Conosco la Sicilia occidentale del latifondo, e quella dalla natura imprevedibile del messinese, con le sue fiumare secche che si riempiono all’improvviso, le montagne che franano. In questo viaggio ho scoperto la Sicilia dei Monti Iblei, che coincide con la Sicilia tardo barocca del Val di Noto ed è stata resa popolare dalla serie televisiva del Commissario Montalbano. Per varietà morfologica e stratificazione delle sue civilizzazioni, la Sicilia è un piccolo subcontinente.
È un viaggio a piedi, uscire dalle autostrade che tirano dritto scavallando i territori aiuta a cogliere le differenze. Anche per i trasferimenti in pulmino abbiamo utilizzato le SP (strade provinciali), costeggiando poderi, ville, mandorleti, vigne e agrumeti. Le Provinciali affacciano come terrazze sul paesaggio ondulato e morbido, talvolta aprono la vista sino al mare, tal altra uno sperone roccioso la chiude.
Nanni Di Falco, guida escursionistica ragusana, ama e conosce la sua terra a menadito, ha condotto un gruppo di 12 persone per la “Compagnia dei cammini”.
La diversità degli Iblei si percepisce immediatamente ma ci vuole tempo per metterla a fuoco e scoprirne le ragioni. La differenza più eclatante, però, conviene anticiparla subito: questa non è terra di mafia. Provincia babba – si dice in dialetto – cioè provincia scema. Ma questa “babbiosità” è alla base di una qualità della vita alta, rilevata dai parametri statistici: “Il ragusano risulta l'area della Sicilia in grado di produrre a livello locale più ricchezza economica per i propri abitanti”.
Ibla, la parte antica di Ragusa, è in basso rispetto al nuovo abitato. Per nuovo abitato si intende quello sorto a seguito del terremoto del 1693 nell’altipiano.
La scelta di ricostruire più in alto aveva una particolare ragione sociale: una classe dinamica di nuovi ricchi, di borghesia agraria, che voleva dar prova di autonomia e del conquistato benessere, lasciò il vecchio borgo dove era insediata la nobiltà feudale. Ma la vecchia nobiltà iblea non si diede per vinta, le due aristocrazie, la nuova e la vecchia, fecero a gara nella ricostruzione. A Ibla il duomo di San Giorgio è uno dei più magnifici esempi del Barocco di Val di Noto. A Ragusa di Sopra, dall’impianto razionale settecentesco, c’è la cattedrale di San Giovanni Battista.
Le due Raguse sono collegate da una stretta via fiancheggiata a monte da balze di roccia chiara, in qualche punto vi si incontra una cascata d’acqua che arriva a valle nella cava, poi da una lunga e tortuosa scalinata con terrazze che si aprono sulla vallata. Sulla scalinata si affacciano chiese risalenti all’epoca bizantina, Santa Maria della Scala, Santa Maria dell’Itria, Santa Lucia e palazzi rococò, come – stupendo – quello della Cancelleria. Le chiese, danneggiate dal terremoto, nell’aspetto attuale sono state ricostruite nel XVIII secolo ma spesso conservano elementi più antichi. Una delle caratteristiche del barocco post-terremoto sono le torri campanarie, che non svettano come un tempo, abbastanza basse fanno da contrafforte al corpo del tempio.
Sull’altipiano, in continuità, è cresciuta a dismisura anche la Ragusa novecentesca, sviluppatasi attorno ai pozzi petroliferi. Il sogno di Mattei ha significato molto per Ragusa, il petrolio la emancipò da un’economia di agricoltura di sussistenza, l’ENI dava lavoro a tutti. Oggi i pozzi sono esausti, gli impianti attivi producono asfalto e bitume.
In quegli anni Ibla si è spopolata, solo pochi contadini anziani, al fresco del tramonto, sistemavano le loro seggiole lungo le sue strette stradine medievali. Tutti gli altri abitavano sopra, vicino alle zone industriali.
