EUROCALCIO
GIOIELLINI
NELLA RUOTA
DEL CRICETO

C’è stato un attimo nel cerimoniale finale di questo Europeo di calcio vinto dalla Spagna sull’Inghilterra in cui Yamal, il chico con il sorriso sfrontato e la leggerezza di chi si affaccia alla vita, ha tentato di salire per primo sulla passerella della premiazione, tagliando la strada al suo allenatore, Luis de la Fuente, che ha riso e ha scosso la testa ricacciandolo indietro. Una scenetta che fotografa la vittoria dei migliori, della squadra più forte del torneo, la Spagna appunto, affidata a qualche vecchietto - come Mikel Oyarzabal Ugarte, 27 anni, autore del gol decisivo o Dani Olmo, 26, che ha tolto dalla porta il pareggio degli inglesi - e a dei giovanissimi come Lamine Yamal e Nico Williams, 38 anni in due, che si sono passati la palla del primo gol contro i bianchi. Quegli inglesi vittime di qualche anatema da oltre mezzo secolo, quando la regina d’Inghilterra era Pelé.


(Lo spettacolare goal in rovesciata di Jude Bellingham contro la Slovacchia)


La Roja domina da anni nel pallone e altrove. Anche nella giornata in cui tutto il mondo guarda alla Pennsylvania e a quel proiettile vagante. Alcaraz nel pomeriggio trionfa a Wimbledon e i calciatori portano a casa la coppa europea nella notte di Berlino. Real Madrid, Barcellona e Atletico hanno razziato ogni cosa, per la nazionale questo è il quarto titolo continentale, il terzo in sedici anni (più il Mondiale del 2010). Questione di organizzazione, di una mentalità vincente, di talenti che vengono presto individuati e aiutati a crescere. E anche di tante risorse economiche a disposizione (ma non è che tutti i club godano di ottima salute finanziaria, anzi: hanno scialacquato anche loro). Aveva 15 anni Lamine Yamal (ne ha fatti 17 alla vigilia della finale) quando già si allenava con i “grandi” del Barcellona. Da noi, un ragazzo di quella età porta il borsone a quelli della prima squadra. Poi ci sono le eccezioni: Calafiori ad esempio, che firmò il suo primo contratto con la Roma a 16 anni e due anni dopo debuttò in serie A. Caso raro. I club italiani non investono sui giovani, preferiscono il nome noto: è una questione di formazione, di cultura. Dove sono le nostre cantère, le accademie, le masìe? Forse in provincia ma le piccole società boccheggiano.


(Nico Williams a segno contro l'Inghilterra)


Guarda caso, la barchetta Italia ha fatto ancora naufragio. Dopo due mondiali falliti e altri due dove uscimmo al primo giro. Certo, tre anni fa ci fu il sussulto di Wembley, l’Europeo vinto dopo la pandemia. Con merito e con un po’ di quella cosa che occorre sempre nella vita, quella cosa che comincia con c e finisce con o. Neanche dovevamo andarci in Germania. Era il novembre scorso e nelle qualificazioni Cristante pestò un piede al giocatore ucraino in piena area a pochi minuti dalla fine: era un rigore netto, solare. L’arbitro, che non si chiamava Putin, disse di no.


(L'eurogoal di Lamine Yamal contro la Francia)


Il paradosso è che i giovani ci sono. È vero: mancano i Totti, i Baggio, i Del Piero. In poche parole, non ci sono talenti. Per strada non si gioca più a pallone e i talent scout usano troppo il cellulare. Ma non è che se giochi per strada diventi un campione. E le scuole di calcio costano, minimo 400 euro. Però giovanotti di 17 anni hanno vinto un Europeo con la maglia azzurra e quelli di 20 anni hanno perso solo la finale del Mondiale. È che gli stranieri convengono, costano di meno, il decreto crescita ha permesso ai presidenti furbacchioni di pagare meno tasse sugli stipendi dei “lavoratori” acquistati all’estero. Poi a dicembre scorso la misura è stata cancellata. Il danno però c’è stato. I ragazzi del pallone sono strozzati come in un imbuto. Li uccidiamo nella culla senza capire che il vero investimento sono loro. Al massimo fanno panchina in serie A. Anche la nuova generazione di italiani che non hanno i tratti somatici dell’italianità, come dice qualche ducetto, fa fatica ad emergere. Negli altri sport, i giovani portano primati, medaglie, vittorie. Ci portano alle Olimpiadi e parlano romanesco. Più forti dello ius soli. Poi noi siamo il Paese che va a ondate. Ora c’è l’onda emotiva del tennis. Qualcuno titola e scrive che il tennis è il nuovo calcio. Jannik, Jasmine e Lorenzo sono i nuovi dèi degli stadi e dei televisori. Applausi ai Gesti Bianchi.


