Sanremo numero 74, sul palco dell’Ariston dall’11 al 15 febbraio, ci parlerà un’altra volta del nostro Paese meglio del rapporto annuale del Censis. Italia, terra di rapper buoni e rapper cattivi, custodi della melodia, officianti su Rai1 nel segno dell’eterno moderatismo di scuola democristiana alla Pippo Baudo&eredi per un circo all-inclusive di famoserie varie, “personaggi” tv ospiti in tv, misuratissime spruzzate di attualità, innocue pensosità: “Siamo qui a goderci della musica ma non dimentichiamo etc etc”, qualche scandaletto scalda-audience. Sanremo contiene tutto e di più, contagia discorsi e media, ci mette davanti a uno specchio, lo guardiamo per riconoscerci con adesione o farci sentire migliori nel rifiuto sdegnato della scintillante, godibile fatuità dell’Evento, ah quell’abito, quella coscia, quell’ardire a schiuma frenata. Quella platea che in certi anni sembrava aver chiamato a raccolta il notabilato del sottopotere, del rampantismo condannato a vita effimera, della criminalità ripulita con consorti in lungo al seguito. E cespugli di microfoni sotto il mento del Nulla, viralità web, grancassa nei tg.
A siglare stavolta l’arci-italianità pop del Festival della Canzone due piccoli eventi. Il primo è l’autoesclusione dalla kermesse canoro-sociologica del rapper Emis Killa, per l’anagrafe e i brogliacci della polizia Emiliano Rudolf Giambelli, trentacinquenne brianzolo di Vimercate. Milanista verace, indagato per associazione a delinquere nell’inchiesta milanese “Doppia Curva” sul tifo organizzato (in casa gli avevano trovato tirapugni, un taser e altri strumenti poco musicali), ha rinunciato al Festival, dove avrebbe dovuto presentare “Demoni”, canzone su un amore che finirà "sotto una pioggia di molotov" e con i "baci che sanno di Fentanyl”. Però. “Preferisco fare un passo indietro e non partecipare” ha sancito. Carlo Conti, direttore artistico e conduttore, ha preso atto con rammarico e deciso di non sostituirlo. Ora in scuderia, a soffiare inquieti prima del galoppo dell’Ariston, sono rimasti in 29. Emis Killa conscio del suo ruolo istituzionale si è dimesso, a differenza di certi ministri, come Daniela Santanché, fiera di una vita - stando alle cronache - altrettanto spericolata e che sul palco Sanremese, accanto a Malgioglio, avrebbe spaccato: la coppia più camp dell’anno.
Ora, non è che Chet Baker, demolito dall’eroina, Amy Winehouse, Janis Joplin fossero persone abituate a non uscire dai margini, gli artisti talvolta sono autodistruttivi, ma il rap/trap italiano, da epigono verace della sottocultura delle gang afro-americane, aggiunge talvolta al maledettismo e al necessario talento per durare sulla scena musicale una discreta dose di anarchica insofferenza con punte schiettamente delinquenziali, si veda Baby Gang (Zaccaria Mouhib), uno da milioni di streaming su Spotify e diverse accuse per lesioni aggravate. O i due rapper romani Gallagher e Traffik arrestati per rapina. Piccola nota: il “trap” è una variante del rap con versi ripetuti, ritmi secchi e uso dell’autotune che trasforma la voce nella salmodia di un muezzin non ancora guarito da una grave infezione intestinale.
Il secondo evento è la presenza a Sanremo 74 di Tony Effe, romano trentaquattrenne di rione Monti, sulla carta d’identità Nicolò Rapisarda. Il rapper che con “Icon” ha vinto un quadruplo disco di platino è stato escluso dal concerto di Capodanno del Comune di Roma causa testi misogini e violenti . “Il rap ha un suo linguaggio, io racconto ciò che vedo” si è difeso, così ha organizzato un altro concerto nella Capitale e devoluto l’incasso alla Croce Rossa. Oddio, brividi, Tony Effe è uno che canta in “Icon”: “Compro alla mia bitch casa in Brera/ Soldi in buste della spesa/ Dalla Colombia arriva la sorpresa/ La bionda la taglia, la mora la pesa” (bitch, cagna, puttana; cosa poi arriva dalla Colombia è intuibile). E in “Miu Miu”: “Prendo una bitch, diventa principessa/ Le ho messo un culo nuovo, le ho comprato una sesta/Se non ti piace Louis V, andiamo da Chanel”. Mentre in “Maison” diventa chef: “Pollo e cocaina, sto cucinando il mio brodo”. Oxandrolone, fumo, coca, sbirri, shotgun (sarebbe un fucile), signori il catalogo è questo.