Nel tardo autunno Ibla è, come Venezia, pressoché vuota. Nanni ci abita da quando, ragazzo, decise che l’ENI non faceva per lui e si licenziò, lasciando di stucco il padre. Dopo un po’ di esperienze nel continente è tornato per la nostalgia della luce e del vento di queste parti. Sono stati i giovani ragusani – considerati pazzi dai loro vecchi – a riscoprire Ibla come luogo dove vivere, poi sono arrivati gli altri, dal Nord Italia, dal resto del mondo, che vengono in vacanza. Il ristorante di Ciccio Sultano lavora tutto l’anno e c’è chi fa il viaggio solo per il richiamo della sua cucina siciliana e creativa a due stelle Michelin (sta lottando per avere la terza stella). Dal suo ristorante “il Duomo”, andando verso la cattedrale di San Giorgio la città si anima, comitive di ragazzi affollano l’unica trattoria a buon mercato aperta in questa stagione. Più avanti fa mostra di sé il “Circolo della conversazione”, edificio art nouveau, una sorta di manifesto del decoro e della prosopopea dell’aristocrazia di provincia che lo costruì. È una delle location del Commissario Montalbano come il poco distante, barocco, ex palazzo comunale (Ibla un tempo faceva comune).
Gradini ripidi portano dal cimitero di Ragusa a cava San Leonardo, ci sono i resti di alcuni mulini che un tempo servivano la comunità agricola, la ruota in questa tipologia di mulino gira (girava) sott'acqua, in orizzontale.
Anche se la tecnologia dei mulini è in disuso, ovunque nei paesi della zona troveremo panifici che producono con grani antichi e locali. La vocazione agricola sta al passo con i tempi e offre ai turisti spunti (spuntini) gastronomici deliziosi. Nei panifici trovi anche focacce e le scacce (o scaccine) ragusane ripiene (cipolla, pomodoro, ricotta, ragusano, verdure).
Risaliamo dal corso del San Leonardo fino a un piccolo monastero abbandonato che, si narra, fu teatro di un delitto di sangue: il priore aveva esercitato lo jus primae noctis su una ragazza ammogliata. Il marito geloso salì all’eremo e lo infilzò. Sormontata la via di San Leonardo, ci troviamo sull’altipiano, in zona di pascolo, poi rientreremo a Ragusa per Cava San Domenico.
Morfologia e nomenclatura di questi luoghi richiedono alcune precisazioni linguistiche.
I Monti Iblei non sono monti ma un grande altipiano, le cave non sono cave come le intendiamo nel continente ma fratture dell’altipiano, strette valli nelle quali precipitano le numerose acque di sorgente, vie di comunicazione verso il mare e di collegamento fra uno sperone di roccia dell’altipiano e l’altro. Sono fenditure naturali, non scavate, canyon le cui alte pareti hanno ospitato per millenni (dal XXII secolo a.C. circa) nelle grotte comunità che vivevano di agricoltura e di commercio. Sicani e poi Siculi vi si erano rifugiati in tempi in cui vivere sulle coste era diventato pericoloso. Vi sono anche tracce più tarde, eremi, chiese e affreschi rupestri, di epoca bizantina.
Gli Iblei sono un lembo di placca africana che preme su quella appenninica. La roccia chiara (bianco-giallo-rosea) è calcare. Questa è una caratteristica molto importante perché il calcare trattiene, assorbe e conserva l’acqua, sicché, anche se piove poco (siamo a sud di Tunisi), qui l’acqua non è un bene scarso. Fattore geologico da non sottovalutare – secondo Nanni. Se la mafia non ha attecchito, forse si deve anche al fatto che non c’è stato il monopolio dei padroni dell’acqua che decidono a chi darla e a chi no. Segno brutto dei tempi nostri: l’erogazione dell’acqua pubblica potabile nei centri abitati oggi è razionata.
