Non ho mai capito cosa vadano a fare in Francia i turisti astemi e inappetenti. D’accordo, c’è il Louvre dove si può passare una vita senza annoiarsi. C’è Parigi in una sera di pioggia, tutta riflessi bagnati e ombre frettolose, commovente. C’è la Camargue, regione di sabbia zingari e tori, bella e inquietante. C’è la lavanda in Provenza, un riposo per gli occhi e per l’anima. C’è la Bretagna e le sue isole e le sue falesie sull’oceano che ruggisce. C’è la Normandia e le spiagge dello sbarco e i cimiteri bianchi, e la meraviglia di Saint Michel. Ci sono le cattedrali grigio fumo che implorano l’onnipotente ad Amiens, a Rouen, a Chartres... D’accordo, c’è di che nutrire lo sguardo e il sapere. Non si discute.
Epperò l’essenza della storia e della civiltà francese sta, oserei dire, soprattutto in un bicchiere di vino. La cattedrale è storia, il vino è vita. Un bicchiere che tu possa annusare per benino e che ti penetri a fondo nelle narici, e non importa se confondi la mela renetta con il mirtillo, te la godi lo stesso, e poi ruotarlo controluce per apprezzarne il colore, anche se non sai dargli il nome giusto, e la trasparenza, e poi degustare con calma e finalmente l’appagamento in un sorso. Il precipitato sociale del paese è ancora sul bancone del bistrot, lo ‘zinc’ con i suoi pilastri, che sarebbero i clienti fissi: qualche volto paonazzo, certo, molti altri semplicemente pensosi, altri contemplativi, oppure conviviali brigate unite dalla scelta della bottiglia, dell’annata, del terroir, ognuno ne ha una nel cuore, e si va alla ricerca del consenso come si trattasse di una difficile mediazione sindacale.
Mi direte che ormai accade anche in Italia, in Spagna e, grazie a Dio, un po’ dappertutto nel mondo. Il vino è oramai una specie di Onu, peace keeping, conoscenza reciproca. È vero. Però solo in Francia per la Prima comunione alla bimbetta di otto anni papà regala, oltre all’orologio, anche un magnum di bordeaux, o di bourgogne, che sarà imprigionato in un anfratto della cantina e finalmente liberato una ventina d’anni dopo, il giorno del matrimonio della creatura nel frattempo fattasi donna. Da nessuna parte come in Francia il vino è oggetto di rispetto e culto popolare, non solo di consumo e di piacere. Grazie alla bottiglia che sceglierà, potrai giudicare con buone possibilità di successo origini e psicologia del tuo interlocutore. Lo giudicherai d’animo arido e insensibile se sbaglierà gli abbinamenti. Sarà un generoso altruista se sceglierà l’annata giusta di quel medoc, anche se costa dieci euro di più, c’è dunque da fidarsi. Ho conosciuto un esteta del vino, il suo piacere era di annusare e guardare, per poi servire tutti meno sè stesso. Era astemio, ma il vino gli riempiva la vita, e in altre circostanze si rivelò uomo di estrema generosità. Aveva la civetteria di definirsi ‘enologo voyeur’.
Il mio battesimo del fuoco fu più di trent’anni fa, circa un mese dopo che ero arrivato a Parigi. Essendo triestino, il vino per me non aveva proprio nulla di esotico. Era vino, punto. A meno che non fosse aceto tutto andava più o meno bene. Bianco con il pesce, rosso con la carne, bollicine per aperitivo, what else? Per farla breve, era dicembre, nevicava e camminavo in rue de Rivoli, quando in uno slargo m’imbattei in una ventina di bancarelle e un grande striscione che annunciava “la foire aux vins”. Era un piccolo angolo inaspettato di “France profonde” che celebrava la provincia nel cuore della capitale. Feci qualche assaggio, per le mie papille grezze assai inconcludente. Poi arrivai al banchetto più piccolo e scarno di merce. Lo teneva Marcel, giovane baffuto e intirizzito dal freddo. Mi servì il fondo di un bicchiere del vino bianco di sua produzione, d’acchito mi piacque più degli altri, mi parve fresco e minerale, un’esplosione primaverile in gola piena di sentori prataioli. Gli chiesi il prezzo di una bottiglia, ci rimasi come una capra: non ricordo esattamente, ma credo fosse l’equivalente di un centinaio di euro odierni. Per l’epoca, per le mie abitudini e anche per le mie tasche, una piccola follia. Ma ero invitato ad una cena assai formale, e volevo presentarmi con tutti i crismi. Così comprai quella bottiglia di Meursault Le Poruzot, Marcel me l’avvolse in un cartoccio, saltai sul 27 che passava di là e raggiunsi i miei ospiti dalle parti dell’Opera.
