ITACA
E ODISSEO
UN'ISOLA
DELLA FEDE


La prua del traghetto fende il mare tranquillo. Sulla baia a largo di Sami, da dove siamo partiti a un orario impossibile, spira un frizzante vento di ponente. Lo scafo procede a una velocità di crociera, con una lentezza levantina che dà l’impressione di non essere spinti da un motore ma soltanto dalla forza delle braccia. Il cielo sopra le nostre teste non c’entra nulla con quello solito che si ammira a queste latitudini. È un cielo chiuso, plumbeo a tratti, con un livore eccessivo per una giornata di inizio agosto. Davanti a me, tra gli argani e il cordame, al posto della polena i marinai hanno issato una croce e una bandiera greca. Sotto c’è una campanella scossa ogni tanto dalle folate di vento.

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(Itaca)

Ammiro questo tratto dello Ionio, sospeso tra due continenti, seguendo la scia di due imperi - quello romano e quello ottomano - che non esistono più da tempo. Nel mezzo crisi e rivoluzioni, vivi e morti, sepolture e cimiteri. Tutto mischiato, su questa tavolozza d’azzurro, che poi diventa verde, turchese, blu notte e poi di colpo, con uno scatto felino, digrada in un bianco tanto lattiginoso da ferire la vista. E dietro questa coltre di colori, i profumi. Gelsomini, timo, abeti e rosmarino. Un palcoscenico naturale allestito al solo scopo di offrire alla vista Itaca. O Itachi, se preferite il toponimo alla greca. Due gobbe di colline aride e scheletriche, vestite in pochi tratti di un manto verde e rigoglioso, qualche capra che bruca e saltella fino ai bordi del mare. Nel mezzo una spaccatura, più che un’insenatura, nella quale l’uomo ha portato cemento, banchine e addirittura le strade. Un’ambizione tanto folle da costruirci un porto. Il porto di Aetos, nell’angolo sud-ovest dell’isola.

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(Vathi)

Attracchiamo. C’è solo un chiosco e una distesa di parcheggi vuoti. Abbiamo in dotazione una macchina. Una Peugeot 108, affittataci ad Argostoli da un certo Christos che parla molto bene la sua lingua, abbastanza male l’inglese, e che in italiano sa dire soltanto «ciao» e «grazie». Poco male. Male invece è l’auto noleggiata. Il motore 1000 a benzina fa una fatica cane sulle curve che da Aetos ci stanno portando a Vathi, la 'capitale' dell’isola. Ci arriviamo dopo una serie impressionante di tornanti. E a prima vista non sembra una località itacese. Yacht ormeggiati ovunque, ristoranti chic e colorati, diportisti annoiati, e petrodollari sparsi in giro per le vie del centro. Sembra di trovarsi ad Antibes o a Montecarlo.

Mi accorgo che non è questa la Itaca che sto cercando. Né può essere questa l’isola che per tante notti mi ha tenuto sveglio. Perciò aguzzo la vista, cerco meglio in giro. Finalmente qualcosa trovo. Non ha sapore arcaico, millenario o antico. Semmai è un pezzo moderno che parla di millenni fa. La statua di Odisseo, il re dell’isola che gli spot turistici strombazzano ovunque, è al centro del porto. Tra i ristoranti che friggono calamari e i ricconi annoiati che giocano a burraco. L’ha realizzata la scultrice greca Korinna Kassianou. L’eroe omerico è sullo spuntone di una roccia, con lo sguardo sfidante e fiero incollato all’orizzonte, alle sue spalle un compagno, ormai prossimo alla fine, aggrappato a un remo. Nel suo volto solcato dalla disperazione trovo una certa somiglianza col marinaio del gruppo «Scilla e Cariddi» dalla grotta di Tiberio a Sperlonca. Alla base della statua una scritta e pochi versi tratti dall’Odissea. Io sono Odisseo, figlio di Laerte, e vengo da Itaca.

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(La statua di Odisseo)

Cammino ancora per Vathi ma l’aria che respiro non riesce a riempirmi i polmoni. Perché chi viene a Itaca lo fa soprattutto per propiziare un incontro. E poco c’entra il fatto che sia tutta una storia, che Omero abbia inventato i suoi personaggi e le sue avventure perse in mille altre avventure. Il mito è come la fede. O ci credi oppure no. Non ha la pretesa di stabilire se una cosa è vera oppure no. Il mito, come la fede, serve a curare il proprio animo. Per questo sento di dover cercare più a fondo in questa isola. I miei passi, anzi il mio “bolide” Peugeot, mi riporta indietro, sulla strada che conduce al porto. A metà percorso prendo la deviazione per Stauros e raggiungo una località che si chiama Exogi. Rocce e una boscaglia fitta fanno da contorno a tutto.

Il mare è già in lontananza e se non sapessi di trovarmi su un’isola farei fatica ad orizzontarmi. È qui, davanti a me, che sorge il sito denominato «Palazzo di Odisseo», la reggia dove l’eroe omerico sarebbe ritornato dopo vent’anni. di assenza. Ci sono muri, resti di ambienti di rappresentanza. Erba ingiallita ovunque (il sito non è tenuto benissimo). Spicchi di mare cobalto spuntando di tanto in tanto. C’è silenzio interrotto solo dal frinire intenso delle cicale. Qui gli archeologi pensano abbia vissuto Ulisse. Qui sarebbe avvenuto lo sterminio dei Proci, l’incontro con Argo, il cane fedele di Odisseo e unico capace di riconoscere il proprio padrone dopo il lungo viaggio, l’abbraccio con Penelope e le rivelazioni fatte alla nutrice Euriclea.

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(Il Palazzo di Odisseo)

Sarà così? Ulisse è mai esistito? Ha mai regnato tra queste mura? L’Itaca omerica è questa dove sto mettendo i piedi o è da ricercare in un’altra isola qui vicina (Kefalonia o addirittura tutto l’arcipelago delle Ionie) come sembrano ritenere gli studiosi? È una questione di scienza ma soprattutto di fede, come si è detto prima. Tra questi sassi e questo odore di rovine e rosmarino la mia scelta sento di averla fatta. Odisseo è qui, accanto al focolare di questo corridoio di pietra che una volta doveva essere una corte. È qui, vecchio e incanutito dal tempo e dalle fatiche in mare, che racconta al suo pubblico attonito di mostri marini e di ciclopi; di ninfe e di sirene. In questo pensiero piace perdermi e mi accorgo all’improvviso che un sorriso mi è spuntato sulla faccia. L’Itaca che cercavo, la meta del mio viaggio, l’ho trovata. Il sole batte sulle pietre e a tratti è insopportabile. Ma poco importa. Do un’occhiata al telefono. Tra mezz’ora riparte il traghetto per Sami. Il mio viaggio a Itaca, breve, è finito. Ma chi getta la proprio ancora in quest’isola sa, come ricorda Kavafis, che Itaca è sempre il viaggio e mai una destinazione.

(1 – continua)

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