L’altipiano è battuto dal vento, a parte qualche carrubo sparuto, è tutto a pascolo, perché non è possibile coltivare alcunché. È il regno delle vacche modicane, piccole, marroni, producono latte molto pregiato ma in poca quantità, con cui si fanno la ricotta e il caciocavallo ragusano. Ci sono anche le frisone, più grandi e più produttive, ma noi andiamo a mangiare la ricotta calda, appena cagliata, in una azienda che ha scelto di lavorare solo con le modicane. La caratteristica principale del formaggio ragusano è il foraggio, costituito dalle essenze spontanee che crescono sull’Altipiano, calendula, trifoglio, timo selvatico, crochi di zafferano selvatico e tante altre essenze di cui non so indicare il nome.
Le masserie sono anch’esse in pietra calcarea, i poderi sono divisi da muri a secco, l’ultima fila di pietre (quella a chiudere in alto) è arrotondata nella sommità a formare cupolette dalle quali acqua e terra scivolano, impedendo alla vegetazione spontanea di crescervi. Al centro dei poderi spesso si trova una strana costruzione trapezoidale, il muragghiu, sono le pietre derivanti dallo spietramento, la pulitura del terreno, e addossate le une sulle altre, un deposito – in buona sostanza – che potrà venire utile per molti usi. Purtroppo, però, anche qui il tempo è diventato denaro e, talvolta, le pietre sono solo disordinatamente ammucchiate, non viene loro data quella forma misteriosa e magica.
Gli scalpellini che lavorano i muri a secco erano (e sono) artigiani altamente qualificati, molto apprezzati nella considerazione sociale e nell’economia della zona. Nel XVIII secolo formarono le maestranze della ricostruzione post-terremoto, lavorando sotto la direzione dei grandi architetti del barocco. Alcuni di loro sono gli scultori dei palazzi e delle chiese di Val di Noto.
Il muro a secco che delimita e organizza il paesaggio dell’Altopiano è la più macroscopica differenza con le arse terre del latifondo della Sicilia Occidentale, dove lo sguardo spazia senza limite sulla terra desolata. Il bianco della pietra sottolinea anche che questa non è la terra lavica della confinante zona etnea. Ma a spaccarla, la tenera pietra calcarea, rivela un cuore nero. Terra di petrolio, terra bituminosa. Molti manufatti, nelle chiese del ragusano, sfruttano questa proprietà del calcare che è bianco ma può essere anche scuro (da non confondere con la lava), per giocare sul bicolore: acquasantiere, colonne, statue, pavimentazione.
L’Unesco considera “l’arte dei muri a secco il più importante modello di organizzazione del paesaggio del Mediterraneo” e pare che l’invenzione di questa tecnica si debba alla Contea di Modica.
A metà del Quattrocento il conte Giovanni Bernardo Cabrera Aragona era in difficoltà finanziarie e doveva pagare 60.000 scudi al fisco del re. Per togliersi dai guai prese due provvedimenti, vendette (come allora si faceva) parti del Feudo (si intende centri abitati con i relativi cittadini, i quali se non volevano essere venduti riscattavano con gli interessi il territorio dal nuovo padrone) e frazionò in enfiteusi altre parti del territorio, in cambio del pagamento di un canone annuo in denaro o natura. L’enfiteusi ben presto divenne da temporanea vitalizia e poi perpetua, rivoluzionando l’economia del territorio, dove mise radici una classe di proprietari di piccola e media borghesia agraria, che col tempo si nobilitò acquistando i titoli di nobiltà.
Fu così che una disastrosa gestione finanziaria si trasformò in una riforma involontaria ma importantissima, le cui conseguenze arrivano fino ad oggi. Scomparve il latifondo, ci fu uno straordinario boom demografico, l’agricoltura da estensiva divenne intensiva, grazie alle nuove ricchezze fiorirono le città di Modica e di Ragusa. Ed ecco un’altra possibile ragione, socio-economica, del fatto che qui la mafia non ha attecchito: la scomparsa del feudo, il frazionamento della proprietà, il formarsi della classe agricola dei massari.
(1. continua)