Il fumo ti entra negli occhi... che è la traduzione online di 'Smoke gets in your eyes'. Qualcosa del genere mi era già successo. Non volevo che Antonio, l’ottimo oriundo dello Sri Lanka che energicamente pulisce la nostra casa ogni settimana, si accanisse sul giradischi, così decisi di scrivere un promemoria da lasciare sul posto in bella vista. E per sicurezza, “non spolverare” lo scrissi in italiano, inglese e, copiando lettera per lettera dal traduttore, anche in cingalese. Gli chiedo: “Giusto, no?”. Risponde: “C’è scritto ‘metti qui la polvere’ ”. Mai fidarsi.
Torniamo al fumo negli occhi. L’accenno è a quanto può accadervi se siete o casualmente passate di fianco a qualcuno, me nella fattispecie, nel momento in cui sta accendendosi la pipa. Una volta accadde al mercato, in fila al banchetto frutta e verdura. Dietro c’era un giovane padre di famiglia francofono con prole al seguito. Lo sbuffo parte e va nella sua direzione e lui protesta, in italiano e in modo perentorio con tuttavia un piacevole accento francese, che stavo facendo qualcosa di vietato. Gli dissi che eravamo all’aperto e che - come dicono le sacre scritture - il vento soffia dove vuole. Tra le innumerevoli classificazioni possibili, il mondo può dividersi in coloro per cui il fumo di pipa è una puzza e quelli che sentono un profumo, e te lo dicono anche. Uno addirittura mi fa: “English Mixture 965!” Aveva riconosciuto il tabacco dall’aroma. Del resto, riusciamo ancora a ricordarci di Pertini e Bearzot nel 1982, Gianni Brera che scrive il pezzo per il Guerin Sportivo, Luciano Lama con la sua inseparabile Peterson De Luxe. O Gino Cervi che affumica Andreina Pagnani, la signora Maigret (ne ‘Il cadavere scomparso’ le confesserà di aver fatto ben cinque pipate di nascosto…). Tutta brava gente.
Il mio rapporto con la pipa è cominciato presto. Era il 1961 anno più anno meno, in vacanza in Trentino, quando chiesi di comprarmi quella che si intravede nella foto. Una pipetta, ma ce l’ho ancora e la uso, giusto quando vado in montagna. La seconda la acquistai da solo non molti anni dopo con le mancette elargite dai clienti Esselunga, la prima in Viale Regina Giovanna, a Milano, cui portavo i sacchetti della spesa fino alla macchina. Era vietato accettarle e io mi infilavo alla svelta le cento lire nel taschino dei jeans.
Per l’occasione ho fatto un censimento. Oggi possiedo centocinquantasette pipe, escluse quelle che sono lì, diciamo, per bellezza. Ad esempio, ce n’è una ucraina fatta di un legno dolce, inadeguato, che di per sé andrebbe a fuoco al momento dell’accensione. Il fabbricante – ma sembra quasi fatta in casa - lo sapeva e ha foderato il fornello, cioè la parte che conterrà il tabacco, con una lamina metallica. Di un’altra, in argilla, c’è solo la testa e un pezzo di cannello che, si intuisce, doveva essere molto più lungo, direi di una cinquantina di centimetri. Viene da Bali ma è forse olandese, come sembrerebbe da un marchio decifrabile sul cannello superstite, abbandonata in Indonesia chissà da chi e chissà quando.
Quattordici sono il lascito di un amico che me le affidò prima di morire. Sono ‘le pipe di Raffaele’. Altre sono di amici, di padri di amici e nonni di amici; sono legate a persone o circostanze. La ‘pipa di zia Carla’ si chiama così perché in un libro che le era appartenuto trovai una certa somma in lire: feci in tempo a cambiarle in euro alla Banca d’Italia e decisi di acquistarci quella pipa, una Mastro de Paja. Quelle che compaiono nell’immagine seguente sono opera di Nazareno Noja, un artista pop che aveva bottega in Festa del Perdono, alla Statale di Milano. In vetrina teneva un gigantesco cactus realizzato con grandi pezzi di cuoio; le spine erano chiodi piantati dall’interno delle foglie. Di solito una pipa è lunga 14 cm. circa; le tre di Noja sono più corte, non di molto, ma sembrano implose. Parodie di pipe, alla Botero. Gliele comprai nel 1981, poi chiuse tutto e si trasferì nell’entroterra della Liguria, nel villaggio di artisti di Bussana Vecchia.
