GLI ANNI
DI PIOMBO
DI UN UOMO
QUALUNQUE

Pucci. Potrebbe apparir bizzarro che proprio questo, Pucci, sia il nome che con più nitore mi torna in mente ogniqualvolta mi tocca, per le più svariate ragioni, ripensare ai nostri “anni di piombo”. Né mi sento di escludere che, più che bizzarra, questa curiosa rimembranza altro in effetti non sia che la melensa deriva d’uno stato d’avanzata senilità. Perché quelli “di piombo” furono davvero tanti anni. Anni tristi e feroci, anni duri lungo i quali, in un susseguirsi di grandi eventi, ho speso una parte grande, fondamentale della mia vita di cronista dell’Unità. Tanti anni e tanti nomi. Nomi importanti, Aldo Moro, Guido Rossa…. Nomi che sono, tutti, indelebili scampoli d’un epoca intera, titoli a nove colonne nelle pagine della memoria.

Eppure, ancor oggi, quando mi chiedo quale in effetti sia stata la vera essenza di quel piombo – diciamo la sua umana sostanza, oltre la cronaca, la politica e le ideologie, in qualche misura anche oltre la Storia – io immancabilmente ripenso a Pucci, alla cagnetta d’incerta razza che, rannicchiata e atterrita nel più oscuro angolo d’una oscura stanza della Questura di Rovigo, incontrai nel tardo pomeriggio del 3 gennaio 1982. “Era con il morto”, mi rispose distrattamente un agente al quale chiesi la ragione di quella inusuale presenza. L’avevano trovata lì, tra le macerie, miracolosamente incolume, il guinzaglio ancora legato al polso del cadavere del padrone. E stavano aspettando che qualcuno venisse “per riportarla a casa”.


(L'attentato al carcere di Rovigo, 3 gennaio 1982)


Il morto – un morto ammazzato - si chiamava Angelo Furlan. E ad ucciderlo era stata, nel primo pomeriggio, mentre passeggiava insieme a Pucci, l’esplosione di un’auto-bomba lungo il muro di cinta del carcere femminile di Rovigo, dal quale erano evase – passando per l’appunto attraverso la breccia aperta dall’esplosione – quattro detenute appartenenti a Prima Linea, una delle più tardive e spietate espressioni del terrorismo “di sinistra”. E giusto per questo io lì mi trovavo: per assistere alla conferenza stampa con la quale il prefetto della città avrebbe, di lì a poco e del tutto invano, cercato di spiegare due inspiegabili circostanze. La prima: come e perché detenute a tanto alto rischio fossero finite in un carcere tanto vulnerabile. E, la seconda: perché quel carcere, già in sé tanto vulnerabile, fosse rimasto privo anche dei più elementari servizi di sorveglianza.

Qualche elemento di cronaca, prima di tornare ad Angelo ed a Pucci. Le quattro terroriste evase quel giorno erano Marina Premoli, Federica Meroni, Loredana Biancamano e Susanna Ronconi. Quest’ultima – una dirigente di primissimo piano di PL - di gran lunga la più importante delle quattro e, di sicuro, primo obiettivo dell’operazione condotta da un gruppo armato guidato in persona da quello che si faceva chiamare “Comandante Sirio”. Ovvero: da Sergio Segio, numero uno di Prima Linea ed autore di alcuni tra i più efferati delitti commessi dall’organizzazione. L’evasione fu, per dirla con le cronache del tempo, uno “spettacolare successo”. Ma la Storia, se di Storia già si può parlare, ci racconta oggi come, in realtà, in quel gennaio del 1982, la “lotta armata” stesse ormai percorrendo – in un crepuscolo senza bagliori né dignità, ma indegnamente cruento – il suo viale del tramonto. Solo pochi mesi dopo l’attacco al carcere di Rovigo, gli agenti della DIGOS avrebbero spettacolarmente liberato – quasi certamente in collaborazione con la Cia, che altrettanto probabilmente aveva parecchi occhi e altrettante orecchie dentro le BR e PL - il generale americano in servizio alla NATO, James Lee Dozier. E, con questo, il sipario sarebbe definitivamente calato – con una scia d’ormai irrilevanti e sparpagliati cascami di inerziale violenza – sulla scena del terrorismo rosso.