Feci un figurone, perché il mio ospite conosceva la bottiglia che spuntò dal poco elegante involucro. Al solo vederla un gran sorriso gli illuminò la faccia, e capii di aver fatto una conquista. Avevo trovato una persona fidata che si sarebbe fidata di me, in breve un amico. Lavorava in un istituto di studio e ricerca politica, e visto che facevo il giornalista mi fu di grande aiuto negli anni successivi: per esempio nelle domeniche elettorali, quando aveva la gentilezza di anticiparmi l’esito del voto di qualche ora senza aspettare la chiusura delle urne, così che io potessi scriverne con maggior calma e oculatezza. Potenza del Meursault.
Va detto però che con il Meursault avevo messo l’asticella un po’ troppo alta. Mi era piaciuto molto, ma non potevo svenarmi per un bicchiere di vino. Naturalmente ne assaggiai altri, esplorai l’immensa ragnatela del bordeaux, la solennità dei borgogna, trovai perle ma anche cocenti delusioni. Poi scoprii la Loira, l’Anjou e la sua ‘douceur’, la Turenna e le sue vigne delicatamente collinose. Nessuna superbia borgognona o bordolese, invece molta semplicità e serenità. Quei vini rossi si chiamano Bourgueil, Saint Nicholas de Bourgueil, Chinon, Saumur Champigny, ma sono tutti cabernet franc, da quelle parti familiarmente chiamato ‘breton’. Conobbi Moise, che si era messo alla testa di una protesta dei vignaioli della regione contro il passaggio di un’autostrada proprio lì. Mi spiegò che per costruirla avrebbero dovuto spianare la cima di una collina di mezzo metro, ma che a causa di quel mezzo metro in meno il microclima delle vigne avrebbe fatto molti danni con le gelate in aprile, un grado di meno e ciao vendemmia di bourgueil. Moise vinse dopo due anni di durissima battaglia, e l’autostrada fu costretta a fare una curvona in più per non turbare l’ecosistema di quella regione.
Conobbi Francis, che faceva uno chinon molto pulito e amichevole, a sua immagine e somiglianza. Glielo compravo a 4,70 euro la bottiglia, ben poca cosa per la qualità di quel bicchiere. Un giorno ero a Londra da Harrod’s e curiosavo nel reparto vini. M’imbattei in una delle bottiglie di Francis e strabuzzai gli occhi: 38 sterline, circa dieci volte quanto lo pagavo io. Quando ripassai da Francis glielo dissi, e mi raccontò che sì, che era passato un inglese che aveva assaggiato e comprato e apprezzato, che gli aveva chiesto una fornitura ampia e regolare ma che lui aveva rifiutato. Allora, dopo qualche esitazione per non rovinargli il sonno, gli sparai il prezzo della sua bottiglia in mostra da Harrod’s. Non battè ciglio: “Non mi interessa, non è il mio mercato. Io sono un ‘petit recoltant’, ho una cantina nel tufo con i suoi limiti, e comunque mi va bene così’”. Di diventare ricco non gliene importava un fico secco. Aveva la sua vigna, la sua passione, la sua clientela come il parroco ha i suoi fedeli, e ci teneva. Benedetto sia Francis.
Ecco, andate pure in Borgogna, regno del pinot nero e dello chardonnay. Andate pure a Saint Emilion e visitate uno chateau, dove storia e vino fanno un tutt’uno. Andate in Alsazia a caccia di grandi bianchi di vendemmie tardive. Se però andate sulla Loira visitate pure un castello (come si dice: visto uno, visti tutti), ma poi forniti di una guida (per esempio quella di Hachette) andate a becchettare tra i vignaioli della Touraine. Troverete cortesia e antica civiltà e prezzi umani, che non guasta. Poi potete pernottare a Chinon, dove aleggia ancora lo spirito del suo figlio più illustre, un certo Rabelais. Se invece restate a Parigi informatevi sui “bar à vin” e sui bistrot ancora sulla breccia (ve ne sono), e il tempo di una ‘blanquette de veau’ e di un bicchiere di chinon vi sembrerà di essere Maigret, e la Francia vi svelerà qualcosa del suo fascino. Altrimenti andate, fotografate e postate la tour Eiffel o il Sacre Coeur, che poi sarebbe la versione moderna delle diapositive al ritorno del viaggio di nozze alle Baleari. Io alla seconda mi alzavo, salutavo e me la filavo. Bon voyage.