L’estate mediterranea è lontanissima. L’aria è frizzante, a tratti pungente. La luce muta all’improvviso, si opacizza, ti inganna e poi ti sorprende abbagliandoti. È candida, gialla, rosa-arancio, azzurrina oppure cinerea. La nebbia, densa come fuliggine, appare di colpo e scompare altrettanto velocemente: come comandata da un enorme, invisibile, interruttore meteo nascosto tra i cirri gonfi. E può capitare, quando fa buio, un’istantanea “visione” dell’aurora boreale. Dipende da che umore è a quell’ora l’Oceano, dipende dal calendario, dipende se è uno dei 260 giorni l’anno in cui piove. Dipende. Alle Faroe niente è mai scontato. Lo impari subito, non c’è bisogno di parlare danese o foringio.
Il vento del Nord ti strapazza appena scendi dalla scaletta dell’aereo, a ricordarti che nulla qui è comodo, men che meno turistico. Neppure lo strano bagaglio che ti sei portata appresso: alcune maglie termiche, calzettoni di microfibra, scarponcini da trekking, troppe emozioni e abbondanti aspettative. Nell’esatto momento in cui l’occhio guarda giù, dal finestrino dell’airbus Sas partito tre ore e mezza prima da Copenaghen, comincia il vagare dello sguardo, la frenesia dell’immagine unica, la corsa a catturare il mai visto, il pungolo del luogo da Instagram. Sarà mica un caso che i più considerano le Faroe Islands il paradiso dei fotografi? E pensare che etimologicamente sono (in lingua Norrena) semplicemente “isole delle pecore”: collegate da tunnel, traghetti e ponti. Ma i numeri svelano nuove conoscenze. Diciotto “sorelle”, di natura vulcanica, originate tra Scozia, Islanda e Norvegia, vale a dire: Atlantico del Nord. Autonome, fuori dalla Ue, con tanto di mini-parlamento e bandiera, sotto l’egida storica e culturale di mamma Danimarca. Ottantamila pecore di razze diverse, cinquantamila uomini (circa) di cui quasi ventimila a Tórshavn, la capitale piazzata sulla costa orientale di Streymoy, la più grande delle isole. Centocinquantotto specie di uccelli marini che animano gli impressionanti faraglioni, la pulcinella di mare - (fratercula arctica o più confidenzialmente puffin) icona e mascotte nazionale (insieme alla onnipresente pecora) - che popola con migliaia di esemplari l’isola di Mykines (dove nidificano), raggiungibile solo in traghetto o in elicottero, se tempo e mare lo permettono. A noi non lo hanno, purtroppo, permesso. Quindi: il reportage dell’escursione resta all’immaginazione.
Siamo a tremila centoventicinque chilometri di distanza dal Polo Nord. Migliaia di cascate che si insinuano tra le colline per diventare ruscelli o precipitano a balzo nell’Oceano e centinaia di allevamenti di salmoni - saporiti e gagliardi - che danzano in vasche circolari (di rete) in mezzo al mare prima di essere esportati e consumati in tutto il mondo. Alture erbose a perdita d’occhio, zero presenze di alberi (causa vento intenso e pecore sovrane), sabbia nera, casette basse, colorate, con il prato a far da tetto e le tendine di merletto che non oscurano gli interni. Rocce aguzze in mezzo al mare agitato, pesci di grandi dimensioni (la balena, per esempio) e qualche foca dispettosa tra le onde che sfugge agli obiettivi dei fotoreporter. L’aria è quieta, i supermarket Bonus si camuffano da hangar e hanno un maialino giallo, gigantesco, come insegna. I prezzi sono alti (pari agli stipendi), per alcuni prodotti ortofrutticoli quasi esorbitanti. Si coltiva poco e in serra, la frutta è un bene prezioso. Unico cibo diffuso ed economico: il salmone. In cucina vince su tutto il metodo della fermentazione che gli chef europei cercano di imitare. Poi ci sono i record: quelli delle Faroe meritano un capitolo a parte.
Sbarcare qui in settembre significa vivere quindici ore al dì di luce con mille sfumature, ma a giugno le ore arrivano addirittura a venti. Uno spettacolo continuo di nubi dalle forme circolari, squarci di bianco puro seguito da pioggerelline fitte e sottili come capelli di un bebè. Il sole durante questo viaggio ci lascia, fortunatamente, ampi ricordi del suo splendore. Con somma soddisfazione dei colleghi fotografi. Ma come si diceva: Il meteo? Dipende. Un vecchio detto delle Faroe recita: “Non ti piace il clima? Aspetta quindici minuti”. La variabilità, insomma, è la norma, sebbene l’inverno prometta nevicate limitate e temperature meno rigide di quelle islandesi.
