Il lago sospeso costa dodici chilometri di trekking con una pendenza che a tratti ti morde i polpacci, un biglietto da 220 corone per accedere al percorso (poco lontano dal villaggio di Miðvágur), diversi sassi da schivare e gli scarponcini trattati ad acqua e fango. Dodici miseri chilometri per chi è camminatore, una fatica per i dilettanti che avanzano in fila indiana. Il traguardo disvela però una singolare illusione ottica o meglio permette di osservare dall’alto in basso un prodigio, l’ennesimo, della natura targata Faroe Islands. Il Sørvágsvatn altrimenti detto Leitisvatn – che si trova nella parte settentrionale dell’isola di Vágar: tremila abitanti e l’unico aeroporto dell’arcipelago - è davvero sopra l’Oceano. Quattro-cinque chilometri quadrati di acqua dolce a una trentina di metri sul livello dell’acqua salata. Profondità dai tre metri ai sessanta, al suo massimo. Un lago vero, dunque.
Evitate di spingervi sull’orlo del burrone per capire come è stata possibile la “sovrapposizione” geologica. Il vento è forte, appare necessario perché terra, roccia e mare possano stare insieme ascoltando il concerto delle onde. Certo, l’illusione ottica – colta nel verso giusto, sul lato lungo dell’ovale lacustre – amplifica il fenomeno, ma il bacino è circondato realmente da una scogliera che lo cinge come un’altissima corona e non ha sbocchi diretti al mare, se non l’imponente cascata di Bosdalafossur che cade giù come un mega rubinetto aperto sull’Oceano. Si svuota quanto basta il lago, insomma, e conserva la gran parte della sua riserva idrica per impressionare gli sconosciuti viaggiatori. Più di quanto non faccia la leggenda d’età vichinga sulla scogliera-vetta degli schiavi che porta fin qui (in lingua: Traelanípan), dove si racconta che venissero gettati gli schiavi disobbedienti e rivoltosi. Un po’ come si faceva dalla Rupe Tarpea nell’antica (e brutale) Roma, sebbene a queste latitudini non servisse essersi macchiati di tradimento all’urbe per precipitare nel valahalla, alias l’ade latino.
Alla mitologia Norrena e ai suoi segreti - ossia quella di riferimento per i vichinghi che scorrazzavano senza scrupoli nei mari del Nord più o meno tra il 600 e l’anno 1000 - risale anche il mito di Risin (il Gigante) e Kellingin (la Strega) che, incantati dalla bellezza delle Faroe, giunsero dall’Islanda per rubarle e trascinarle verso la madre patria. Con il favore della notte i due legarono una corda sulla cima di una montagna che, malauguratamente, si spezzò. Lottando tra loro, accecati dal fallimento dell’impresa non si resero conto che il nemico-sole stava sorgendo. Tentarono allora di tornare velocemente verso l’Islanda, la luce dell’alba però li pietrificò alle Faroe. I faraglioni - che guardano in direzione dell’Islanda - sono ancora lì oggi, a nord dell’isola di Streymoy (la più grande di tutte) ma è dall’isola di Eysturoy (quella accanto) che il Gigante e Il Dito della Strega (nomignolo che deriva dalla sua forma di indice affilato) fanno miglior mostra al tramonto. Facile immaginare la suggestione di un monolite alto 70 metri, spinto come una lancia in mezzo al mare. Te ne accorgi al primo impatto. Quel monumento di roccia non sarà (forse) l’abnorme dito di una strega, tuttavia ricorda un’aguzza scultura di Alberto Giacometti: una bellezza primordiale da cui non riesci a distogliere lo sguardo. Nemmeno dallo scomodo telescopio a cui resti “appesa” in cima all’altura vicino a Eidi, villaggio famoso per il suo campo di calcio praticamente sul mare usato in estate come camping. E intanto i colleghi fotografi sperimentano ogni obiettivo possibile per acchiappare l’essenza delle falesie leggendarie.
foto di Betty Colombo)
È ancora la roccia, levigata dalla mano dell’uomo, a diventare panca e tavolo dove fermarsi lungo la Buttercup Road che conduce a Tjørnuvík, un borgo tutto casette colorate e sabbia nero-pece. Fermiamo la jeep che fedelmente ci guida per affrontare il primo record di cui le Faroe vanno fiere. Sosta in piazzola. Un gruppo di francesi segue i nostri passi. Siamo sull’isola di Streymoy e qui si trova Fossà, la cascata più alta delle isole. Il suo nome vuol dire Fiume in Cascata e i suoi 140 metri nascondono due “salti” che, con un po’ di audacia, si possono fotografare da vicino dopo una piccola marcia sui massi viscidi che accolgono da sempre gli zoccoli delle pecore in scalata, sebbene risultino assai meno agevoli per gli esseri umani. Ciò nonostante una sfilata di giacche a vento blu, gialle, verdi s’inerpica sul fianco della collina per non perdere l’attimo del “tuffo”. L’istante in cui l’acqua si frange sulla parete ormai erosa dallo scroscio perenne. Il sole è scomparso e l’aria - come capita di frequente verso sera – è densa di pioggerellina semi-invisibile. La natura chiama la foschia. Il rischio è che si trasformi in nebbia.