Ma come, Tony Effe è capace di attirare i carabinieri sul palco dell’Ariston, una follia ammetterlo! No, lui è un bravo regaz, a “Sette” ha raccontato che “a casa mia comanda mamma”. Un regaz intelligente e italianissimo, quindi duttile, diciamo così. A Sanremo presenterà “Damme ‘na mano”, echi sotterranei di una poesia di Saba, sostiene, ma evidenti del celebre brano di Lando Fiorini: “Damme ’na mano/ Che c’ho ner core solo ’na donna e ’na canzone/ Nun conta niente si crolla er monno/ Io m’aricordo solo di te/ Ogni notte è per sempre per le strade di Roma/ E non fare la stupida stasera, tu non sei mai sincera”. Sui social ufficiali del Festival Tony Effe ha sciolto ogni dubbio: “Parla sicuramente di Roma”. Per le serate Sanremesi niente bitch e niente culi. Un figliol prodigo da primi posti.
Sarà il solito spettacolone extra large. La Rai si aspetta incassi vicini ai 70 milioni di euro e farà bene a tenersi stretto il Festival, a dispetto di sentenze del Tar ed esclusiva in discussione: le “fughe” di Amadeus, Fazio e compagnia più o meno si metabolizzano, Sanremo è il gioiello della corona. E allora cinque serate, da martedì a sabato, inizio l’11 febbraio con tutte le canzoni dei big, roba da far notte fonda. L’ambrato Conti, volpe e faro del monoscopio generalista, sarà affiancato da compagni e compagne di conduzione, Antonella Clerici e la coraggiosa modella Bianca Balti, malata di un tumore, Elettra Lamborghini e Alessandro Cattelan. Sanremo “deve” farsi Italia in compendio, almeno dalla metà degli anni Ottanta, inizio dell’era Baudo, con lo scudo crociato impresso a pelle, redditizio cliché mutuato da Amadeus a Fabio Fazio, quest’ultimo nella versione “se tutti quelli di sinistra fossero come lei”, dal rosso al rosé, un calice mai amaro. Miglior guizzo assoluto? Nel 2018 Il monologo sui migranti di Pierfrancesco Favino, conducente festivaliero Claudio Baglioni.
La fauna dei co-conduttori cementa il Sanremo urbi et orbi, e nella rete dei pescatori di anime dello showbiz finisce di tutto. Gabriel Garko e Mădălina Ghenea (modella, rumena, meteora), nel 2016 del Conti I, poi Paola Egonu, Drusilla Foer, Beatrice Venezi (il direttore d’orchestra stimato da Fdl, ora consigliere del ministro della Cultura), appena due anni fa Chiara Ferragni, simbolo balzachiano delle alterne fortune nella commedia umana e nell’ex famiglia con Fedez, tutti e due impegnati a far volare gli stracci con colpi che manco Sinner e Zverev alla finale degli Australian Open. Un falò alimentato dalle uniche rivelazioni a orologeria della storia italiana, quelle di Fabrizio Corona su tradimenti nella coppia, chissà quanto veri. Corona, a proposito. Un Lucignolo sempre bronzeo del generone rotocalco e troppo furbo per finire in un qualsiasi Cafonal di Dagospia. Un galleggiante mai sommerso, come invece il suo ex protetto/amante solo platonico Lele Mora, già principe degli agenti dello spettacolo e manager dei vip, condannato per evasione fiscale e favoreggiamento della prostituzione, attualmente ambulante al mercato di piazza Benefica a Torino dove vende pellicce. Sic transit gloria mundi.
