Se è vero che la sorte dei Paesi è indissolubilmente legata alla loro storia, tanto lo è alla geografia, che ne determina la centralità o la marginalità geopolitica. Il Laos non fa eccezione. Piccolo, abitato da soli sette milioni di persone, il Paese non ha sbocchi sul mare. Il che ha costituito, e costituisce ancora, la sua atavica disgrazia e la sua millenaria fortuna. Tra i pochi Stati al mondo a mantenere un sistema di governo dichiaratamente comunista, è rimasto a lungo isolato sia a Oriente che a Occidente. Si sta ora, a piccoli passi, aprendo un po’ al turismo, e svela agli europei inaspettate meraviglie e una natura che costituisce forse la più grande attrattiva per i viaggiatori.
Il Partito Rivoluzionario del Popolo Lao (LPRP), al potere dalla rivoluzione del 1975, oltre a costellare le strade di Vientiane - la piccola capitale - con bandierine rosse corredate di falce e martello, mantiene la sicurezza sociale, ma quasi per nulla l’offerta pubblica di sanità, assicura solo i consumi base ai cittadini e da anni ne limita duramente le libertà civili. Contraddizioni di grave entità. Crepe che non traspaiono nella confusione della domenica sera con i bambini tra i giochi gonfiabili e i chioschi sparpagliati sulle rive del Mekong. Dettagli che inducono gli autori delle guide più diffuse, Go Asia compresa, a ripetere il mantra: “La situazione sanitaria in Laos è carente ed è impossibile sottoporsi a cure ospedaliere, peraltro sconsigliate anche in caso di emergenza. Se avete problemi prendete un aereo per Bangkok”.
Sul fronte macro-economico il Laos si trova pericolosamente vicino a dichiarare default da almeno tre anni “perché incapace di saldare l’enorme debito che ha collezionato nei confronti di Pechino”, scrivono gli economisti inglesi. Quanto sia l’ammontare del debito non è chiarissimo, sebbene si stimi un “buco” di quasi 20 miliardi di dollari, più del 50 per cento del Pil nazionale. Il kip laotiano viene cambiato oggi a 22/23mila pezzi per un euro, circa 20 mila sul dollaro. E a riprova di una valuta senza mercato internazionale, nel paese non esistono monete, ma unicamente banconote dai colori pastello (quasi tutte con l’effige di Kaisone Phomvihane, leader del Partito Rivoluzionario del Popolo morto nel 1992) e i commercianti desiderano vivamente essere pagati in dollari. Anche qui, come spesso capita in varie aree del mondo.
Proviamo a capire meglio o almeno qualcosa di più di tutto questo. Incastrato tra Cina e Myanmar (a nord), Vietnam (est), Cambogia (sud-est) e Thailandia, il Laos vive la vita minima delle nazioni sovrastate dai più corposi interessi economici dei vicini (Cambogia a parte). Il buddismo - che è la religione più diffusa e praticata (circa il 70 per cento dei laotiani), prima dell’induismo e del cristianesimo - mitiga le asperità del quotidiano e le mancanze socio-politiche. Così che l’economia di sussistenza sembra bastare (per sua definizione!) a chi dedica parte della propria esistenza allo studio e alla meditazione. Vale a dire la maggioranza dei maschi laotiani, che scelgono spesso di approfondire le proprie conoscenze spirituali ritirandosi alcuni anni a vita monastica prima di cominciare a lavorare, sposarsi e fare figli. È quello che ha fatto anche Ndon (mi perdoni la grafia del nome senz’altro sbagliata), la nostra gentilissima guida turistica. Ci accompagna nel Parco di Buddha - a circa 25 km da Vientiane - e intanto racconta che ha passato sette anni al tempio, prima di metter su casa e di avere i suoi due figli: un maschio e una femmina.
Dice che “nel tempo del tempio” ha acquisito conoscenza e saggezza, forse “avrà meritato una buona esistenza. Forse una buona reincarnazione”. E ora sua figlia maggiore fa il primo anno di università a Pechino. Lontano? Perché? “È ovvio, in Laos l’università non è buona e la facoltà di ingegneria non ha alcun prestigio”, ripete. “Io investo sul suo futuro e ho fatto il mio dovere di padre”. Sorride e riprende la sua collaudata camminata, di politica sociale non parla Ndon. Di Cina nemmeno. Forse non si fida degli stranieri. Cina padrona. Cina sovrana: che compra, che ingloba, che cambia anche il corso dell’acqua. Eh sì, perché nella terra dove il Mekong con le sue 4000 mila isole si allunga per ben 1000 chilometri (sui 5000 totali del suo snodarsi) e dà il meglio di sé grazie anche ai suoi abbondanti affluenti, proprio qui il governo ha cominciato a impiantare dighe grazie alle sovvenzioni cinesi. Quattro anni fa la centrale idroelettrica di Xayaburi, nel nord del Laos (costata diversi miliardi di dollari e costruita nell’arco di nove anni) era stata finanziata in buona parte dalla Thailandia, cui arriva ben il 95 per cento dell’energia lì prodotta. Energia che non manca affatto al Laos, né a Nord né a Sud. Oggi invece, grazie ai soldi della Cina e alla inossidabile amicizia con il governo laotiano, si sta costruendo una diga gigantesca poco a monte di Luang Prabang, prima capitale del Paese nonché sito Unesco Patrimonio per le sue eccezionalità archeologiche.