Nei giorni dell’evasione, l’organizzazione di Prima Linea era già agli sgoccioli. E presto gli sgoccioli sarebbero diventati una piena di arresti e di defezioni in massa. Lontani erano i tempi degli attacchi al “cuore dello Stato”, anzi dello “Stato Imperialista delle Multinazionali” (SIM). Di quell’attacco non restava, ora, che il rancore sordido d’una sconfitta annunciata, la brutalità d’una strategia che ormai non era che un’inviperita e molto mirata vendetta. Efferata e perdente. Dello Stato borghese – o della lugubre caricatura di Stato che aveva alimentato le loro tesi ed i loro delitti – le BR e Prima Linea avevano ormai, e da tempo, cessato di colpire (ammesso e non concesso che mai l’abbiano davvero fatto) le parti più repressive ed ingiuste. Adesso nel mirino c’erano apertamente i “buoni”, quelli che facevano funzionare la democrazia. O meglio, per dirla col linguaggio dell’estremismo armato: quelli che, facendo funzionare la democrazia, avevano impedito loro di smascherare, di fronte a masse pronte all’insurrezione armata, l’intrinseca natura oppressiva del SIM.

Era stato lungo la sempre più rapida ed oscena discesa in quest’abisso che, giusto tre anni prima, nel gennaio del 1979, Sergio Segio aveva assassinato il giudice Emilio Alessandrini, uno dei magistrati milanesi che, dieci anni prima, dopo la strage di piazza Fontana, aveva smascherato – davvero smascherato, in questo caso – le trame di Stato della “pista anarchica”. E sempre il “comandante Sirio” aveva, nel marzo del 1980, trucidato, all’uscita d’una lezione alla Statale di Milano, l’ex magistrato e professore universitario Guido Galli. Ancora ricordo l’attimo in cui, giunto all’Università, vidi il suo cadavere insanguinato sulla porta dell’aula 202 dove, già ferito a morte, era stato liquidato da Segio con due colpi alla nuca. Che cosa insegnava? chiesi a uno degli studenti. “Insegnava democrazia” fu la risposta. Fu una sconfitta rapida, ma costellata di morti, quella del “terrorismo rosso”. Molti morti. Morti “mirati”, come Alessandrini e Galli. E morti casuali – danni collaterali si chiamano in gergo militare – come Angelo Furlan.



A casa di Angelo, nella prima periferia di Rovigo, mi recai la mattina dopo. Pucci era già tornata a casa - in una casa che, senza Angelo, non riusciva a riconoscere – riscattata da Marta, la sorella di quello che in Questura chiamavano “il morto”. Ed ora era nel grembo di Maria Ciprian, la donna che Angelo aveva sposato nel 1946, da poco finita una guerra che, di se stessa, nulla aveva risparmiato ad Angelo. “È ancora terrorizzata” mi ripeteva Maria mentre, per calmarla, accarezzava Pucci giusto sotto le orecchie dove più le piaceva. “Non mangia e non dorme. Cerca Angelo con lo sguardo e non ci risponde. Forse è diventata sorda...”.

Fu Maria a raccontarmi la storia del “morto”. E lo fece con la splendida, innocente, a suo modo luminosa “banalità” che da sempre si riserva ai “signori nessuno”, alle più invisibili tra le creature che si muovono nel mondo. Poche parole. Ma è proprio a queste parole – ed al ricordo dello sguardo smarrito di Pucci - che io da allora m’afferro ogni qualvolta sento il bisogno di spiegare a me stesso che cosa davvero furono gli “anni di piombo”, o quando affiora, per qualsivoglia motivo, la necessità di ritrovare, dentro di me prima ancora che nella Storia, il senso più umanamente autentico di quegli anni tanto intensamente vissuti come giornalista dell’Unità. Angelo era nato nel 1917 a Stanghella, in provincia di Padova, nel cuore d’un Italia poverissima e contadina che, in quel 1982, già non era che un ricordo del passato. Braccianti erano i suoi genitori. E bracciante era lui. A lavorare in campagna – lavorare tanto per pochissimi soldi – aveva cominciato a dieci anni, appena finite le elementari. Ed a lavorare in campagna aveva continuato fino al 1936 quando, a diciannove anni compiuti, il duce – quello che aveva sempre ragione – aveva da par suo provveduto ad assegnare a lui, come a tutti i giovani della sua generazione, un lavoro più stabile anche se non pagato: quello di andare a combattere – a farsi massacrare in molti casi – sui campi di battaglia di mezzo mondo per la gloria dell’impero da lui fondato.


