Quando, qualche anno fa, ricevetti la telefonata da un professore del liceo di mio figlio, che mi chiedeva un aiuto per la realizzazione di una gamification, rimasi interdetto.
Il prof aveva saputo che lavoravo in una importante società di creazione di videogiochi, Activision | Blizzard, e non vedeva l’ora di coinvolgermi. Però io allora non sapevo cosa diamine fosse la “gamification”.
E me lo spiegò lui: era invalsa nell'Unione Europea l’idea (bizzarra) di finanziare dei videogiochi a sfondo educativo, e quindi i professori erano stati incoraggiati ad inventarsi dei “game” con fini “educational” per i loro studenti. Di qui il termine orribile, che fondeva le due parole di origine anglosassone.
Ma davvero i professori possono essere in grado di fare dei “videogiochi”? Non sarà per loro una ennesima “Mission impossible”?
Creare un gioco è una cosa seria. Costruire un videogioco è una cosa serissima. Talmente seria che è la prima industria del pianeta. Ma noi italiani, e per molti aspetti noi europei, questo enorme dato economico-politico lo dobbiamo ancora scoprire.
Grazie a dio, ci sono le rubriche di Fogli&Viaggi, che ci vengono in aiuto.
Cominciamo: quanti tipi di videogiochi ci sono sul pianeta? Abbiamo un metodo per classificarli? Oppure seguiamo i filoni letterari o cinematografici, e diciamo che ci sono giochi di guerra, gli sparatutto, giochi horror, giochi elementari, giochi comedy, giochi filosofici come i solitari, che vengono anche chiamati giochi da scrivania, giochi di ruolo, adventure, etc etc..?
Questione spinosa. Che venne affrontata anche dall’Istituto di Psicologia Cognitiva del CNR, con il quale la mia società collaborava quando decidemmo di sperimentare l’informatica in materie didattiche non scientifiche, come la storia, la geografia e la letteratura. Stavamo lavorando al progetto Ipermappa, sperimentato nelle scuole medie di Terni, anni ’90, e poi pubblicato in alcune puntate dalla casa editrice Laterza in CD-ROM.
Era importante capire cosa attirasse i ragazzi nei videogiochi, in modo tale da sfruttare quella ricetta magica per realizzare un programma invece assolutamente formativo e in grado di costruire conoscenza al loro interno, quasi giocando.
Cercando quindi di raccapezzarsi nelle migliaia di giochi diversi, i ricercatori del CNR avevano provato a seguire un’altra strada, quella “intensionale” piuttosto che quella “estensionale”. Che cosa caratterizza tutti i giochi del mondo, dal punto di vista dell’utente?
È molto semplice, e la risposta si trovava nei libri di Jean Piaget, che aveva studiato l’evoluzione mentale del fanciullo seguendola nel suo sviluppo dai pochi mesi ai 14-15 anni. Vi sono tre stadi nello sviluppo mentale dei bambini, molto ben marcati, che costituiscono anche la base ludica del tipo di gioco che si vuole realizzare.
La prima fase è quella senso-motoria, laddove il bambino deve imparare a coordinare i propri movimenti, a camminare, a saltare e a muoversi nello spazio tridimensionale. A questa fase fanno da riscontro i giochi che richiamano l’abilità motoria, quelli che richiedono molta manualità e molta abilità col joystick o con la console di gioco, col controller WII o con gli altri dispositivi di interazione.
Ma anche i buoni vecchi “marzianetti”, il ping-pong e tutti i giochi arcaici degli albori.
Poi vi è una seconda fase, dove si passa ad un primo livello di coscienza intuitiva che guida le operazioni concrete e le prime forme di pensiero. Infine, si passa alla fase più matura, introno ai 13-14 anni, dove il ragazzo acquisisce il pensiero simbolico e combinatorio.
E allora si può giocare anche a Master-mind, a giochi in cui la combinazione deduttiva di alcuni elementi chiave porta alla soluzione logica.
Non se ne era accorto nessuno, ma una versione del gioco di Batman era organizzata proprio in tre fasi distinte, incompatibili tra loro, in crescendo ― che rispecchiavano le abilità mentali che descriveva Piaget nei suoi studi psicologici. Questo fece scattare la scintilla.
Già questo fa capire che, quando realizziamo un videogioco, stiamo andando a toccare corde profonde dell’essere, elementi costitutivi della mente del giocatore.
Per inventare un gioco, poi, bisogna pensare non solo alla storia che tiene in piedi tutto, ad esempio alla missione che porterà il giocatore dai primi livelli fino alla sfida finale, ma anche ad un sottilissimo e delicatissimo meccanismo di premi e punizioni, vantaggi e svantaggi, che si sostanziano in bonus, in “armi” o strumenti conquistati, o in malus, in perdite, anche in perdite (o acquisizioni) di ”vite”.
