Quando lo percorri per la prima volta, seduto a bordo del comodo pullman cinese con i finestrini panoramici che ti scarrozza su e giù per le meraviglie di Cuba, ti lascia sgomento. Perché sembra che sia stato appena bombardato da un aereo che seguiva una rotta casuale, sganciando qua e là ordigni di dimensioni e di potenze diverse.
Sì, il waterfront del Malecòn sembra proprio una città sventrata da un bombardamento. Ma come mi pare di averti già scritto, qui a Cuba non è quasi mai come sembra.
E infatti, se hai voglia di farti una passeggiata sotto il sole dell’Avana vedrai che le macerie che interrompono la sequenza degli eleganti palazzi sul lungomare della capitale non sono quel che resta di un bombardamento pazzo.

Tutti lo chiamano Malecòn, ma il suo nome ufficiale sarebbe Avenida de Maceo, anche se persino la segnaletica stradale propende per l’alternativa più popolare. In sostanza, si tratta di una barriera di contenimento per proteggere L’Avana dalle onde dell’Atlantico che lì oggettivamente frange forte. Il muraglione è lungo 8 km ed è stato costruito a partire dal 1901 per volere del governo provvisorio statunitense e poi proseguito dai governi cubani fino al 1952, quando è stato completato il tratto vicino alla foce del Rio Almendares. L’oceano frange, ti dicevo, ma se casomai volesse arrivare a lambire i palazzi dovrebbe attraversare una strada a sei corsie. Nel periodo in cui sono rimasto all’Avana non è mai successo, però ho visto qualche onda più impetuosa scavalcare il parapetto e schiaffeggiare le panchine più vicine. Il Malecòn parte dal porto dell’Habana Vieja e arriva al Vedado, che è il quartiere più americano della città: se non fosse a Cuba potrebbe essere Miami.
Il primo snodo del Malecòn è il Castillo de San Salvador de la Punta. È del XVI secolo e ospita un Museo di oggetti recuperati dai relitti delle numerose navi spagnole affondate nei dintorni. Da qui un tempo per chiudere di notte l’accesso al porto si tendeva una grossa catena che faceva capo sull’altra riva della baia al Castillo de los Tres Reyes Magos del Morro. Per annunciare la chiusura del porto, dalla fortezza si sparava un colpo di cannone, ogni sera alle 9. Beh, l’usanza è rimasta. Pertanto se sei a cena in un ristorante all’aperto dell’Avana Vecchia e sul più bello senti un botto non c’è bisogno di spaventarsi: ora sai cos’è. Sui bastioni del Morro, che è una delle tre fortezze del sistema difensivo costruito dagli spagnoli nel Cinquecento, c’è un faro di epoca molto più recente (1845) che dall’alto dei suoi 45 metri finisce per contraddistinguere quel tratto di costa.
Anche se sull’altra sponda, a cento metri da San Salvador, un altro elemento architettonico di forte impatto prova a contendergli il panorama. È l’hotel Royalton Paseo del Prado, albergo di gran lusso da 250 camere costruito dal gruppo francese Accor e inaugurato in pompa magna nel 2019 da Raul Castro. Però subito dopo è scoppiata la pandemia e l’hotel, seguendo la sorte di tutte le strutture turistiche dell’isola, è rimasto praticamente vuoto per molti mesi e alla fine è stato ceduto al gruppo canadese Blue Diamond Resorts. Perché ai canadesi piace moltissimo Cuba: leggo che sono i turisti più numerosi sull’isola e che non hanno mai smesso di venire, nemmeno durante il Covid, prediligendo tuttavia villaggi e resort delle spiagge caraibiche o lungo la costa settentrionale.
Accor, che aveva investito una cifra non meglio precisata tra i 20 e i 40 milioni di dollari, ha ceduto l’hotel a Bdr nell’agosto 2022, quindici giorni dopo la morte di Luis Alberto Rodriguez Lopez-Calleja, numero uno di Gaesa - gruppo imprenditoriale delle Forze Arnate cubane con interessi che vanno dagli alberghi alla vendita di prodotti locali in moneta straniera - nonché ex genero di Raoul Castro. Lopez-Calleja era considerato un punto di riferimento di Accor sull’isola.