(Jasmine Paolini)


Ma che torneo è stato l’Europeo 2024? È stato il campionato di una nuova generazione. Non solo Yamal. Ma anche altri che ci hanno fatto sobbalzare dal divano. Pochi esempi: Nico Williams (21 anni) che gioca nella Roja dal lato opposto di Yamal e dribbla e corre come un matto. Jude Bellingham (21) che a otto anni era nei pulcini del Birmingham City e a 16 esordiva in prima squadra, il Real Madrid non ha esitato a sborsare oltre 130 milioni di euro per averlo dal Borussia e lui fa quella rovesciata da standing ovation contro la Slovacchia e salva dall’eliminazione i bianchi con i Tre Leoni sul petto. Si è visto poco nella partita conclusiva ma ha dato la palla del pareggio ad un altro giovanotto, Cole Palmer, 22 anni. E ancora: Arda Güler (19), il turco, un altro gioiellino dei blancos di Madrid, che ha infilato il pallone nell’angolino del portiere della Georgia realizzando uno dei gol più belli della rassegna. Xavi Simmons (21), olandese, capelli ricci a treccine, polmoni d’acciaio, lacrime e gol, un tiro meraviglioso e inutile contro gli inglesi. Bukayo Saka (22) che viene dal vivaio dell’Arsenal, sbagliò il rigore decisivo contro l’Italia nella finale del 2021 e per questo gli vomitarono addosso ogni cosa. Teenager di Spagna e Inghilterra, ancora loro al centro della scena.


(Riccardo Calafiori)


È stato il campionato degli oriundi d’Europa. Il 13 % dei giocatori delle “rose” è nato altrove. 82 calciatori erano originari di un Paese diverso dalla maglia che hanno indossato. Perché la società è cambiata, perché le guerre, perché le migrazioni... La Gazzetta dello Sport ha analizzato a fondo il fenomeno. La sola guerra dei Balcani ha disintegrato un mondo e ha fatto fuggire la gente altrove. Ad esempio, 19 dei 26 giocatori dell’Albania "sono nati tra Kosovo, Grecia, Svizzera, Italia, Macedonia del Nord, Spagna, Germania, Inghilterra", ha scritto Filippo Maria Ricci. È stato il campionato del “jamais”. Di Kylian Mbappé e degli altri Blues schierati affinché la Francia non finisse "in mano a quelli lì". Cioè in mano a Marine Le Pen e a Jordan Bardella. In mano agli eredi di Vichy. Ha detto Jules Koundé dopo il voto francese: "Il sollievo è all’altezza della preoccupazione delle ultime settimane. È immenso". È stato, infine, un campionato stanco, piuttosto brutto, a tratti noioso. Almeno fino alle semifinali. Nonostante la ventata di freschezza dei giovani. Non poteva essere altrimenti quando una manifestazione si gioca al termine di una stagione già infarcita di impegni, oltre settanta partite per i club migliori, e poi le nazionali. Mentre da noi si svolgeva l’Europeo, dall’altra parte del mondo sono scesi in campo Argentina e Colombia per la Coppa America (vinta dall’Argentina, gol di Lautaro Martinez, una finale con scontri tra tifosi argentini e colombiani). I calciatori si fanno spremere come limoni, incassano tanti soldi, fanno ricchi quei briganti dei procuratori. Solo qualcuno prova a dire basta. Il sistema calcio è malato. È come una ruota per criceti, non si ferma mai, ha scritto con una immagine efficace la Faz, la Frankfurter Allgemeine Zeitung: "Questo torneo non è uno spettacolo. Non c’è più la forza per fare di più, soprattutto nelle squadre di punta. Dopo la partita contro la Slovenia, Bellingham si è lamentato di essere 'morto' perché non aveva più benzina nel serbatoio".


