Cara Foglieviaggi, oggi vorrei raccontarti... raccontarti di come ho suonato jazz a San Francisco...
Ci sei cascata, eh! Il fatto è che, in sé, non è proprio una bufala: se nella hall di un albergo di San Francisco c’è un piano, a portata di clienti, e io mi siedo e strimpello improvvisando il refrain di 'I left my heart in San Francisco', perché non potrei dire che ho suonato jazz a San Francisco?
Viceversa, il bel piano che sta a Palazzo Leoni Montanari, a Vicenza, non ho potuto suonarlo. E mi attirava molto.

E quindi oggi vorrei raccontarti come sono finito all’Olimpico di Vicenza. Sì, anche fra il pubblico, ma soprattutto sul palco. E questo è vero.
Potrei prenderla da lontano, col Gruppo Zero di Salerno, quando mettemmo in scena 'Il trapianto del trauma', di Jules Feiffer (1969), e io scrivevo lettere dal Vietnam a mia madre; o da ancora più lontano, quando, sempre a Salerno, fui Flaviano, martire cristiano, per ben cinque atti di filodrammatica cattolica, alla fine dei quali il mio personaggio morì (fine anni ’50).

Ma non voglio parlare di me, tanto l’ho già fatto e continuerò senza vergogna; voglio solo descrivere l’emozione di chi, non avendo mai fatto l’attore, ma il professore, magari un po’ orattore, si è trovato, grazie ai Classici Contro, a conoscere in un solo momento Vicenza e il Teatro Olimpico, molti anni fa, e periodicamente ci ritorna.

Se Vicenza non avesse Palladio... ma la prima rima che mi viene in mente è stadio, e quindi il pensiero corre a Paolo Rossi. Ma Palladio era uno pseudonimo: si chiamava Andrea Pietro della Gondola, quindi meglio lasciar stare le rime.
Uscendo dalla stazione di Vicenza, l’Olimpico bisogna conquistarlo. Come l’Olimpo, del resto, per chi vuole diventare re degli dèi. E come Olimpia, che se vuoi vedere un tempio o una rovina antica devi prima passare attraverso bancarelle, souvenir ecc.
Ecco, a Vicenza, prima di arrivare all’Olimpico, devi passare per un parco giochi, giostre e ruota comprese.

Ma poi, quando termina Viale Roma e giri a destra, intravedi subito gli archi di una porta. E quindi, sotto il vigile sguardo di Garibaldi, imbocchi corso Palladio e lì cambiano i colori.


Il bianco dei marmi, l’eleganza dei tavolini e dei bar, i primi portici accoglienti ti guidano verso la meta, che non è ancora in vista, perché, stranamente, per salire all’Olimpico si scende verso il verde e verso il fiume Bacchiglione.

Prima di un ponte sul fiume c’è anche Neri Pozza, che continua a scrivere e a stampare libri.


Il premio finale, la discesa/salita all’Olimpico, comporta alcuni assaggi e passaggi di tutto rilievo: eccoci di nuovo a palazzo Leoni Montanari, non palladiano, primo insediamento delle Gallerie d’Italia (quando le banche fanno del bene), con una riuscitissima mostra sulle trecce di Faustina; il pomposo palazzo Chiericati col Museo Civico; il Museo Archeologico Naturalistico, con la mostra sui Coleotteri; mentre a Palazzo Thiene, qualche centinaio di metri più su, ci si poteva stupire per la mostra sul Sonno ‘bestia’.
Tra parentesi: so che non ho parlato di Piazza dei Signori. Sì, l’ho vista, ci sono passato varie volte, ma so anche che non si può avere tutto da foglieviaggi.




Le radici di una storia nobile e decorosa sono ancora visibili, a segnalarne la profondità, proprio dinanzi a palazzo Leoni Montanari.

Ma è bastato, durante la mattina, dare uno sguardo dall’alto, dal Santuario di Santa Maria di Monte Berico, e scorgere l’insolita meridiana, per leggere Vicenza come crocevia di culture e di direzioni del mondo, quasi come indicavano le distanze i cartelli nei misteriosi corridoi sotterranei di Underground di Emir Kusturica.


Con gli occhi pieni di luce, eccomi pronto per l’Olimpico, spiato prima dall’esterno, perché ancora c’è da lavorare per dargli un nuovo volto; poi conquistato fin nei più diabolicamente illuminati recessi, incantato dal coro del Liceo Montale di San Donà che canta la favola dell’usignolo e dello sparviero di Esiodo, o dagli straordinari alunni e alunne del Liceo Pigafetta di Vicenza che coinvolgono il pubblico nelle vicende calviniane di Marcovaldo.




Salire sul palco, essere oratore e pubblico nel giro di pochi attimi, rimane quindi esperienza memorabile, come suonare jazz a San Francisco.


Se c’è tempo, prima di ripartire, fa piacere fermarsi all’Osteria il Cursore, per mangiare alla vicentina, bere un Soave e passare il tempo con gusto e poca spesa.

Chapeaux, dunque, proprio al plurale, per Vicenza, e per Palladio.
