Proprio nell’anno in cui pare tutti si siano dati appuntamento in Giappone, l’anno del Fuji a numero chiuso, delle proteste per l’assalto alla città di Kyoto che hanno fatto vincere un sindaco antinvasione, dell’idea balzana di istituire le doppie tariffe per giapponesi e stranieri nelle località più congestionate, succede di fare un viaggio appunto in Giappone e non incontrare nessun turista. Anzi, per essere precisi nessuno in generale, o quasi. Dei 18 milioni di stranieri che avrebbero invaso il Paese solo nei primi sei mesi del 2024, grazie ad uno yen crollato ai minimi storici, nessuna traccia.
Nello Shikoku, la più piccola delle quattro isole dell’arcipelago, grande come il Veneto e abitata da poco più di 3 milioni e mezzo di abitanti concentrati nelle aree urbane, ci vanno soprattutto i pellegrini giapponesi per compiere il leggendario cammino degli 88 templi, sparsi tra foreste e montagne, abbarbicati su scogliere o nei sobborghi delle città, sulle orme di un importante monaco del VII secolo, Kūkai. È la versione buddista del cammino di Santiago de Compostela.
Una volta i pellegrini con le loro tuniche bianche e i cappelli a cono macinavano i 1200 chilometri del percorso di “purificazione” a piedi, ora fanno l’ultimo miglio, dopo aver parcheggiato l’auto oppure essere scesi dai pullman. Puntini bianchi nel verde cangiante delle foreste, una combinazione di criptomerie, la maestosa conifera locale, aceri e bambù a perdita d’occhio, che fiancheggiano i sentieri verso i luoghi sacri, circondati da decine o centinaia di statue. Sono multiformi rappresentazioni di arhat, budda di grado inferiore, e di bodhisattva, simpatiche creature intermedie tra un monaco e un budda dalle valenze protettive, di tutte le fogge, età, dimensioni e spesso rivestiti di buffi cappellini rossi e bavaglini di maglia dal potere apotropaico. A volte sono poche decine, a volte legioni, 500 come nel caso del tempio di Umpenji, il numero 66 del circuito, immerso nel verde del bosco a 900 metri di quota.
Un popolo di pietra buffo e silente che tiene compagnia al viaggiatore in un Giappone altrimenti spopolato. L’inverno demografico fuori dalle megalopoli come Tokyo o Osaka si vede ad occhio nudo nelle risaie e nelle campagne, persino nei cantieri stradali, dove al lavoro ci sono spesso persone anziane. Ovvio, nel paese più vecchio del mondo con il record di denatalità, che prevede di perdere un terzo della popolazione entro il 2060. Con il curioso contrappasso osservabile nei programmi televisivi, generalmente contraddistinti da una irresistibile inclinazione per il trash, in cui compaiono quasi solo giovani e giovanissimi.
Una rappresentazione sorprendente dell’incubo che terrorizza i giapponesi si trova alla fine di una strada strettissima e tortuosa che attraversa la remota valle dell’Iya, una paradiso naturale nel cuore dello Shikoku sul quale si affacciano alte montagne ricoperte di praterie di bamboo nano. Poco prima di raggiungere una delle mete degli amanti del trekking, il monte Tsurugi, si attraversa Nagoro, un minuscolo agglomerato di case dove qua e là si percepiscono delle presenze, immobili. Operai al lavoro, contadini nell’orto, anziani e giovani sulle panchine, oppure volti che occhieggiano da dietro le finestre. È una folla statica, incredibilmente realistica di pupazzi di pezza life-size. Sono centinaia in un paese che ormai conta poco più di una ventina di abitanti, tutti anziani.
Il risultato è un po’ spiazzante, una specie di diorama a cielo aperto, poetico e nostalgico di un affollato passato ormai perduto. L’idea folle è venuta ad una signora del posto, Tsukimi Ayano, over 70, che dopo essersi trasferita per 40 anni ad Osaka, ritornata nel suo villaggio per occuparsi del padre anziano non ha trovato quasi più nessuno. Il paese, che aveva goduto di un certo sviluppo legato alla silvicultura e alla costruzione e alla manutenzione di una diga, una volta finite le attività si è ritrovato senza risorse ed è quindi stato progressivamente abbandonato dai più giovani, come avviene sempre più spesso in tante parti del Giappone, lasciando interi edifici vuoti. Una delle tante ghost town che è diventata scenario di un incredibile esperimento di land art in progress. A Tsukimi Ayano piaceva realizzare bambole di pezza, abilità che le è tornata utile quando coltivando l’orto sistematicamente depredato dagli uccelli ha assemblato il suo primo spaventapasseri a grandezza naturale vagamente somigliante al padre.
Ad uno ne ha poi affiancato un altro, e poi via via, con un successo crescente prima tra i vicini e i viaggiatori di passaggio, poi tra i turisti più avvertiti. Come un giovane fotografo tedesco, Fritz Schumann, che ha raccontato del paese degli spaventapasseri in un breve documentario (https://vimeo.com/92453765) decretandone una notorietà anche fuori confine. E infine la proloco della prefettura locale che ne ha fatto un’attrattiva turistica, con conseguente festival annuale degli spaventapasseri. Ora l’intero edificio della scuola, definitivamente chiusa nel 2012, è zeppo di pupazzi impegnati in varie attività, compresa una festa di matrimonio, giochi di società, conversazioni, al primo piano anche intere classi di bambini-fantoccio seduti ai banchi con gli insegnanti.
Ma i più belli forse sono quelli all’aperto: gli operai che riparano le strade o le staccionate, i contadini al lavoro, gruppi seduti alla fermata dell’autobus, nonne con i nipoti sulle ginocchia sull’uscio di casa, passanti in bicicletta. Esiste anche un’anagrafe del villaggio, fatta di quadernoni scritti a mano dove ogni pupazzo è registrato con i suoi dati: quando è “nato”, chi rappresenta nel caso in cui ritragga qualcuno di realmente esistito. L’artista del resto ha creato anche un pupazzo a sua immagine e somiglianza. In tutto 400 abitanti di pezza che hanno rimpiazzato quello veri: esperimento sociale, denuncia e metafora, in una sorta di malinconica e tenera apocalisse zombie di pannolenci.