(L'assassinio del giudice Alessandrini)


Il suo servizio militare era, di fatto, durato nove anni. Prima l’Etiopia, poi l’Albania e, infine, le gelide steppe della Russia dove aveva perduto, per congelamento, due dita del piede sinistro. E per questo, da allora, camminava zoppicando leggermente. Dopo l’armistizio del ’43 aveva, come altri 600.000 soldati italiani, rifiutato l’inquadramento nella repubblica fantoccio di Salò ed era finito in un campo di concentramento in Polonia. Di nuovo, freddo, miseria e fame. E freddo e miseria e fame – attutiti dall’incontro d’amore e dal matrimonio con Maria - era stato quel che aveva poi incontrato anche in Italia, dove era tornato sul finire del 1945. Da Stanghella, si era infine trasferito con la famiglia a Rovigo dove aveva lavorato, quando lavoro c’era, come falegname e meccanico. Ancora una volta, mi raccontava Maria: lavoro molto, pochi soldi. Fino al ‘75, quando era entrato nella Cooperativa Facchini. Pochi soldi, anche lì ma, per la prima volta, almeno un minimo di sicurezza, qualche contributo. A quasi 60 anni, Angelo era ancora, nonostante le molte disavventure, un uomo robusto e capace di caricarsi sulle spalle casse e valige pesanti. Alla metà del 1981, finalmente la pensione. La minima, naturalmente. Poco meno di 200.000 delle lirette d’allora (suppergiù 350 euro d’oggi, direi a naso). Poca roba, ma Angelo e Maria la facevano bastare. Dopotutto proprio questo – farla bastare – era stato il senso della loro vita negli ultimi quarant’anni e passa. Anzi, lo era stato da sempre.


(L'omicidio del giudice Guido Galli)


“Angelo era un brav’uomo – ripeteva Maria – sempre allegro, sempre disposto ad aiutare gli altri”. Al Partito Comunista s’era iscritto nel 1945, appena tornato in Italia. E l’aveva sempre considerata una scelta logica, naturale, quasi automatica. A quale altra forza politica – diceva - poteva aderire uno che aveva la sua storia di morto di fame? In sezione - mi avrebbero quello stesso giorno raccontato i compagni della “Di Vittorio” di Rovigo, da sempre la sua sezione - Angelo ci andava raramente. Ma se un anno la campagna di tesseramento non passava da casa sua, veniva di persona a ritirare la tessera ed a pagare le sue quote. Alle manifestazioni, poi, non mancava mai. Anzi, non mancavano mai, perché ormai da diversi anni, Angelo veniva sempre con Pucci.

E con Pucci, che aveva trovato, appena nata, in un bidone della spazzatura, Angelo passeggiava ogni giorno. Stessa ora, stesso percorso, a meno che non piovesse. Il 3 gennaio del 1982 a Rovigo non pioveva. E subito dopo pranzo Angelo aveva, come sempre, infilato il cappotto e messo il guinzaglio a Pucci. Quindi, uscito di casa, era andato oltre il canale e poi lungo il corso, fino alla piazza dove all’edicola aveva comprato il giornale che, come d’abitudine, si fermava a leggere, in una breve sosta-caffè al CRAL della Camera del Lavoro. Consumato il rito, tornava a questo punto verso casa, passando per la stretta via che costeggiava il carcere femminile. Quando, a tarda sera, i pompieri estrassero il suo corpo senza vita dalla macerie del muro di cinta, quel giornale Angelo l’aveva ancora in tasca. Era, naturalmente, l’Unità.


(I funerali di Alessandrini - foto Silvestre Loconsolo dal fondo omonimo)


Da allora, come si usa dire, molta acqua è passata sotto i ponti. La “lotta armata” è finita (finita, per quel che mi riguarda, nel proverbiale immondezzaio della Storia). Ed i suoi protagonisti, scontate pene carcerarie molto inferiori a quelle delle originarie condanne – Sergio Segio, condannato in prima istanza a due ergastoli, è uscito dopo una ventina d’anni - sono oggi (ed ormai da molto tempo) tutti in libertà. Tutti, chi più chi meno, fanno lavori socialmente utili, impegnati – spesso al fianco di lodevoli personaggi come don Ciotti - nella lotta contro la diffusione della droga (Susanna Ronconi) o per la riforma del sistema carcerario in direzione, finalmente, non della punizione, ma della “rieducazione del reo” prevista dalla Costituzione. Molti tra loro hanno scritto libri – che non ho letto né intendo leggere - nei quali raccontano se stessi ed enfaticamente dichiarano chiusa, senza ripudiarla, la “stagione della lotta armata”.