Meraviglie che vale la pena raccontare nel dettaglio in una successiva puntata di questo viaggio alla scoperta del Laos. La diga monstre, dicevamo, è collocata alla confluenza del Nam Khan (l’affluente più corposo) e del Mekong, a soli quindici chilometri da Luang Prabang e rischia di mettere a dura prova la vita della città e anche quella di tutta la popolazione, che trova nel fiume l’unica forma di sostentamento grazie a pesca e agricoltura. Sul Mekong viaggia il trasporto tra villaggi, le merci, le canoe, e una moltitudine di specie ridotte in numero e varietà. Pesci, ma anche uccelli, bufali d’acqua, lontre.
“Quando la diga sarà completata, e i lavori sono già a uno stadio avanzato, il Mekong si trasformerà in un corpo morto di acqua stagnante, ha spiegato (in un’intervista all’ Associated Press) Brian Eyler, esperto americano di politica energetica e sostenibilità nel sud est asiatico. Se non bastasse lo scempio ambientale (la diga sarà costruita vicino ad una linea di faglia attiva geologicamente) certo andrà distrutta un’area di unico patrimonio storico e culturale. È ciò che teme, pur senza avere alcuna esperienza di sismologia, Daniele, un ragazzo italiano che vive da quattro anni a Luang Prabang e che ho incontrato nelle suggestive grotte di Pak Ou: luogo sacro zeppo di statue di Buddha, statuine, pitture e doni lasciati da milioni di fedeli. Daniele accompagna una coppia di Parma tra i reperti sacri e confessa una vera preoccupazione per il governo corrotto dal denaro cinese e per una classe dirigente che investe i propri guadagni in Thailandia. “Su queste montagne che sovrastano il Mekong – dice - la vita è difficile da secoli, c’è moltissima povertà, la gente non guarda all’estero, non sa, pensa alla sussistenza. Non a Luang Prabang che è il fiore all’occhiello del Paese, ma nelle campagne e più a Nord non c’è tempo per occuparsi della diga che forse lì schiaccerà. I cinesi sono peggio degli ex colonialisti francesi”.
La Cina ha completato la sua prima diga idroelettrica sul Mekong, settimo fiume per lunghezza al mondo, nella provincia dello Yunnan nel 1995 e da allora non si è più fermata. Lo Yunnan è la prima provincia che il grande fiume attraversa dalla sua nascita sull’altipiano del Tibet all’ultimo approdo: il delta vietnamita. Il fiume dei 9 dragoni (questo significa Me Kong) segna il confine tra Laos e Thailandia, tra Laos e Myanmar, attraversa la Cambogia, prende nomi diversi in ciascuna nazione, ospita decine di etnie diverse sulle sue rive, migliaia di specie botaniche, è inserito nella lista dei fiumi più inquinati al mondo, il tramonto sulle sue acque fa davvero girare la testa. Ma qui siamo nel cuore dell’Indocina - la terra magicamente raccontata nel secolo scorso dalla scrittrice francese, originaria di Saigon, Marguerite Duras – che conserva moltissime vestigia del colonialismo francese, il maggior numero pro capite di ordigni inesplosi (UXO) al mondo e parecchi investimenti sino-thailandesi.
Ottanta milioni di UXO sparse qua e là sono ciò che resta dei circa 270 milioni di bombe a grappolo sganciate dai raid americani durante la Guerra del Vietnam (1964-73). Pesano sul turismo, ma soprattutto sulla coscienza di noi tutti. Anche quelli che all’epoca non erano nati. Di quella maledetta guerra, ciò che moltissimi italiani ricordano è semplicemente una canzone di Gianni Morandi. Qualche immagine sfocata in una tv in bianco e nero, la parola vietcong (il gruppo armato di resistenza vietnamita contro il regime filostatunitense del Vietnam del Sud), gli interessi americani e quelli francesi. Ma in Laos la guerra è ancora viva nella testa degli abitanti e nell’animo dei volontari.
Il Cope (organizzazione attiva dal 1966 a Vientiane) fa un lavoro capillare di sostegno e memoria della guerra. Fornisce protesi e assistenza sanitaria ai sopravvissuti agli ordigni e a persone con disabilità fisiche che non sono più in grado di vivere autonomamente. E poi ha dato vita a un museo. A osservare le installazioni del COPE Visitor Center senti un colpo allo stomaco e un colpo al cuore. Nel centro di recupero delle disabilità che quella guerra ha prodotto c’è molta documentazione assolutamente da vedere per comprendere l’incomprensibile. Ci sono decine e decine di arti finti appesi al soffitto, foto di bambini straziati dagli ordigni, stampelle abbandonate in un angolo delle tre sale, moltissime protesi di plastica dismesse, occhi di vetro che guardano il vuoto, arti meccanici a profusione e perfino specchi dove ci si può riflettere fingendosi mutilati di guerra. Come? Indossando un moncherino o una protesi agli arti inferiori. L’impatto è devastante, la testa vacilla.
I video rimandano filmati d’epoca che si fatica a seguire. Personalmente ho “mancato” diverse installazioni perché l’emozione mi ha sovrastata. Sono stata costretta a uscire nel cortile dove ho visto un via vai di persone che si recavano all’edifico di fronte: il Center Medical Rehabilitation di Khouvieng Road. Quello per il recupero terapeutico di chi ancora oggi porta i segni bellici sul suo corpo. Nelle sale accanto la mappa dettagliata degli “sganci” di bombe cadute sul Laos mostra la tragedia più di mille parole, intere zone sono senza più vita perché non ancora bonificate. E poi ci sono le storie. Quelle raccontate o riprese con il telefonino, tutti drammi umani a lieto fine. Le donne che sono tornate a lavorare nei campi grazie a un braccio meccanico, il ragazzino che gioca a pallone con un piede posticcio. La visita è per certi versi devastante. È gratuita ma donare è un dovere morale prima che civile. Pochi dollari qui sono un vero capitale. Il Laos è anche questo.
(1. continua)