MYKOLAIV
LA VITA
AL TEMPO
DELLA GUERRA

(Distruzione a Mykolaiv, foto SUSPILNE)

I ricordi di guerra per chi – come chi scrive – è nato alla metà degli anni '60, non sono nemmeno quelli dei genitori, all’epoca bambini troppo piccoli per avere consapevolezza della seconda guerra mondiale. L’ultima esperienza di un conflitto vissuto in prima persona è stata quella dei nonni. I loro racconti uniti alle cronache, ai libri di storia, ai film e ai romanzi ci hanno trasmesso un’idea epica della guerra, fatta di eroi, di grandi battaglie, di episodi clamorosi, di fame e di paura.

Nessuno è riuscito a trasmetterci l’idea della sua normalità, che invece è drammaticamente la realtà ed è ciò che stanno affrontando per esempio gli Ucraini da più di due anni. Un viaggio di tre giorni a Mykolaiv, importante centro industriale e portuale nel sud dell’Ucraina lungo l’estuario del fiume Bug Meridionale, è stata l’occasione per scoprire quanto la guerra possa essere una cosa normale e quanto velocemente gli esseri umani ci si possano abituare.



Per tre giorni, dal 15 al 17 luglio, ho fatto parte di una delegazione di UNECE (United Nations Economic Commission for Europe) all’interno del programma UN4Ukrainian Cities per visitare la città e approfondire le linee guida del concept masterplan per il suo sviluppo sostenibile cui stiamo lavorando come One Works Foundation. Non ho fatto questo viaggio come una inviata di guerra, dunque, ma come una professionista che ha necessità di verificare dal vivo idee, piani e decisioni.

È un viaggio che non si fa a cuor leggero, rimandato più volte nell’ultimo anno a causa di improvvise intensificazioni del conflitto, organizzato in ogni dettaglio con un programma vincolante che non lascia spazio a improvvisazioni e accompagnato da raccomandazioni molto precise come non isolarsi mai dal gruppo, non separarsi mai dal proprio passaporto, avere sempre con sé una piccola borsa con gli effetti personali indispensabili e un cambio d’abito, ma soprattutto, per la propria sicurezza, scaricare sullo smartphone la app Air Alert per essere aggiornati in tempo reale sugli allarmi aerei in corso nella regione di destinazione. Meglio scaricare anche Telegram, che offre un servizio più preciso, aiutando a distinguere gli allarmi generici (ne scatta uno ogni volta che qualcosa si alza in volo dalla Russia) da quelli più probabilmente reali e pericolosi.



Per raggiungere Mykolaiv si usa l’auto. Si vola fino a Chișinău, Moldavia, e poi si percorrono i poco più di 300 chilometri in circa cinque ore attraversando sterminati campi di grano e di girasoli su strade statali e provinciali poco trafficate ma con bassi limiti di velocità. Provenendo da ovest, due soli elementi segnalano una differenza con il territorio moldavo: l’alfabeto dei cartelli stradali, il cirillico ucraino, e il valico di frontiera, armato e presidiato da militari ma in nulla diverso da un qualsiasi passaggio della Cortina di Ferro prima della caduta del Muro di Berlino. La coda per entrare è lunga, ma scopriamo che al massimo si possono fare un paio d’ore d’attesa. Il problema è uscire, ci si può impiegare anche otto ore. I controlli in uscita dall’Ucraina sono più accurati, cominciano decine di chilometri prima della frontiera e riguardano soprattutto i camion. Tra le altre cose, i militari verificano l’eventuale presenza di disertori in fuga dal paese.



Nessun segno di un conflitto in corso ci accompagna durante il viaggio fino alle porte di Mykolaiv. Solo una volta, superato il ponte Varvarivsʹkyy Mist per entrare nel centro storico della città, lungo la strada Velika Morska si notano cavalli di frisia lungo gli spartitraffico e postazioni di guardia fortificate, ma al momento non in uso. Sembrano lì a ricordarci che stiamo entrando nella “Città degli eroi”, la città che ha resistito all’assalto dell’esercito russo con una battaglia diventata già epica, iniziata il 26 febbraio del 2022 e terminata l’8 aprile dello stesso anno con la liberazione dell’intera regione di Mykolaiv.



Per il resto il centro storico sembra incredibilmente quello di una qualsiasi città italiana di medie dimensioni alla metà di luglio: un caldo pazzesco (in quei giorni è stato record storico, 41 gradi la massima), attività a rilento, molti negozi chiusi, poco traffico. Inutile precisare che le condizioni della città sono in realtà l’esito del declino industriale sancito prima dal crollo dell’Unione sovietica e poi dall’indipendenza dalla Russia, di cui Mykolaiv era un cantiere navale di riferimento, e ovviamente della guerra con il blocco militare del Mar Nero e il conseguente stop alle attività portuali. Una combinazione cui vanno sommati gli esiti del conflitto, con la fuga di centinaia di migliaia di persone, il reclutamento di decine di migliaia di giovani, la distruzione e il danneggiamento di case, edifici pubblici, impianti industriali, alberghi, uffici, siti strategici e anche l’arrivo di migliaia di profughi da Kherson. Ma di tutto questo, arrivando da ovest, non si percepisce nulla. I danni sono quasi tutti nella parte orientale della città, quella messa sotto assedio dall’esercito russo. E non è stata una distruzione massiccia, hanno scelto obiettivi mirati e anche simbolici come le due università o l’edificio storico dell’Ammiragliato.