(Kylian Mbappé)


Alla Federazione europea del calcio, l’Uefa, il torneo ha prodotto 2,4 miliardi di euro di ricavi, di cui oltre la metà arrivano dai diritti tv. E per soddisfare la sete di guadagno dei consociati, cioè le Federazioni nazionali, e dei club, l’avvocato Ceferin, che guida l’Uefa, ha versato 331 milioni di euro alle prime e 240 milioni ai secondi che danno la manodopera, i calciatori. L’incasso netto dell’Uefa è stato di 1,19 miliardi di euro. È un pallone ingordo. E peggio sarà dalla prossima stagione, con l’ultima invenzione dei Signori della Sfera: il Mondiale per club, una giostra con 32 squadre (sempre che trovino sponsor) e, dall’autunno di questo anno, una Champions a 36 squadre, il 47% in più di gare. A questa avidità pensa forse Marcelo Bielsa, detto El Loco, quando dice: "Il calcio è in un processo di decrescita. Sempre più persone guardano il calcio che però attrae sempre di meno perché non si privilegia ciò che ha reso questo gioco il primo del mondo". E cioè la bellezza di un gol e la felicità della gente. Perché il calcio è dei poveri, "di quelli che hanno poche possibilità di accedere alla felicità…". E lo stanno togliendo ai poveri, accusa l’argentino che adesso allena l’Uruguay. "Il gioco sta diventando sempre più prevedibile e sta perdendo il suo fascino… si favorisce solo il business perché per loro conta solo il numero di spettatori". Ma "il calcio non sono 5 minuti di azioni, è molto di più: è un’espressione culturale, una forma di identificazione".


(Pelè con Omar Sivori)


Bielsa è un visionario, un guevarista non fosse altro perché è nato anche lui, come il Che, a Rosario. Anzi è il Mélenchon del calcio, come lo sfotte Maurizio Crippa sul 'Foglio', intingendo la penna nel curaro. El Loco si sbaglia: il calcio non seduce più. Da anni è dissanguato da una emorragia di consensi e di spettatori. Colpa anche delle pratiche truffaldine, dei contratti tv che spennano gli utenti, della corruzione. In Inghilterra il Manchester City è accusato di doping finanziario, gli stessi club arabi cominciano ad avere problemi. Il fatto è che, nell’era dei social, lo sport non calamita le nuove generazioni: i millennials hanno altro da fare. Perlomeno non lo seguono in tv. Non ci pensano proprio a stare novanta minuti a guardare una partita: questo richiederebbe concentrazione. E poi c’è lo streaming che ha rivoluzionato ogni cosa. Tre anni fa l’Associazione dei club europei (Eca) commissionò un’indagine in sette Paesi (la si trova in rete sul Corriere della Sera) che portò a numeri significativi sul cambiamento. Dati che suonarono come delle campane a morto. Il 27% dei millennials (24-39 anni) intervistati disse che non aveva alcun interesse per il calcio, il 13% addirittura lo odiava.


(La Spagna campione)


È che ai ragazzi interessa seguire uno sport, non solo il calcio, sulle piattaforme, e lo vorrebbero sull’iPhone con fotogrammi veloci, frammentati su episodi. Una fruizione social dello sport. Per questo molte discipline si affrettano a cambiare regole, tempi, punteggi fino a modificarsi in peggio. Anche il calcio vuole introdurre nuove norme (lo ha già fatto in maniera confusa), incrementare gli appuntamenti e sbianchettare il gioco tradizionale che abbiamo conosciuto. Negli Stati Uniti basket, football, baseball e hockey hanno già modificato un po’ di cose e hanno in mente altre rivoluzioni. Nel tennis, ad esempio, forte è la tentazione di abolire le partite di cinque set. Tutto deve essere più spedito, parcellizzato e fruibile sulle piattaforme, sui tablet, sugli smartphone. I coetanei di Yamal vogliono vedere il ragazzo di Rocafonda, il barrio di Matarò, Barcellona, mentre compie qualche magia, un tiro, un dribbling, una rabona e non mentre gioca i sette match tutti vincenti dell’Europeo. Le partite, le Champions, i Mondiali ma anche i paragoni con Pelé, Cruijff e Maradona sono per loro roba da techetechetè. Il mondo è cambiato e lo sport cerca di adeguarsi.

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