I cipressi verdi illuminano il deserto giallo, sono tutti piegati da una forza invisibile, il vento che soffia sempre nella stessa direzione: tutti gli alberi sono inesorabilmente curvi nel senso in cui da secoli soffia.
Abbiamo lasciato la mattina Damasco in direzione di Deir Mar Musa. Pian piano la strada si fa più desertica e montagnosa, seguendo le curve sinuose. Arriviamo nelle vicinanze del monastero, che appare appollaiato sulla montagna brulla e rocciosa. Parcheggiata la macchina, ci inerpichiamo sulle scale di pietra; nelle vicinanze un contadino cura l’ orto e il frutteto del monastero, un’esplosione di verde che scaturisce dai terrazzamenti scolpiti nella montagna desertica.
Gradino dopo gradino arriviamo in alto, nella parte antica del monastero restaurata da padre Dall’Oglio: a Deir Mar Musa si trova infatti la comunità monastica nata in Siria dalla vocazione di padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito a Raqqa, forse dai terroristi del Daesh, l’autoproclamato Stato islamico, il 29 luglio 2013.
Dall'Oglio è noto per aver rifondato,negli anni Ottanta, in Siria, la comunità monastica cattolico siriaca "Al-Khalil" di Dei Mar Musa Al-Abasi, (Monastero di san Mosè l'Abissino), erede di una tradizione cenobitica ed eremitica risalente al sesto secolo.
Nel 1982 Padre dall’Oglio scopre i ruderi del monastero, costruito nell'XI secolo attorno a un antico romitorio occupato nel VI secolo d San Mosè l'Abissino, e vi si insedia per “praticare un ritiro spirituale dal mondo in un luogo di grande solitudine religiosa”. Nel 1992 vi fonda una comunità spirituale ecumenica mista, la comunità al-Khalil ("l'amico di Dio", in lingua araba, espressione con cui si indica per antonomasia il patriarca Abramo) la quale promuove il dialogo islamico-cristiano. Durante la guerra civile, Padre Dall’Oglio tentò di proporre una soluzione pacifica tra tutte le parti del conflitto e venne rapito a Raqqa dove stava trattando per il rilascio di alcuni ostaggi nelle mani dell’Isis. Di lui non si hanno più notizie, è stato probabilmente ucciso.
L’antico monastero,costruito in pietra locale, sembra fondersi con le montagne in un equilibrio quasi perfetto. Anche la parte moderna, edificata un po’ più su, è stata costruita con gusto e si integra perfettamente con il paesaggio circostante. Un cane lupo festoso e un giovane frate ci accolgono sotto l’ombra della vegetazione. Il religioso mi racconta che ogni tanto va a sud di Roma, dove in un paesino la sua congregazione ha avuto in concessione una piccola chiesa. Ci offrono acqua fresca e frutta del giardino, chiacchieriamo un po’ sul terrazzamento davanti al monastero da cui si domina tutta la vallata desertica. Uno dei frati ci racconta che sono in tre o quattro e accolgono tutti i pellegrini che desiderano dormire e pregare con loro nel monastero gratuitamente. Essendo cattolici di rito siriaco, alcuni di loro vanno a studiare a Roma, prima di ritornare in Siria.
Una volta ripresici dalla salita sotto il caldo cocente, il frate più giovane ci porta a vedere la chiesa del monastero. Probabilmente la chiesa con gli affreschi più belli che io abbia visto in Siria. Gli affreschi sono popolati in modo quasi onirico da santi che portano in grembo volti di fedeli, da preti, da angeli con trombe, da diavoloni che pesano anime, da dannati tutti nudi, ma anche dal popolo del Paradiso. In un angolo vi sono anche i preti che sceglievano la confessione cristiana sbagliata. Ironia della sorte, oggi per fortuna la chiesa è il fulcro di una comunità religiosa che si occupa di dialogo inter-religioso.
I colori sono splendidi e il luogo infonde un’enorme serenità. Passo qualche minuto in silenzio, seduto sui tappeti, tentando di assorbire la quiete. Penso che, pur essendo agnostico, la prossima volta mi piacerebbe pernottare nel monastero e meditare. Ogni volta che mi immergo nella Siria profonda penso a quanto questi luoghi, nonostante siano stati martoriati in tutti i modi, siano comunque ancora capaci di regalare sensazioni di grande pace e multiculturalità.
Lasciamo il monastero e ci dirigiamo verso la zona costiera. Piano piano il deserto lascia spazio a colline sempre più verdi, tanto che sembra di essere in Molise o in Basilicata. Passiamo nelle vicinanze di Krak des Chevaliers, che ho già visitato due volte, nel 2019 e nel 2022, e proseguiamo la nostra strada tra le verdeggianti colline.
Si susseguono uno dopo l’altro paesini cristiani con le loro chiesette e villaggi alauiti. Se non fosse per l’assenza di chiese e la presenza di piccoli santuari quadrati di pietra, sormontati da cupole verdi e argento, con la mezzaluna ma senza minareto, non si capirebbe quando si è un paesino cristiano e uno alauita. Gli Alauiti infatti possono bere alcool e le donne non portano il velo.