Così, arrivati in hotel, si prende possesso della propria stanza e si esce per andare a cena. Una passeggiata di qualche centinaio di metri fino a un ristorante all’aperto con terrazza panoramica, musica diffusa e un grande bancone bar centrale. Pochi i tavoli liberi. Si ordina da bere, da mangiare e si chiacchiera. Si commentano i nuovi filobus appena ordinati dalla municipalità che passano proprio lì sotto e ci si meraviglia di come siano tenuti bene i giardini dall’altra parte della strada. Poi, all’improvviso, suona l’allarme aereo. Sirene insistenti, da ogni cellulare, dall’impianto audio del locale. Nessuno dei presenti si muove. Nessuno abbandona il proprio tavolo. L’allarme è solo il primo avviso, quello che dice di raggiungere il rifugio più vicino e di non sottovalutare il pericolo. Non parte il secondo avviso, quello più preoccupante, che dice che la minaccia è aumentata, ma noi andiamo. C’è un protocollo da rispettare. In pochi minuti siamo davanti all’hotel, sulla strada una famiglia cammina tranquilla e una bambina corre avanti e indietro col suo monopattino; noi ci avviamo al sotterraneo giusto in tempo per ascoltare il nuovo avviso, quello che dice che l’allarme è finito e che si conclude con la frase “May the force be with you”, che la forza sia con te. Ma a nessuno viene in mente Guerre Stellari.



La notte scorre relativamente tranquilla. Nessun altro allarme, il sonno viene interrotto soltanto dal segnale acustico del condizionatore che suona ogni volta che va via la corrente e interviene il generatore di cui dispone l’hotel. E allora ci accorge anche che fuori è buio pesto, le luci sono tutte spente tranne quelle alimentate dai generatori, ma la gente va in giro lo stesso. Il coprifuoco è solo da mezzanotte alle cinque.

Alle sette e trenta del mattino la colazione compresa nel prezzo della stanza si traduce in una bottiglietta d’acqua a temperatura ambiente, una mela, un muffin e un croissant con prosciutto e formaggio. Niente caffè e niente che presupponga l’uso di corrente elettrica. Non ce n’è e il locale non ha un generatore. Il caffè lo beviamo poco più tardi in un animatissimo chiosco di tre metri per tre metri dotato di un potente apparecchio che causa un fastidioso rumore ma garantisce caffè, ghiaccio e aria condizionata.



Il suono dei generatori è una costante in tutta la città, come in una sagra di paese o al luna park, ma rappresenta anche la possibilità di andare avanti nonostante tutto, di poter svolgere attività, di offrire servizi, di connettersi, di avere un minimo di qualità della vita. L’elettricità è il vero allarme a questo punto della guerra. I Russi colpiscono in modo sempre più preciso le infrastrutture energetiche. Nonostante gli sforzi di Kiev di cercare di connettersi alla rete europea, l’energia manca. Le centrali nucleari, che rappresentano il 50% dell’approvvigionamento, sono in parte fuori uso o fuori controllo. Per questo dalla fine dello scorso maggio su tutto il territorio ucraino sono in vigore interruzioni di elettricità programmate. A Mykolaiv funziona in questo modo: due ore di corrente e quattro senza, in ciascuna delle sei zone in cui è stata suddivisa la città. Ma le interruzioni sono a rotazione per garantire a tutti di poter fare una doccia al mattino, preparare la cena o lavorare il pomeriggio almeno qualche volta a settimana. La popolazione si è adattata e organizzata, e con assoluta tranquillità ti spiegano che il caffè si può bere in ufficio se è in una zona dove c’è corrente al mattino presto e poi magari si porta a casa il computer il pomeriggio per finire un lavoro urgente.



Gli allarmi aerei intanto si susseguono. Si concentrano al mattino e alla sera. In genere si esauriscono in un quarto d’ora, magari mezz’ora. Ma si tende a non farci caso. Anche per me, dopo solo 24 ore a Mykolaiv, all’ennesimo allarme e all’ennesimo spostamento nel rifugio è scattato quel misto di stanchezza, fastidio e fatalismo che alle due di notte ti impedisce di alzarti dal letto e raggiungere il rifugio più vicino. Come del resto ci si abitua al cibo e alle bevande rigorosamente a temperatura ambiente, ci si accontenta di un caffè al giorno e si gioisce se si ottiene il secondo.



Nei nostri sopralluoghi guidati alle zone di trasformazione della città abbiamo attraversato parchi dove uomini e donne facevano esercizio fisico o cercavano un po’ di fresco, abbiamo visto le persone al lavoro, gli uffici della municipalità perfettamente funzionanti, bar e ristoranti aperti e frequentati, i mezzi pubblici pieni. Abbiamo ascoltato madri e padri parlare dei loro bambini e ragazzi da due anni rifugiati in Polonia, magari coi nonni o con parenti emigrati da tempo, regolarmente iscritti a scuola e orami abituati a una vita senza di loro. Abbiamo visto anche un fotografo al lavoro con due modelle per un servizio dedicato agli abiti da sposa. La vita a Mykolaiv continua. Le persone si adattano. L’economia resiste, cambia le priorità e anche le geografie del potere, ma continua a fare ricavi e utili. Nulla però può cancellare l’enormità della guerra. A ricordarcelo, subito dopo il nostro rientro in Italia, un bambino e due adulti uccisi da un missile in un parco giochi in una zona residenziale di Mykolaiv e un ragazzo ucciso mentre cercava di valicare il confine con la Moldavia per evitare il fronte.

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