Ti chiedi allora come deve essere, in inverno, la vita quotidiana per le uniche due famiglie di allevatori di pecore che vivono sull’isola di Stora Dimum, lontane dal resto del mondo e collegate con un servizio di elicotteri perché non ci sono tunnel stradali che li connettano con gli altri abitanti dell’arcipelago. Non devono passarsela diversamente – secondo il divagare di noi viaggiatori socio-urbanizzati - i cinque proprietari che raggiungono le loro case-vacanza, in elicottero, sul complesso roccioso di Tindhólmur, isola disabitata vicino a Vágar: 65 ettari di verde con una “montagna” di 262 metri sul livello del mare che chiamano la Cresta di Gallo per il suo profilo a balze. So a cosa state pensando: chissà la solitudine! E il rumore insopportabile del silenzio. E la paura del vuoto. Riflessione ovvia. Ma la gente di qui in verità racconta tutt’altra storia. Il capitano del gommone che ci accompagna nel nostro nomadismo escursionistico (che è tra l'altro un deputato del parlamento foringio di stanza a Tòrshavn) è felice di atterrare in solitaria a casa per Natale. “Quando l’Oceano – spiega in perfetto inglese – quasi non si vede ma si sente il suo fragore. E intorno alla mia famiglia solo il nulla per far festa”.
Un altro passo avanti per capire cosa si nasconda da questa parte del mondo te lo fanno fare i record registrati o tramandati, come si diceva nel primo capitolo di questo breve viaggio verso Nord. I primati che non ti aspetti. Non quelli legati agli show della natura che qui abbondano: la cascata più alta, l’arcipelago più ecologico, il faraglione più instagrammabile e così via. Ma roba del tipo: la classificazione ai play off di Europa League 2023-24 della squadra del Ki Klaksvik, piccolo villaggio di un arcipelago che, pur avendo cinquantamila residenti in tutto, ha un magnifico campo di calcio ad ogni minimo raggruppamento abitativo. O magari la cassetta postale più grande del mondo costruita nel 2019 nel delizioso villaggio di Skopun (isola di Sandoy). È azzurra, svetta in mezzo al prato e obbliga ad una visita turistica con tanto di foto goliardica da inviare agli amici. Perché mai l’avranno edificata? Per farsi ricordare dal resto d’Europa o solo per scherzo?
Serissima, invece, la struttura sottomarina da primato inaugurata nel 2020: un tunnel a tre bracci (lungo 11,24 chilometri) con una rotonda spettacolare a 72,6 metri (ecco il record!) sotto la superficie del fiordo di Skálafjørður. Decorata dall’artista faroese Tróndur Patursson sulla roccia naturale, ricorda una medusa ed è illuminata con luci verdi, rosse, gialle e blu. Girarci intorno con l’auto è un po’ come andare sulla giostra, ma sott'acqua. Una strana sensazione che si dilata grazie alle sagome nere di metallo che contengono la luminaria. Il tunnel è stato battezzato Eysturoyartunnilin e la biforcazione subacquea è stata pensata per raggiungere due mete dell’isola di Eysturoy, Strendur e Rokin. Il punto più profondo si trova a 187 metri sotto il livello dell’Oceano, ma è consigliabile non pensarci quando si è dentro l’abitacolo del fuoristrada, con la cintura di sicurezza allacciata e gli occhi spalancati sulla girandola da immortalare. L’ansia potrebbe prendere il sopravvento sul divertissement.
Meglio allora dirigersi verso la città di Thor (dio Norreno della folgore e del tuono): perché a Tórshavn, anzi alla The Nordic House della capitale, la socialità e un buon caffè sono eternamente assicurati. Perché è in questo centro culturale (una specie di modernissimo auditorium dal tetto erboso e dalle grandi vetrate) che i forensi arrivano per assistere alla proiezione di un film, per lavorare confrontandosi, per dar vita a un’asta di beneficenza, per trovare riparo dalla pioggia battente, per partecipare a un convegno oppure, semplicemente, per incontrarsi nel weekend. Un’oasi dall’architettura moderna, che vuole diffondere la cultura delle Faroe tra mille oasi naturali da esplorare nel vento. Cibo sostenibile e free internet. A portata di mondo.