Sanremo è un’Italia in miniatura, una di quelle sagre agro-alimentari coi prodotti tipici di ogni regione, benedette dal ministro Lollobrigida e quest’anno tra gli ospiti ci saranno Jovanotti e Damiano David dei Måneskin, sapori forti e gourmet più bonus per il reparto geriatrico: no, non i Jalisse ma i Duran Duran, quarant’anni dopo la performance all’Ariston con “The Wild Boys”. Tutto il resto è noia, ruggiva Franco Califano, ma qui il resto è la ragion d’essere del Festival, le canzoni. Di umori trasgressivi nei testi - almeno in ciò che è trapelato - non se ne colgono più di tanto ed è abbastanza inutile esercitarsi su presunte censure o addomesticamenti, anche se di maggiordomi zelanti sono pieni i governi e addirittura brulicano in viale Mazzini. Chi va a Sanremo sa fin dove può spingersi, pure gli undici pretesi sulfurei rapper del lotto, che aumentano a tredici conteggiando Guè e Tormento, accompagnatori di Shablo, disc-jockey argentino naturalizzato italiano, in “La mia parola”, testo, per quanto è dato sapere, mica banale: “È una street song/ Per dare quello che ho/ Brucerò fino alla fine/ Chiuso tra cemento e smog/ È una street song/ Qui la gente muore e vive/ Senza soldi e alternative/ L’unica cosa che so”.
Anche Rkomi con “Il ritmo delle cose” la mette giù bene: “Esco dall’algoritmo/ Merda d’artista/ Esco da un'altra festa/ Esco dall’algoritmo/ Ritrovo la bellezza/ Solo dietro l’imprevisto”, mentre In “Battito” Fedez lascia il segno di tempi grami, visto che parla di una donna che, sostiene il Federico Lucia, è “l’impersonificazione della depressione” (nessun legame con Chiara Ferragni, giura). Achille Lauro, con due vittorie sanremesi, passato un breve periodo di oscuramento, va alla carica con “Incoscienti giovani”. Siti specializzati in anticipazioni sono riusciti a strappargli al riguardo poche, sconvolgenti parole: “Si ispira a delle storie vere e parla un po’ di noi, incoscienti giovani”. E stop coi rappatori, etichetta che ad Achille Lauro sta stretta, meglio, per lui, cantautore a tutto tondo.
Cosa segnalare nel resto del plotone tra rock e classici del gorgheggio? Si possono immaginare i soliti volti ora malinconici, secondo la imperante tendenza sul “come è difficile per noi giovani vivere un amore easy in questo mondo terribile”, ora incongruamente garrulo, sciolto, beato per un ritornello azzeccato che significa fama eterna, serate, profonda realizzazione del sé canoro al Festival che molti disprezzano ma a cui pochissimi non vorrebbero partecipare, compresa la maggioranza degli spregiatori. Elodie forte dei suoi spiritelli dark in “Dimenticarsi alle sette” evoca una comfort zone controintuitiva: "Quando prendi a calci la poesia, ma che bella sei, nella tua solitudine, sembra tutto più facile così”, gli indie pop Coma Cose in “Cuoricini” pare puntino all’agrodolce della convivenza quotidiana: “Se dovessimo tradurla in un’immagine, vedremmo due cuori”. Ma va? Francesca Michielin (“Fango in Paradiso”) si dorrà di un amore finito, Francesco Gabbani andrà sull’ “esistenzialista e anche un po' fatalista”, secondo le note divulgate alla stampa specialista. A Marcella Bella (“Pelle diamante”) il compito di rapire la platea con “una canzone emozionante che parla di donne”, delucidazione premio Vaghezza che ricorda Woody Allen quando riassume “Guerra e Pace” dopo aver frequentato un corso di lettura veloce: “Parla della Russia”.
Occhio a Massimo Ranieri sempre-in-pista, “Tra le mani un cuore” è firmata da Tiziano Ferro e lascia immaginare una gravissima disattenzione perché si dice parlerà di un amore interrotto e “di un cuore caduto in mare”, ops. Giorgia (“La cura per me”: una stanza buia spezzata dalla luce) va a Sanremo per vincere, i Modà di Francesco Silvestre con “Non ti dimentico” vogliono galleggiare rockeggiando "tra tutti quei ricordi che sanno di passione che sanno di rimpianti”. Fine delle impressioni, alla fine parlerà la musica.
Sanremo, in questa settantaquattresima puntata più sentimentale e cuore-amore che mai, è la nostra eterna “azione parallela”. Nell’ “Uomo senza qualità” di Musil è il comitato di lavoro per celebrare i 70 anni dell’imperatore Cecco Beppe, all’Ariston è la messa solenne per una “canzone italiana” che concettualmente non esiste più, a parte il fatto che sul palco si canta con la nostra lingua più qualche svolo dialettale-gergale. Esiste quello strano, meraviglioso, vittimista, maleducato, inventivo posto chiamato Italia e Sanremo è per cinque giorni la chiesa al centro del villaggio.