Sì, lo so, sto divagando, ma ormai mi conosci, son fatto così, sono curioso, mi faccio un sacco di domande e poi non mi placo finché non trovo le risposte. Ti parlavo di macerie e sono finito a raccontarti di un hotel di lusso. Ma non è un caso perché il Royalton è il punto di partenza per il viaggio verso le macerie. Subito dopo, il waterfront del Malecòn comincia a sfarinarsi. C’è per esempio un edificio a tre piani la cui facciata è decorata con mattonelle bianche e azzurre che sembrano azulejos. Ma appunto è tutta facciata: dietro le finestre senza cornice si vede già il cielo e al piano terra sotto gli archi decorati si accumulano i detriti. Alcune porte sono murate, altre protette dalle inferriate perché l’edificio è evidentemente pericolante.
La palazzina accanto è abitata, ci sono i panni stesi sui balconi e sull’altro fianco si impenna un grattacielo che probabilmente ospita uffici pubblici: davanti all’ingresso, sul marciapiede, c’è una coppia di agenti di guardia. Poco più in là invece due muratori ridipingono la facciata bianca di una palazzina seduti su un ponteggio calato dal tetto con un sistema di funi e carrucole. Senza fretta. Il caldo picchia già di mattina, anche se le statistiche meteo dicono che questo è uno dei periodi più freschi dell’anno. Così proseguo, ma anch’io senza fretta.
Due o trecento metri più in là l’effetto bombardamento mostra il meglio della messinscena. I palazzi sono scheletri, ma i segni della vita che abitava tra queste costole spolpate sono ancora molto evidenti. Forse addirittura rinfrescati di recente. Può essere un bidone di plastica tagliato in senso longitudinale che un tempo fungeva da lavandino; o forse è quella palma da cocco affrescata sul muro di un ambiente sventrato che chissà? - una volta poteva essere una camera da letto. Tutte le strutture collassate sono di cemento armato e sembra che siano state polverizzate da un terremoto. Diverse mani di pittura si sono susseguite per decenni sulle pareti degli appartamenti “bombardati” e ora si riflettono scrostate in una grande pozza che l’ultima pioggia ha lasciato ai piedi dell’edificio diroccato.
Ma oltre c’è vita vera: le vecchie macchine americane anni 50 spremono nei cilindri le ultime gocce di benzina disponibili, una donna stende il bucato, un uomo ripara una moto in strada. È ancora presto per sentire erompere da un bar le note di “Besame mucho”, ma me lo aspetto da un momento all’altro. Nell’attesa, mi imbatto nel ristorante Marechiaro e dico “ecco, pure qui”. Una foto dell’ingresso con la prospettiva del Malecòn non posso evitarla e intanto cerco di immaginare come potrebbe essere un piatto di trenette all’aragosta con il sughetto di pomodori locali... Ancora qualche passo e mi aspettano almeno tre sorprese e ancora più in là altrettante storie che ti voglio raccontare.

Intanto le sorprese. Sì, ci sono le macerie, ma c’è anche la speranza di un cambiamento. Poco oltre Marechiaro c’è un bellissimo edificio in stile neoclassico, con le colonne di tufo divorate dalla salsedine. Un buon numero di assi inchiodate alla facciata impedisce il distacco di calcinacci e una recinzione metallica tiene alla larga ardimentosi e sbadati. Un cartello annuncia: “Obra in demoliciòn”. L’edificio andrà giù dunque e un altro ne sorgerà al suo posto. Forse non sarà altrettanto sontuoso, ma ormai è tardi per pensare al recupero dell’originale: della palazzina è rimasta soltanto la prima quinta, il resto è ridotto in briciole al piano terra. Sì, questo è patrimonio dell’umanità Unesco fin dal 1982 e andrebbe tutelato, ma i fondi che pure arrivano regolarmente dall’organizzazione benemerita delle Nazioni Unite non bastano mai e bisogna fare i conti con la realtà.
Pertanto, sono diversi gli edifici “in demoliciòn” e se hai voglia di proseguire ti faccio vedere quale potrebbe essere un’idea di riqualificazione. Un po’ più in là c’è un locale, che di sera credo faccia musica dal vivo, dove in pratica è stato risanato solo il primo livello della struttura portante di un palazzo demolito. Il risultato è la creazione di una serie di spazi aperti delimitati a forma di parallelepipedo da colonne e traverse di cemento armato ben intonacato: scatole delle cui pareti ci sono soltanto i contorni insomma.

Più avanti invece, demolendo qua demolendo là, è stato ricavato uno slargo: le facciate degli edifici sopravvissuti ai colpi di maglio sono state dipinte con i colori che ti aspetti a Cuba e fanno da sfondo a una straordinaria scultura realizzata con acciaio riciclato dall’artista Rafael San Juan, in occasione della Biennale dell'Avana, nel 2015. Vuole rappresentare la fierezza delle donne cubane. E ci riesce benissimo. Il gigantesco volto femminile, ispirato alla prima ballerina del Balletto Nazionale Cubano, Viengsay Valdés, non è rivolto verso l’oceano come ti potresti aspettare, ma dirige uno sguardo pieno di orgoglio verso una porzione risanata del Malecòn.
L’opera pesa due tonnellate, è alta 8 metri e si chiama Primavera. Intorno al suo basamento ci sono alcune panchine colorate e se facesse un filino meno caldo mi siederei lì a rimirare quel viso forte, così realistico eppure evanescente come una visione. Dài, facciamo ancora un po’ di strada. Nel frattempo, tra una rovina e l’altra, ti racconto le tre storie. La prima è quella dell’Hotel Riviera. Fu fatto costruire lungo il Malecòn dal braccio destro di Lucky Luciano, Meyer Lansky. Tra il ‘57 e il ‘59 nel lussuosissimo hotel funzionò anche un casinò che si trovava in una struttura adiacente di forma ellittica. Mi raccontano, e io così ti riferisco, che il suono delle fiches lanciate sui tavoli da gioco fosse in grado di raggiungere tutti gli ambienti dell’hotel, allo scopo di invogliare gli ospiti a tentare la fortuna.