La mattina, il pomeriggio o magari la sera di un giorno di fine estate qualunque, appena usciti dal Porto di Thor (Tórshavn) affollato di barche, si ha la sensazione di trovarsi in una terra semidisabitata, dove l’uomo non è che una sporadica parentesi nella grammatica della natura. E tra gli uomini spiccano senz’altro i suoi cuccioli: tanti bambini (il tasso di natalità alle Faroe è di 2,29 figli per donna contro il tasso medio europeo che non arriva a 1,4), belli, biondi e soprattutto liberi di andare. In triciclo o a spasso e a dar calci al pallone. Li incontri sempre da soli, senza adulti a far da sentinella. La criminalità quasi non esiste. Le strade (larghe e ben asfaltate) tagliano lande verde smeraldo e altipiani dove brucano h 24 pecore per lo più allo stato brado. Almeno in apparenza. Non che le Shetland, le Merinos o le Lincoln dal muso bianco-nero-fulvo-argento e dal vello carico di lana pregiata siano prive di padrone-allevatore. Gli ovini hanno quasi tutti un laccio colorato al collo, un chip-gps, un marchio identificativo, di rado un campanello, tuttavia possiedono pochissimo istinto di gregge e vivono all'aperto tutto l'anno. Magari in piccoli gruppi nei pascoli, oppure abbarbicati alle rocce a picco sul mare. Brucano, inscalfibili da tormente, pioggia e sole cocente. Unica compagnia: gli intelligentissimi Border Collie che sorvegliano, le oche selvatiche che arrivano qui per rifornirsi prima di continuare il volo verso destinazioni più miti, le anatre (rigorosamente in famigliola come nei cartoni animati) e centinaia di cavalli delle Faroe. Una magnifica razza dalla folta criniera, zoccoli grandi, pelo ispido e una più modesta altezza al garrese, rispetto alla media della specie, perché nata per il lavoro. E un po’ (magari) per essere fotografata da chi arriva fin qui con occhi “urbanizzati”, disabituati a tanto zoo nomade.
Viaggiatori in preda ad illusione fantasy. Così che in cima ad ogni altura si crede possa spuntare Gandalf e con lui l'universo creato da Tolkien per “Il Signore degli Anelli”. Ciò che si vede spostandosi in auto da un capo all’altro dell’arcipelago, viceversa, sono centinaia di pale eoliche, tecnologicamente avanzate, disseminate lungo chilometri di prati. Qui ci si è posti, infatti, l’obiettivo di chiudere le centrali a combustibili fossili entro il 2030 per trasformarsi nell’arcipelago più verde del pianeta. Un progetto lungimirante e possibile, visto che il principale produttore e distributore di energia elettrica (Sev) delle Faroe sta facendo in modo che il 100 per cento dell’elettricità venga prodotto da centrali idroelettriche, solari, eoliche e mareomotrici.
Acqua, sole, vento, mare. Alle Faroe restano l’essenza della vita. E non c’è esperienza che non ci giri intorno. Obbligatorio per il viaggiatore arrivare a Vestmanna, sull’isola di Streymoy, un villaggio di poco più di mille anime. Fare un salto al Visitor Center, dove le pelli di pecora sono in vendita a 1200 corone faroensi, buttar giù qualcosa di caldo che somiglia vagamente ad un caffè e mettersi in fila indiana per l’imbarco su un battello. Sarà un tour indimenticabile. Giusto il tempo di sedersi, coprirsi con giacca a vento e cappello, aggrapparsi al corrimano di ferro e comincia l’avventura. Un paio d’ore in tutto, la metà delle quali in mezzo alle onde che ti schiaffeggiano, agli antri e ai faraglioni che chiamano fotografie e attenzione. Difficile rimanere stabili, alzare la camera, inquadrare, scattare. Si costeggiano grotte-gruviera in cui stormi di indistinguibili di uccelli volano in ogni direzione. Sono migliaia di puntini che “sporcano” con figure geometriche il cielo azzurro: gabbiani, pulcinelle di mare, piccoli falchi, anatre e una moltitudine di esemplari a noi sconosciuti. La barca s’infila tra maestosi canyon assolati, i faraglioni sembrano abnormi spade nere che svettano verso dimensioni spaziali.
All’improvviso comincia a piovere, lo stridore dei gabbiani diventa concerto, caos. Gli spruzzi salati ci inondano e si mescolano alle gocce: un po’ di bagno e un po’ di doccia per passeggeri sbalorditi, ma lo spettacolo impedisce le lamentele. Il mal di mare si fa largo. I giapponesi incassano senza fare una piega. È una natura rude quella che ci circonda, nessuna ruffianeria: se sei arrivato qui, stai al gioco. Il comandante avverte: “waves”, e ci si sposta un po’ più in là per non essere colpiti sebbene serva a poco. Fradici e infreddoliti si torna in porto. Sulla rotta c’è un premio inaspettato: due foche fanno capolino tra i flutti. Chi è più tempestivo coglie l’attimo, gli altri si accontentano dell’entusiasmo dei compagni.