LA VERSIONE
DI COCHI
"LA MIA MILANO
IRRIPETIBILE"

Cochi Ponzoni, l’altra metà di Cochi e Renato, si racconta nel libro “La versione di Cochi”, curato da Paolo Crespi. Li incontriamo per farci spiegare come è nata l’idea di questo libro. E perché quel titolo? C’è forse un’altra versione, contrapposta? E di chi?

Cochi – Io avevo scritto una sorta di diario privato destinato alle mie figlie perché, come spesso capita, i figli conoscono il 30% della vita dei genitori. Una sera Paolo ha assistito ad una serata alla cascina di Mare Culturale Urbano in cui cantavo qualche canzone e raccontavo qualche episodio della mia vita e si è incuriosito. Mi ha proposto di farne un libro ed è riuscito a trovare un editore. Detto, fatto.



Crespi – I suoi racconti erano molto piacevoli e interessanti. Erano appunto la sua versione di una storia, che spesso viene accomunata a quella del duo con Renato Pozzetto ma che scoprivo avere invece molte peculiarità, un punto di vista originale. La prima idea è stata di un libro-intervista, ma l’editore (Baldini e Castoldi) ci ha spiegato che oggi funzionano di più le autobiografie, che il racconto in prima persona ha più impatto.

Quello che colpisce in questo libro è la quantità di fatti, di informazioni, di incontri. Tutti gli eventi sono ben contestualizzati, danno l’idea precisa del mondo in cui Cochi si è mosso. In particolare gli anni Sessanta, quell’humus in cui è nato il cabaret milanese, appaiono come un periodo straordinario e irripetibile.

Cochi – Certo, è stata una miniera di incontri tra artisti, senza alcun tipo di censura intellettuale. Si veniva dal Dopoguerra, c’era un grande fermento, una grande voglia di ricostruire, di inventare, anche in modo trasgressivo. Nelle osterie di Milano si incontravano pittori e scrittori a cazzeggiare e a discutere tra loro: un melting pot di intelligenze nel quale io e Renato, per nostra fortuna, siamo capitati. Ci ha introdotti un amico che faceva l’Accademia di Brera, Roberto Marri, con cui avevamo formato un trio di armoniche a bocca. Noi, giovanissimi, siamo stati inconsapevolmente contaminati da quell’atmosfera. Abbiamo assorbito quel tipo di filosofia, in particolare quella di artisti come Piero Manzoni e Lucio Fontana, che ci hanno trasmesso il coraggio di fare cose creative senza badare al risultato utilitaristico che potevano avere. Abbiamo imparato ad avere fiducia nelle nostre invenzioni, nel nostro modo di interpretare la vita.



La versione di Cochi
di Aurelio Ponzoni, a cura di Paolo Crespi
Baldini+Castoldi editore
pagg. 240 + 32 di foto
Euro 19,00


Sia lei che Renato in tempo di guerra eravate bambini.

Cochi – Sì, e le nostre famiglie erano sfollate in un paese del Varesotto, Gemonio, dove non ci mancava niente. Sindaco era il signor Curti, proprietario di CurtiRiso, che regalava il riso a tutti.

La musica è sempre stata la passione principale di Cochi. Poi arrivò il cabaret…

Cochi – Ancora prima di lavorare con Renato, cantavo la domenica nei teatri degli oratori, accompagnato da alcuni amici. Sono apparso in televisione per la prima volta da solo a “Campanile sera”, trasmissione andata in onda proprio all’inizio degli anni Sessanta. Bisognava scrivere una canzone in due minuti e cantarla. Nanni Svampa chiese a me di cantare quella che avrebbe scritto lui. Nel frattempo io e Renato avevamo comprato due chitarre e cantavamo insieme le canzoni popolari che poi, quando abbiamo cominciato a frequentare l’Osteria dell’Oca d’Oro, abbiamo riproposto ad un pubblico più sofisticato: capitavano Umberto Eco, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi, Lucio Fontana. Lì accanto c’era la galleria d’arte La Muffola che esponeva le ceramiche artistiche del gruppo di Albissola. La gestivano Tinin e Velia Mantegazza, i quali ci proposero di cantare ai vernissage. Noi rompemmo il ghiaccio. In seguito veniva Paolo Poli a fare i suoi monologhi, e Giorgio Gaber e Enzo Jannacci a far sentire le loro canzoni. Erano le origini del cabaret milanese. Noi siamo poi passati al Cab 64, dove arrivarono anche Bruno Lauzi, Felice Andreasi e Jannacci col quale nacque una forte amicizia e stima reciproca. Cominciavamo a guadagnare qualcosa col nostro lavoro e nel 1965 tutto il gruppo si trasferì al più strutturato Derby Club, dove siamo restati dieci anni, esibendoci quasi tutte le sere e contribuendo alla programmazione artistica, mentre Gianni Bongiovanni gestiva la parte organizzativa, il bar e il ristorante.