Fare il progetto di un gioco è una operazione complicatissima, e molto stressante. Una bravo game-designer deve mantenere il tasso di appeal sempre e costantemente alto, perché il gioco rimanga “sexy” in ogni livello. Poi deve creare la “stratificazione”, per cui livello dopo livello si raggiunge una complessità di strumenti a disposizione, di tecniche di gioco e di strategie, tali da far sembrare possibile a tutti i giocatori di superarli, ma in realtà la selezione deve essere quel tanto di feroce e di sadico che ci vuole per far sentire l’utente sempre un filino sotto la piena capacità di giocare.
In questo modo si stimola la ripetizione del gioco e l’incaponimento, perfino, nel tentativo del superamento delle barriere poste ad arte.
Infine c’è la parte più importante, la “playability”, la “giocabilità”, che è quell’elemento misterioso e affascinante che rande un gioco “bello” o “brutto”, adatto alla propria conformazione psico-fisica, o disadatto e quindi non giocabile, o noioso, o “sbagliato”. Non è solo la bellezza della scena e dei suoi elementi, la facilità con cui ci si adatta alle sue regole, il livello di risposta ai comandi, la difficoltà di impiegare gli strumenti che ti concede, la velocità di esecuzione… è un po’ tutto questo messo insieme.
Mi sono dilungato su questi elementi “classici” che caratterizzano soprattutto i giochi tridimensionali, perché questi fattori ci dicono qualcosa della mente umana che gioca, e che quindi “si mette in gioco”.
Una giocatore che entra in un videogioco, anche se non dispone di strumenti “immersivi” (il citatissimo Oculus, i caschetti, i guanti o gli altri sistemi interattivi più avanzati), stacca in quel momento i contatti col mondo e si “immerge” in un altro mondo, tutto da scoprire, tutto da “vivere”.
Nel quale deve imparare a muoversi, ad orientarsi, a giocare, e spesso a sopravvivere.
E lo fa, pur sapendo benissimo che sta entrando in una sorta di simulazione. Ma la mente umana, come insegnava Cartesio, è fatta proprio così, non è in grado di discernere decisamente fra la realtà, il sogno, la simulazione, il racconto cinematografico, il teatro, la fiaba.
La mente umana si abbandona, sospende il sano scetticismo che la dovrebbe trattenere nella realtà, e vive, si “immedesima”, nel racconto, nei suoi personaggi, nella storia. La riproduce al proprio interno e, se chiamata a collaborare, fa quello che farebbe nella vita reale se fosse posta nelle stesse condizioni.
Questa “sospensione dello scetticismo”, o per dirla con il termine tecnico americano “suspension of disbelief” (questa definizione si deve al poeta Samuel Taylor Coleridge, 1772-1834) , non è passiva, ma viene praticata da noi giocatori, o se volete da noi “sognatori”, attivamente.
E sta alla base di qualsiasi racconto.
Faccio un esempio.
Quando a Disney Quest iniziarono a studiare come usare le nuove tecnologie digitali per le loro attrazioni, non potendo commettere errori sull’argomento incaricarono una commissione di psicologi e di tecnici di valutare l’impatto sul pubblico delle nuove tecnologie applicate.
Uno dei giochi-test che proponevano al loro pubblico era Alladin, in cui c’era una sorta di tappeto volante stando sul quale i giocatori, che indossavano un casco e avevano uno strumento digitale simile ad una spada laser, dovevano avventurarsi nel gioco.
Il test fu eseguito su qualcosa come 45.000 giocatori, che vennero tutti intervistati dopo la loro esperienza. Il risultato fu che pochissimi si lamentarono degli strumenti digitali che dovevano indossare e impratichirsi ad usare per partecipare ― cosa che rappresentava invece la maggiore preoccupazione da parte dei dirigenti della Disney ― ma la domanda generale del pubblico fu: “Come faccio a vincere?”
Non importa se stai sul display di uno smartphone o in un cave immersivo, o con un casco in testa; non importa se hai una simil spada-laser in mano o usi il tuo semplice ditino per toccare lo schermo e fare le tue mosse, non importa se stai su un sedile che si muove in modo coordinato alle scene che vedi o se ti trovi seduto sulle panche di una metropolitana: la nostra mente stacca la spina dalla realtà e si immerge volentieri nello spazio ludico.
E in quello spazio gioca con le unghie e con i denti.
Ed è disposta a ripetere mille volte lo stesso livello, pur di spuntarla. Pur di prevalere. È una sfida con se stessi.
In un articolo che apparve alla fine degli anni ’90, il celebre scrittore e critico letterario Claudio Magris rifletteva sul fatto che i nostri ragazzini erano tutto sommato pronti a contrastare una invasione aliena, dopo averne sterminati a milioni grazie ai loro videogiochi.