L’unica di queste opere memorialistico-politiche alle quali ho, con qualche riluttanza, dato un’occhiata è un libro intitolato “Miccia Corta”, scritto dal fu “Comandante Sirio”. E non solo non ho reperito traccia alcuna di pentimento – o anche soltanto d’una moderata autocritica – ma ho al contrario trovato, in pressoché ciascuno dei per la verità non molti capitoli che ho letto, dosi massicce ed assai tossiche di quella che, in un classico libro dedicato ai Montoneros argentini (braccio armato del socialismo nazionale in salsa peronista) a suo tempo chiamò la “soberbia armada”. Troppo nobili erano le mie ragioni – questo era il senso - e troppo gretta fu la Storia che le respinse. Se avete seguito il calcio e mai avete ascoltato un giocatore che dopo una sconfitta dichiara “siamo usciti a testa alta” potete - più o meno, basta sostituire il numero dei gol presi con il numero dei morti provocati – facilmente cogliere l’antifona del pensiero di Segio e capire quale sia l’immagine che di se stesso vede ogniqualvolta si rimira allo specchio. Non quella del capo di una organizzazione terorista, ma quella – come dichiarò in una intervista del 2017, da non pochi intellettuali applaudita – del leader di una “formazione combattente di sinistra”.


(Susanna Ronconi e Sergio Segio)


Personalmente non ho obiezioni. Non sono mai stato tra quelli che vogliono “buttar via la chiave”. Ed essendo stato, anzi, essendo tuttora proprio questo – quello di un mondo senza padroni e senza carceri – il sogno che mi ha spinto a diventar comunista, di gran lunga preferisco una Ronconi che, anche non pentita, vada lavorando con Don Ciotti contro la droga ad una Susanna Ronconi richiusa in gattabuia a meditare sulle sue malefatte. Ed anche Sergio Segio può, a sua volta, per come io la vedo, chiamare come vuole le sue imprese passate. Le parole restano parole ed i fatti restano fatti. L’assassinio di Emilio Alessandrini resta, comunque lo si definisca, l’omicidio di un magistrato al quale “l’Italia del 12 dicembre” – per usare le parole di un celebre inno canoro di Francesco De Gregori – deve eterna gratitudine. Ed i due colpi di pistola che, nel marzo del 1980, lui ha piazzato nella nuca del già morente Guido Galli, restano quello che sono: due pallottole sparate alla testa d’un professore che “insegnava democrazia”.

Però una cosa mi piace pensare. Che – in qualche indefinita ma visibile forma spirituale – Angelo Furlan e la sua Pucci continuino ancor oggi la loro quotidiana passeggiata per le strade di Rovigo. E che un giorno, in qualche modo, i due (Angelo e Pucci) possano imbattersi negli altri due (Susanna Ronconi e Sergio Segio). No, non per alcun pentimento, o per qualche politica spiegazione. Angelo e Pucci presumibilmente non hanno – ovunque stiano passeggiando ora - alcun interesse a conoscere le tesi di Segio in merito alle differenze tra una organizzazione terrorista ed una formazione combattente di sinistra. E nemmeno, credo, anelino ad ascoltare formali parole di scuse. Basterebbe un accenno, un gesto, un segnale, qualcosa che riveli, oltre la “soberbia armada”, un briciolo di consapevolezza, un informale riconoscimento dei “danni collaterali”, della scia di umano dolore che ha attraversato gli anni di piombo. Basterebbe un “mi dispiace”, o un “non l’ho fatto apposta”. O forse neanche questo. Una carezza a Pucci, giusto lì, dietro le orecchie dove tanto le piaceva, sarebbe – dovesse quell’incontro aver luogo - più che sufficiente. Angelo, uomo di grande cuore e di poche parole, capirebbe. E dopo un saluto proseguirebbe la sua passeggiata con Pucci fino al CRAL della Camera del Lavoro. Per una sosta-caffè e per leggere l’Unità.

Sempre la stessa copia. Quella del 3 gennaio 1982. Il giorno della sua morte.

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