Nel 1968 Cochi e Renato si fecero conoscere al grande pubblico con “Quelli della domenica” in televisione. Un programma molto innovativo, soprattutto grazie alla vostra coppia e a Paolo Villaggio. Molti anni dopo, nel 1992, hai presentato “Su la testa!” di Paolo Rossi, facendo da ponte verso un’altra generazione di comici, tra cui Aldo Giovanni e Giacomo, Antonio Albanese, Bebo Storti, Antonio Cornacchione. Nel frattempo però insieme a Renato avete fatto molte altre esperienze. Entrambi al cinema, ma non in coppia: come mai?

Cochi – Avevamo capito che il nostro tipo di linguaggio, tipicamente cabarettistico, non era riproponibile al cinema, non avrebbe funzionato. L’unico film in cui abbiamo lavorato entrambi è stato “Sturmtruppen” tratto dal fumetto di Bonvi, con la regia di Achille Manzotti. Dal punto di vista tecnico venne realizzato con mezzi quasi artigianali, ma con un ottimo risultato estetico… Fu un successo e ci proposero di fare un sequel, però non ci è parsa una buona idea e abbiamo risposto di no.

Nella aletta di copertina del libro è scritto che Cochi è una persona “riservata”. E infatti se uno si aspetta qualche rivelazione inedita sui rapporti tra Cochi e Renato deve ricredersi, perché sembra proprio che abbiate sempre fatto scelte serenamente condivise, sia quando si trattava di lavorare separatamente sia, come avvenuto nel 2000, quando avete deciso di rimettervi insieme.



Cochi – Quando abbiamo deciso di riproporci al pubblico non ci aspettavamo un riscontro tale da continuare per quattordici anni. Pensavamo di interessare quelli della nostra generazione, che ci avevano seguiti in passato. Invece al Teatro Nazionale di Milano per due mesi abbiamo fatto il tutto esaurito. Venivano anche i ragazzi a vederci. Per cui fino al 2014 quasi ogni anno abbiamo fatto tre/quattro mesi di recital in tutta Italia. Questo perché erano genuine le cose che facevamo; venivano da una fantasia infantile, dalla nostra natura fantasmagorica e strampalata.

Prima di quella réunion, lei ha lavorato prevalentemente nel mondo del teatro di prosa. Negli anni Ottanta, si è trasferito a vivere a Roma. Ha sempre pensato che sarebbe tornato a vivere a Milano, come poi è avvenuto?

Cochi – No. Io stavo benissimo a Roma, dove avevo avuto la fortuna di trovare amici altrettanto validi di quelli che avevo a Milano. Sono tornato quando Paolo Rossi mi ha chiamato per partecipare a “Su la testa!”, dieci puntate su Rai Tre da ottobre a dicembre del 1992. Ho scoperto una città che stava rinascendo dopo gli anni della Milano da bere e di Mani pulite. E poi ho conosciuto la mia attuale moglie, Nora. Ho ritrovato quella che è sempre stata la mia città.

E oggi? Qualche progetto in corso?

Cochi – Progetti ce ne sono, ma per il momento mi sto occupando di promuovere questo libro.

Crespi – Cochi è amatissimo, più di quanto immaginassi, e arrivano tantissime richieste di presentazioni, che lui arricchisce con il racconto di aneddoti, alcuni dei quali non presenti nel libro. Vi diamo un’anteprima: il 31 maggio ci sarà una serata presso il centro sociale Il Cantiere, in viale Monte Rosa, nello stesso immobile in cui aveva sede il Derby.

Press ESC to close