Più volte ci fermiamo nei paesini e bussiamo alla porta di qualcuno per comprare vino e arak, la grappa all’anice locale. Quasi sempre troviamo chi ci vende qualche bottiglia di sua produzione. Tranne che nelle vicinanze di Krak des Chevaliers, la guerra non ha lasciato segni visibili nelle architetture dei villaggi; la zona costiera, abitata da cristiani, aluauiti e sunniti, non è stata, in gran parte, toccata dal conflitto.
Curva dopo curva, tra i ridenti vigneti e frutteti, arriviamo alla nostra meta, il sito archeologico di Hosn Suleiman, splendido tempio, costruito inizialmente dai fenici e poi dai romani, dedicato prima al dio Baal Shamin, dio del cielo, successivamente identificato in Zeus.
Per arrivare al tempio bisogna attraversare il paesino, e di colpo ci troviamo davanti a mura formate da immense pietre, megalitiche, con enormi portali. Quello da cui entriamo è coronato da cornicioni scolpiti, vi campeggia un arco sormontato da un timpano. Ai lati di ogni portale vi sono due nicchie e due porte minori. Gli archi di ingresso sembrano quasi un gioco di incastri geometrici. Le mura sono talmente mastodontiche che anche dove sono crollate a seguito di terremoti si sono solamente adagiate sul prato. Si potrebbero tranquillamente tirare su.
All’interno c'è una vasta piazza, con al centro il tempio e un anziano pastore che controlla il suo gregge di pecore, mentre un cane controlla festosamente la situazione. Il tempio che svetta è anch’esso formato da immense pietre e colonne che si innalzano verso il cielo, in parte collassate ai fianchi, a seguito di vari terremoti. Anche in questo caso, si sono solo accasciate al suolo, e gli archeologi avrebbero gioco facile a rimontarle per anastilosi. Basterebbe toglierle dalle grandiose scale d’accesso al tempio su cui sono crollate e dai fianchi dell’edificio sacro. Il tempio vero e proprio era formato da un edificio fatto di colonne di pietra nera. Non era aperto, ma tra una colonna e l’altra vi era un muro di massi rettangolari della stessa pietra. L’edificio in parte ancora punta verso il cielo, ma si è contorto dopo i terremoti, e i massi squadrati si sono scomposti, pur non crollando, e hanno assunto posizioni da equilibristi esperti, come fossero tanti circensi.
Le mura megalitiche attorno all’area del tempio su alcuni lati sono ricoperte da fitti rampicanti, a ridosso di ripide colline boscose, in altri lambiscono il paese. L’atmosfera è bucolica e gli abitanti sono molto ospitali. Alcune delle porte di accesso hanno ancora sulla lastra del soffitto delle grandi figure che sembrano saltare, hanno raggi che scaturiscono dalla testa. Il tempio, pur non essendo uno dei più famosi della Siria, è sicuramente un sito archeologico straordinario, immerso in questo ambiente di grande suggestione.
Salutiamo il pastore, che nel frattempo è salito sulle pietre di uno degli antichi ingressi del recinto sacro, e saliamo in macchina. La strada attraversa i boschi e le colline come un serpente nero. Ci dirigiamo verso la costa. Tra una collina e l’altra attraversiamo un paese al cui centro svetta una mastodontica torre crociata. Faceva parte del sistema di avvistamento che collegava il porto di Tartus con il sistema dei castelli crociati sulle montagne più alte dell’entroterra, lo stesso di cui fa parte Krak des Chevaliers. La strada attraversa il villaggio inerpicandosi tra edifici in parte antichi e in parte moderni, pieni di insegne di negozi. In cima c'è il possente torrione di pietra gialla. Il nostro autista parcheggia la macchina in una piazzetta vicino, creando malcontento in un gruppo di bambini locali che stavano giocando a calcio propriò lì. Ci guardano un po' stupiti per l'inaspettato arrivo di viaggiatori europei e un po' infastiditi per l’indebita invasione del loro campetto.
La torre è attorniata da vicoli su cui si affacciano antichi palazzi di pietra gialla e nera, alcuni abitati, altri fatiscenti. Hanno le classiche tre finestre sormontate da archetti spezzati, come da tradizione siro-libanese, non dissimili da quelle veneziane. Il dedalo di vicoli è affascinante, anche se dovendo andare a Tartus abbiamo poco tempo per guardarci intorno. La torre purtroppo non si può visitare, noto però che sulla porta moderna vi sono due croci rosse, che probabilmente alludono al passato crociato. Il tramonto si avvicina e riprendiamo la strada per il porto di Tartus. Piano piano la luna prende il posto del sole, rinfrescando l’aria mediterranea. In lontananza, la presenza del mare comincia a farsi sentire.
(1. continua)