LA CLASSIFICA
LIBRI DEL NYT
GRANDI ASSENTI
TAGLI ALLE RADICI

Celebrata la vincitrice, Elena Ferrante, mi chiedo cosa c’è e soprattutto cosa manca nella classifica del New York Times dedicata ai 100 libri più importanti (o belli? difficile capire) del nuovo secolo e rilanciata da tutti i nostri quotidiani.

Intanto la prima impressione è che i 530 “giudici” abbiano voluto stabilire una cesura tra questi anni 2000 e il vecchio Novecento. Sì, ovviamente in classifica ci sono un paio di libri di Philip Roth (ma un po’ indietro rispetto ai primi posti) e anche un Cormac McCarthy ('La strada'). Ma ci sono anche dei grossi buchi, non c’è nulla di Don De Lillo, non c’è Salman Rushdie, non c’è Paul Auster che quando è morto qualche mese fa è stato celebrato e santificato salvo esser ora dimenticato.

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Non c’è neppure un “giovane” di un paio di generazioni fa come Bret Easton Ellis (per non dire degli altri “minimalisti” come Leavitt o McInerney). Curiosamente manca per intero un “genere” che potremmo chiamare “giallo” o forse meglio noir: che fine hanno fatto Connolly ed Ellroy, Jo Nesbo, Thomas Harris, Martin Cruz Smith, Robert Harris? Stephen King è timidamente in classifica con un solo titolo. Tra i grandi buchi vedo anche un paio di premi Nobel per la letteratura come Mario Vargas Llosa e Oram Pamuk (ne mancano anche altri e nei 100 ne compaiono solo due, la Ernaud e Fosse). E poi non c’è niente di Amitav Gosh, che anche solo come saggista ha scritto cose di grande importanza su temi come la cecità davanti ai mutamenti climatici (ai quali aveva dedicato a suo modo anche una straordinaria opera letteraria come 'Il paese delle maree') e neppure il giapponese Harumi Murakami o l’inglese Martin Amis, mentre McEwan è presente con un solo titolo.



Ora, il gioco di chi c’è e chi non c’è non avrebbe molto senso se non per cercare di dare un significato a queste assenze e quindi anche alle presenze. Colpisce – e credo positivamente – la quantità di giovani scrittori americani che stanno rinnovando la letteratura di quel paese portandoci un’altra cultura, altri punti di vista. Ci sono scrittrici e scrittori americano-nigeriani, americano-giamaicani, americano-vietnamiti. Come sempre la cultura degli Stati Uniti – ma da questo punto di vista hanno cose da dire anche il Regno Unito e la Francia -riesce ad essere un grande attrattore che non cancella le differenze ma se ne nutre (lo aveva fatto in passato con John Fante, con gli scrittori ebraici come Isaac Bashevi Singer o Chaim Potock). Altro elemento di peso straordinario credo sia il numero dei titoli di autrici donne e di autrici-autori neri. È una strategia “politicamente corretta”? Credo sia un cambio di sensibilità e di attenzione importante che comincia dalle case editrici e finisce tra i giurati.



Ma forse questa ricerca ha fatto perdere di vista molte radici. Tra le assenze che mi hanno colpito (in una classifica in cui romanzi e saggi sono messi insieme) c’è il buco che riguarda l’11 settembre. Data fondativa del millennio, quella tragedia ha dato almeno due grandi romanzi che non sono nella classifica: 'L’uomo che cade' di Don De Lillo e 'Molto forte, incredibilmente vicino' di Jonathan Safran Foer (del quale è del tutto ignorato anche il magnifico 'Ogni cosa è illuminata') e anche un romanzo straordinario e “veggente”, scritto immediatamente prima dell’attacco alle Twin towers , come 'Furia' di Salman Rushdie, oltre che quella di un bel numero di saggi.



Credo che l’idea di tagliare le radici alla letteratura e il legame con il Novecento non sia una grande idea, perché è certamente vero che Philip Roth ha scritto i suoi libri più belli tra gli anni Settanta e i Novanta (cominciando dal 'Lamento di Portnoy' del 1967 e chiudendo il ciclo con 'Pastorale Americana' del 1997) ma anche nel nuovo secolo ha dato grandi opere (due sono in classifica, 'La macchia umana' e 'Il complotto contro l’America') ma anche una lezione di letteratura che va oltre i singoli titoli.

Una classifica è una classifica, è una classifica, avremmo detto. Ma, per non farla rimanere un gioco di società e utilizzarla come un reale misuratore dei gusti e delle tendenze, il compito dei critici del New York Times sarebbe quello non di “correggerla” ma di comprenderne il senso per ricucire questa nuova interessantissima letteratura con le sue radici. Anche perché le novità e i cambiamenti si vedono solo con una lente che corregga la miopia del presentismo.

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