Altre ancora le ho trovate in bancarelle di rigattieri; in particolare, una magnifica calabash, la pipa di Sherlock Holmes. Il detective, per inciso, difficilmente poteva fumarsela nella palude a caccia del ‘Mastino dei Baskerville’. La calabash prende il nome dalla varietà di zucca utilizzata per fabbricarla: il corpo svuotato, ricurvo e di forma conica è fatto con la zucca; nella parte più sottile è innestato un bocchino e nell’altra che si allarga, nel fornello, è inserito un braciere in ceramica che è piuttosto pesante ed esce facilmente dalla sua sede. Meglio godersela seduti comodi in poltrona.
E poi ci sono quelle reperite qua e là, in giro per il mondo. Quella di Budapest, una Szabó, viene dal mercatino di Natale, nella grande piazza Vörösmarty su cui si affaccia Casa Geberaud. In dicembre, alle cinque del pomeriggio, una delle sue finestre illuminata con la data del giorno si apre e sul balcone escono tre musicisti che suonano un brano natalizio. A Parigi, ‘Au Caïd’ è in Rue de la Sorbonne, quasi all’angolo di Bd. Mont Saint Michel e a Dublino in Grafton Street 112 c’è il negozio di Peterson, a metà strada fra la statua di Molly Malone e Trinity College. Peterson, che ha fra le mie pipe la maggioranza relativa con venticinque esemplari, è con la Guinness un marchio nazionale identitario: sul fornello una punzonatura informa che la pipa è ‘made in the Republic of Ireland’.
A New York, dal 1930 Nat Sherman è nella Quarantaduesima, un edificio piccolo, incastrato tra due grattacieli. Dentro, in fondo al locale, due uomini e una donna fumano pipa e sigari. Al commesso chiedo una pipa americana; mi risponde che l’unica vera originale è la ‘corn cob’, quella fatta col torsolo di pannocchia. La esibiva il generale Douglas McArthur, ma anche alcuni personaggi dei comics: Popeye, noto da noi come Braccio di Ferro; Mammy Yokum nel ‘Li’l Abner’ di Al Capp e Miz Beaver, in ‘Pogo’ di Walt Kelly.
Molti, molti anni fa capitai a St.Tropez nel momento in cui un tabaccaio nei pressi del porto aveva una vetrina di pipe in offerta speciale. Ne acquistai quattro: tre di Courrieu e una di L. Roux. Le Courrieu recano la stampigliatura ‘Vieille bruyère – Courrieu – Cogolin’; così molti, molti anni dopo, di ritorno da una gita in Camargue, deviammo per Cogolin. Non fu facile trovare posto da dormire, sia pure per una notte. Il paese appariva vivace, sito poco distante dal richiamo dell’élite di St.Tropez da un lato; dall’altro alle sue spalle il massiccio dei Maures, dalla cui foresta proviene la ‘bruyère’, la radice di Erica Arborea, materia prima per la fabbricazione della pipa. Entrare nella bottega-negozio di un pipaio è un delirio per la quantità e qualità di scelte che vi si offrono; e così era stato in quella di Courrieu. Ricordo che continuavo a girare fra scaffali e tavoli senza venirne a capo. Alla fine presi in mano una pipa che mi aveva colpito per la sua eleganza. La signora che ci aveva ricevuto si animò: quella, mi disse, l’aveva fatta suo nonno Jean-Baptiste ed era particolare per via della fiamma.
Mi spiego. Un fattore estetico rilevante è dato appunto dalla ‘fiamma’, ossia da come viene tagliato il pezzo di radica in modo che la venatura del legno parta verticalmente dal fondo del fornello verso il bordo, il che suggerisce appunto l’immagine di una fiamma: più il disegno è regolare, maggiore è il pregio della pipa. In questo caso, cosa insolita, la fiamma era ben sviluppata, ma in diagonale rispetto all’asse del fornello. Era fatta. Mi comprai la pipa di Jean-Baptiste.