La immersione nel gioco può però anche diventare fuga patologica dalla realtà. Proprio perché il gioco offre una realtà alternativa, virtuale, che consente una vita parallela.
E questa realtà sembra fatta apposta per favorire la fuga dal presente.
L’essiccarsi delle fonti di socializzazione vitale, dei punti di ritrovo e di cooperazione fra i ragazzi, di messa in comune dello spirito di gruppo e di associazione per fare qualcosa insieme, e non per difendersi dalle altre tribù, la scomparsa dei partiti e delle loro sezioni giovanili, ha favorito moltissimo le patologie legate ai videogiochi.
Succede qualcosa di molto potente e molto profondo quando si interagisce così intimamente con sistemi digitali molto complessi.
Chi ha programmato i computer, chi è entrato dentro i linguaggi di programmazione e li ha fatti diventare parte del proprio pensiero, sa perfettamente che qualcosa nella propria mente è cambiato, che una parte delle logiche tipiche dei computer sono entrate nella sua mente e convivono, in modo corposo ed evidente, coi pensieri abituali. È come se in una stessa mente albergassero più mindset, più assetti mentali, contemporaneamente.
Ed ora parliamo dell’aspetto economico, quasi del tutto misconosciuto in Europa.
Esistono vari livelli qualitativi di gioco. Qui in Europa, salvo rarissime eccezioni, siamo a livello C o D. Un gioco di “classe A” o “A+” (si indicano proprio così, tecnicamente) richiede un intero studio a disposizione per un tempo medio di 3 anni. Lo studio è composto da svariate decine di persone, più altre strutture a supporto, come ad esempio uno stage per la cattura dei movimenti e dei gesti dei personaggi principali (motion capture), da applicare poi ai personaggi tridimensionali del gioco.
Ci sono anche società che da tempo hanno fatto studi approfonditi dei movimenti umani ed hanno sviluppato intelligenze artificiali che muovono i “character” (gli avatar dei videogiochi) in maniera molto naturale e realistica. Anche queste società collaborano alla realizzazione dei videogiochi.
Il costo di un simile progetto, di Classe A, si aggira fra gli 80 e i 100 milioni di dollari. Cioè quanto un film statunitense di media portata. E richiede, ripeto, non meno di tre anni dalla scrittura del primo bit fino al suo rilascio sulle piattaforme di distribuzione, come la notissima Steam.
Quali sono i ritorni finanziari di questi investimenti?
E qui c’è il dato sconvolgente, che il nostro sistema di economisti, banchieri, politici non riesce proprio a capire.
Non conosco le classifiche ufficiali, ma giochi di questa classe, come “Call Of Duty” (per i fanatici, COD) o “Guitar Hero” (nelle sue svariate incarnazioni), per non parlare di “Word of Warcraft” (WoW), portano a casa oltre il miliardo di dollari. Capito bene?
Una società come Activision, o la Lucas Arts, o Ubisoft, o Blizzard (che costituisce, nella storia secolare del capitalismo mondiale, la società più profittevole in assoluto, comparata con qualsiasi altro settore merceologico) tiene in piedi una ventina di videogiochi l’anno, ed ha una programmazione pluridecennale, con un mercato solido e trasversale su tutto il pianeta. Per i videogiochi non ci sono blocchi di tipo commerciale, culturale, religioso, ma pescano utenti in tutti gli strati della popolazione, e sono distribuiti su tutta la faccia del pianeta, 24h per quelli che si realizzano on line.
Tanto per farvi capire, un gioco come World of Warcraft, che poniamo ha 11 o 12 milioni di sottoscrittori a 10 dollari al mese, incassa ogni mese, in liquido, 110 o 120 milioni di dollari. Tutti i mesi, per tutti gli anni. E questo è solo uno dei titoli di quello “studio”.
L’economia dei videogiochi, da sola, fattura più di tutti gli altri mercati dell’intrattenimento messi insieme, vale a dire cinema, televisione, editoria e chi più ne ha più ne metta.
Altrimenti detto, una sola di queste società produce quanto un punto del PIL dell'Italia intera. Una sola. Portano a casa più della droga, più delle armi. Più della Mafia. E non vengono neanche valutate dal nostro sistema economico o di incentivi: danno invece quattro soldi ai professori per farli diventare "imprenditori di loro stessi" (sic!).
Ora, tornando ai poveri professori, capite meglio che assurdità vengano proposte a nostri operatori culturali che dovrebbero impegnarsi in attività più consone alla loro formazione. Lo stesso dicasi per i direttori dei musei e dei parchi archeologici, trasformati in manager che devono provvedere alla “sostenibilità” e alla “promozione” dei loro istituti, ai bilanci, al personale di custodia, alle gare, al codice degli appalti, alle norme sulla sicurezza…
Lo stupidario del neoliberismo applicato ai beni culturali.
Ma sui giochi non si scherza!