La seconda storia racconta sempre di grand hotel e di mafia italo-americana. Riguarda l’albergo più famoso e più visitato dell’Avana: l’Hotel Nacional de Cuba. Inaugurato nel 1930, è un gigantesco complesso che con il suo porticato sembra voler abbracciare tutta la baia. La vista è straordinaria, il Daiquiri eccellente e infatti una giovane donna asiatica ne manda giù uno dopo l’altro, però con calma, mentre il suo sguardo rivolto verso l’oceano rombante cerca di bucare la cortina fumogena del grosso sigaro che aspira stringendolo tra indice e medio con quel pizzico d’ansia di chi è alle sue prime esperienze e cerca di evitare che il tabacco si spenga. Avevo di lei due foto, una più bella dell’altra: le ho cancellate entrambe per errore.
Vabbeh, ti dicevo dell’hotel: l’architettura, che accosta art déco e qualche elemento neoclassico, è una doppia croce greca che sale di otto piani ed è opera di Purdy and Handerson, cui si devono altri famosi palazzi come il Flatiron Building a New York. Dell’Hotel Nacional si occupa pure Francis Ford Coppola nel Padrino Parte II. Perché qui si tenne nel 1946 il più grande raduno di boss mafiosi della storia: oltre 500 grossi calibri delle famiglie italoamericane si ritrovarono per discutere dei loro affari lontani dagli sguardi indiscreti dell’Fbi. Poi sì certo, come si conviene, nell’albergo hanno soggiornato personaggi famosi di ogni genere: da Churchill a Sartre e Simone de Beauvoir, da Frank Sinatra a Nat King Cole, da John Wayne a Marlon Brando, da Naomi Campbell a Steven Spielberg. È stato pure teatro di una battaglia, nel 1933, poco dopo il colpo di stato di Batista. Nell’albergo Nacional si erano asserragliati 400 ufficiali che volevano abbattere il nuovo regime. Finì in un atroce bagno di sangue. Quando arriviamo noi l’atmosfera è molto più pacifica e nel grande giardino fronte mare razzolano tra i tavolini polli e galline senza cresta, dallo strano piumaggio chiaro: sembrano pelouche, ma fanno coccodè.

Chiudo la puntata con la terza storia, che in realtà meriterebbe un lungo capitolo. Verso la fine del Malecòn svetta l’ambasciata americana, un edificio bruttino collocato al centro di un recinto che sembra quello di Fort Apache. La sede diplomatica era stata riaperta dal 2016 per volere di Barack Obama che è anche stato il primo presidente Usa a rimettere piede sull’isola dopo ben 88 anni. Ma nel 2017 l’ambasciata è stata di nuovo chiusa perché molti funzionari erano stati colpiti da una strana malattia che provocava perdita di memoria e di equilibrio, nausea, insonnia e forti emicranie. L’avevano addirittura battezzata “sindrome dell’Avana” e si era ipotizzato che fosse provocata da una nuova arma capace di “sparare” onde elettromagnetiche invalidanti, creata forse dai russi o forse dagli stessi cubani.
Ma dopo anni di indagini da parte di sette agenzie governative americane il caso è stato chiuso senza colpevoli e il giallo rimane. Così nel gennaio scorso l’ambasciata è stata riaperta al pubblico e ha ripreso a rilasciare i visti per i cubani che volessero entrare in Usa, soprattutto per ricongiungersi con i familiari emigrati. La regola prevede il rilascio di un massimo di 20mila visti l’anno. In realtà il servizio, secondo quanto ci riferiscono, non funziona granché e l’ambasciata ai miei occhi appare proprio come un fortino circondato da un’ampia zona di sicurezza. Oltre il recinto si intravedono Suv Cadillac enormi e di ultima generazione mentre fuori, sul Malecòn, continuano a passare le vecchie Pontiac abbandonate dagli americani in fuga dalla rivoluzione castrista. Oltre a qualche 124 sovietica, a numerose 126 polacche e ai fiammanti pullman made in China con le insegne delle compagnie turistiche statali...
Guarda però che non mi sono dimenticato di offrirti il miglior Moijto di Cuba secondo Hemingway. Poi ti ci porto, se hai ancora la pazienza di seguirmi in questo tour.
(3. continua)