ADDIO
VARGAS LLOSA
IL DILEMMA
DEL POTERE

(Gabriel García Márquez e Mario Vargas Llosa nel 1967 - foto d'archivio da www.uol.com)

“Che fine ha fatto la letteratura latinoamericana? Ora che Marquez è quasi in silenzio e che Mario Vargas Llosa è diventato di destra almeno quanto è bravo (cioè moltissimo)…” Era l’estate del 1988, mi capitò di intervistare Manuel Puig e nell’incipit dell’articolo non ruscii a fare a meno di citare Vargas Llosa, che non c’entrava quasi nulla. Segno evidente che quella svolta a destra bruciasse, per me come credo per tanti di quelli che lo amavano. Qualche tempo dopo, in una conversazione con Osvaldo Soriano, l’autore di “Triste, solitario y final”, per condannare la partigianeria che rischiava di far perdere la bussola agli scrittori argentini diceva: “Non sopporto chi parla male di Vargas Llosa come se i suoi romanzi fossero oscurati dalle sue idee politiche”.

Ecco, Vargas Llosa se n’è andato a quasi a novant’anni ed è – senza forse – uno dei maggiori scrittori contemporanei. La sua scrittura esplose negli anni sessanta (è del 1963 il suo primo romanzo 'La città e i cani', edito in Italia da Feltrinelli nel 1967) contribuendo alla scoperta e al successo straordinario di una nuova generazione di latinoamericani. Il successo più grande lo ebbe, con 'Cent’anni di solitudine', il suo amico Gabriel Garcia Marquez, ma a creare un vero e proprio mondo letterario tutto da esplorare ci furono i suoi romanzi, per me allora soprattutto 'La casa verde'.

Più di quella di Marquez, la scrittura di Vargas Llosa usava strumenti nuovi di sovrapposizione temporale, di “montaggio asincrono” in cui gli eventi si muovono in una apparente incomprensibile confusione, avanti e indietro nel tempo, costruendo proprio per questo un quadro ancora più complesso e affascinante.

Vargas Llosa aveva nel suo arco diversi timbri espressivi, da quello lieve e scanzonato di 'Pantaleon e le visitatrici' o di 'Zia Julia e lo scribacchino', in cui racconta la singolare passione per i radiodrammi che in America latina è stata la progenitrice delle infinite telenovelas approdate sulle nostre tv negli anni Ottanta, a quello aspro di romanzi come 'Conversazione nella cattedrale', forse il suo libro più politico, una analisi senza compiacimenti né autoassoluzioni dei fallimenti personali e sociali di una borghesia peruviana compromessa col potere. Il protagonista del romanzo è un giovane figlio di un imprenditore, l’incipit è fulminante: “Dalla porta di La Crónica, Santiago guarda giù lungo l'Avenida Tacna, senza amore: automobili, edifici irregolari e sbiaditi, scheletri di insegne al neon che galleggiano nella nebbia, il grigio mezzogiorno. In che momento il Perù è andato all'inferno? I ragazzi che vendono i giornali si aggirano tra i veicoli fermi al semaforo di Wilson, gridando i giornali del pomeriggio, e lui inizia a camminare lentamente verso Colmena. Mani in tasca, testa bassa, è scortato dai passanti che si dirigono anche loro verso Plaza San Martín. Lui era come il Perù, Zavalita, a un certo punto aveva sbagliato. Pensa: in quale?”

Zavalita, ovvero Santiago Zavala protagonista del romanzo, somiglia molto a Mario Vargas Llosa: figlio di una famiglia borghese compromessa con la dittatura peruviana di Odria, si è ribellato al padre, ha studiato, ha aderito a gruppi di sinistra, fa il giornalista, ma “a un certo punto ha sbagliato”.

Qui veniamo alla politica. Vargas Llosa ha sostenuto per anni, da giovane e poi nei Sessanta, la rivoluzione cubana, si è schierato a sinistra. Cuba e il castrismo sono stati per decenni il metro di misura dell’essere a sinistra nel subcontinente. La rottura con Cuba dopo l’affare Padilla (il poeta cubano dissidente costretto ad autoaccusarsi di tradimento per ottenere il visto per lasciare l’Avana) fu esplosiva: Vargas Llosa firmò una condanna insieme a altri intellettuali europei di sinistra come Moravia, Sartre, Simone de Beauvoire. Ma Gabriel Garcia Marquez rifiutò di farlo. Aveva ragione Vargas, ma l’amicizia si ruppe finendo in una scazzottata nel 1976 a Città del Messico. Forse quel pugno non aveva ragioni politiche, forse si trattava di una donna. E questo ci restituisce un’altra faccia di Vargas Llosa, che era un “uomo che amava le donne”, una vita fatta di matrimoni a ripetizione con donne sempre molto belle, e di molte altre avventure.

Ma torniamo alla politica per cercare di capire il perché profondo di una svolta; e credo che per uno scrittore sia giusto andarlo a cercare nei libri che ha scritto, prima ancora nelle sue “azioni politiche”, che arrivarono successivamente.

Il libro chiave, da questo punto di vista è il bellissimo 'La guerra della fine del mondo'. È un testo che ha una origine complessa: l’autore inizia a lavorarci nel 1973 come sceneggiatura per un film, partendo da un episodio della storia del Brasile. Nel tempo il progetto cresce e si trasforma, la narrazione diventa fluviale. È la storia della ribellione delle plebi del nordest, del Sertao, guidati da una sorta di santo visionario, il beatino Antonio, che indica un paradiso in terra in una fattoria abbandonata, trasformando questa utopia in una rivoluzione di schiavi e miserabili. Accanto a loro si muove la politica nella sua faccia “formale” quella della nuova borghesia brasiliana, anticolonialista e antischiavista, contro la nobiltà legata all’impero portoghese. La fine del legame imperiale appare ai più poveri non come la promessa di un mondo nuovo ma come l’annuncio di un’epoca di nuove oppressioni. Ecco, è in questi contorcimenti della storia, in queste contraddizioni radicali tra parole così tipiche della cultura come progresso, rivoluzione, legame radicale con il passato, che sta il dilemma politico di Mario Vargas Llosa.

Poi venne il suo impegno in politica nel suo Paese, la candidatura nel 1990 alla presidenza del suo Paese, finita in una sconfitta e alla fine con il trasferimento in Europa. Il governo socialista spagnolo gli concesse la nazionalità, il re lo nominò persino marchese. Ma tutto questo in fondo importa poco nel capire questo scrittore grandissimo, che riuscì a vincere il Nobel nel 2010. Candidato tante volte, e tante volte ignorato, alla fine lo ottenne con la motivazione più giusta: gli accademici lo premiarono per “la sua cartografia delle strutture del potere e per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell'individuo».

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