoli appare cambiata, più sinceramente di quanto Nennillo si voglia cambiare, propositi evanescenti di una letterina natalizia.
Sto seduto per terra, come tanti, perché non c’è più posto: “Natale in casa Cupiello” mi appare come l’epifania di qualcosa di sconvolgente, luminoso. Venti anni di età sono pochi, ma quando ce li hai ti riempiono di tutto. Eduardo domina la scena. È la tradizione nobile e allo stesso tempo il futuro. Come Napoli. Devi saper ascoltare. Le ipocrisie conformistiche non si tollerano, vuoi far saltare gli schemi, a costo di dolorose lacerazioni. Eppure quel senso di famiglia, di appartenenza, di “stare auniti” non riesce ad abbandonarti. Non è forse il giornale, il suo partito, una famiglia allargata? Una comunità che ogni giorno fatica per restare unità?
La presenza di Eduardo De Filippo alla festa nazionale dell’Unità richiamò la curiosità della grande stampa italiana. La prima volta di una manifestazione del genere al di sotto di Roma. La storica Anna Tonelli nel suo “Falce e tortello” scrive che ai militanti comunisti, impegnati in una straordinaria opera di bonifica e di riqualificazione della Mostra d’Oltremare, Eduardo abbia detto: "Se fossi stato più giovane avrei aiutato anch’io a sollevare pietre e travi”. Antonio Gramsci avrebbe finalmente sorriso se avesse potuto ascoltare quelle parole. L’egemonia culturale sembra realizzarsi nell’alleanza tra classe operaia e ceti intellettuali. Persino la plebe di Napoli, il sottoproletariato anti-politico trova dignità in una città in cerca di riscatto. Sfidando il rito, Enrico Berlinguer concluse la festa la sera del 19 settembre, domenica di San Gennaro. Il santo civico, Gennaro, e il santo laico, Eduardo. La spiritualità di Napoli non conosce mai limiti. In quegli stessi giorni di settembre 1976 il grande attore si concesse al pubblico della festa comunista in un recital di poesie: “Io vulesse truvà pace/ ma ‘na pace senza morte./ Una mmieze ‘a tante porte/ s’arapesse pe’ campà...”. Per mesi, per anni quel desiderio di pace senza morte accompagnerà il dibattito pubblico. Tema maledettamente attuale in un mondo oggi consumato da una terza guerra mondiale combattuta a pezzi.
Sono stato fortunato, entrai all'Unità - direttore Luca Pavolini - subito dopo la conclusione della Festa nazionale. Rigorosamente da volontario, un modo elegante per mascherare il precariato. Accolto dal capo della redazione, Rocco Di Blasi, e dai "senatori" Felice Piemontese, Nora Puntillo, Sergio Gallo, Giulio Formato, Franco De Arcangelis; fiero di entrare a far parte di un manipolo di giornalisti d'assalto. Quando fare informazione contro il potere dominante non era di moda, non ti portava in televisione, non garantiva tutele, non rendeva famosi. Una lezione di rigore per un giornalismo senza tempo.