ARTISTICUS.
Museo, tempio del Bello

Chi, fra noi, è riuscito a gettare un’occhiata oltre il limite dell’umano? Chi sono, fra noi, quelli che vivono fuori e oltre le nostre regole? Quelli ai quali viene concesso di essere come gli pare, e che fanno della loro diversità e della loro originalità un credo, la pietra angolare di giudizio di tutto il loro agire?

Ebbene, facile a dirsi: sono gli Artisti.

Il “sistema di regole” in cui un Artista, un grande artista, vive non ha nulla a che fare con quello che regola la vita degli altri esseri umani. Con quello della gente comune. Ma la presenza degli Artisti è di vitale importanza per la nostra società aperta. Fondamentale. Irrinunciabile.

Bisogna aver vissuto e lavorato con loro, per comprenderlo. E non sto scherzando: chi non ha fatto questa esperienza forse non riuscirà mai a capire fino in fondo come si vive fuori dalle regole del sistema, e come questa esistenza parallela sia corroborante e vitale per l'intera struttura sociale.

La questione è molto seria, è parliamone approfonditamente.

E per farlo ricorriamo a pensatori che hanno riflettuto sul significato profondo dell’Arte.

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Immanuel Kant

Partiamo da Immanuel Kant.

In un passo molto profondo della Critica del Giudizio, Immanuel Kant affronta il problema formale delle nostre facoltà conoscitive, in relazione proprio alla definizione del "bello". Cioè alla definizione dell'arte e dei suoi capolavori.

Cosa sono? Perché ci piacciono, perché ci impressionano e talvolta ci "stregano"?

Richiamiamo brevemente la teoria di Kant: queste “facoltà mentali” sono i soli strumenti che abbiamo a disposizione e che la nostra mente utilizza per cercare di capire come è fatto il mondo là fuori, e per cercare di capire da dentro come sia fatto il corpo umano che ci ospita, nel quale siamo stati insediati (o, per dirla con Martin Heidegger, siamo stati gettati).

Spiega Kant: l’Intelletto è quella facoltà che ci consente di individuare, all’interno dei dati provenienti dai nostri cinque sensi (frammentari, disordinati e caotici) delle regolarità, delle ricorrenze, delle connessioni, se esistono. Ed è la facoltà che ci consente di distinguere nei fatti le cause dagli effetti, di ipotizzare spiegazioni possibili, e quindi di formulare possibili teorie. Per quanto strampalate possano essere.

Facciamo un esempio banale.

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Un'azione del Napoli

Sto assistendo ad una partita di calcio. Osservo come si svolge l’azione che ha portato al gol della mia squadra. L’azione è finita, l'ho vissuta attraverso la vista; con le orecchie ho sentito l’urlo crescente di incitamento dei tifosi, fino ad arrivare all’esplosione del boato quando l’attaccante ha segnato, e a quel punto ci siamo abbracciati tutti (entrano in gioco anche il tatto e l'olfatto).

Al colmo della gioia, telefono allora ad un amico e gli racconto tutto ciò che è appena accaduto, reimmaginando la scena, ripetendogli cosa ho percepito attraverso i mei sensi, in modo che anche lui simuli — in un suo teatro mentale — la stessa scena che gli sto raccontando. E che cerchi di riprovare coi suoi sensi, per simulazione a specchio, ciò che ho provato io coi miei sensi.

L’intelletto è quindi, per tradizione filosofica, quella facoltà che ci consente di individuare nei fatti delle regolarità, delle ricorrenze. Ed è la facoltà che ci consente, grazie alle connessioni che immette fra essi, ad esempio fra cause ed effetti, di ipotizzare spiegazioni possibili, e quindi di elaborare teorie.

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Nel nostro esempio, vediamo che un difensore ha tentato di sbilanciare la corsa di un attaccante avversario, che ha resistito. Poi abbiamo visto il pallone spiovere in area di rigore, e mentre un altro attaccante saltava per colpirlo di testa, nello stesso tempo abbiamo visto un suo compagno franare a terra a pochi passi da lui. Cosa è successo? Non lo sappiamo veramente, non lo abbiamo visto, ma quando lo raccontiamo al nostro amico al telefono facciamo ipotesi, diamo spiegazioni, concateniamo gli eventi nella maniera che si sembra più logica e opportuna.

Questo è l’intelletto al lavoro: nota eventi, si pone domande, cerca delle cause, elabora teorie e spiegazioni, anche bizzarre e improbabili, anche strampalate, non importa. Tenta di risalire dai fatti alle regole. Fa il lavoro dell'induzione, dal particolare salendo su verso il generale.

Ma saranno tutte buone, quelle teorie così elaborate? L’intelletto non sta per caso prendendo fischi per fiaschi, come accade spesso perfino nella storia della scienza?

Subentra allora — sempre secondo la nostra tradizione filosofica — una seconda facoltà mentale, la Ragione che, come un giudice in un tribunale, si trova sulla sua scrivania una grande messe di teorie, le più disparate e strampalate possibili, che le vengono sottoposte dall’intelletto.

Tutte teorie elaborate ad-hoc per spiegare i più disparati fenomeni nei quali si è imbattuto. Spesso ci sono più teorie concorrenti, che cercano di spiegare lo stesso fenomeno, per tentare di interpretare la realtà da diversi punti di vista.

E allora che fa la Ragione? Le prende in considerazione tutte, una per una; le passa al vaglio, le confronta, cerca di invalidarle, immagina di applicarle anche ai casi più estremi, per valutarle e soppesarle, per vedere se “reggono”.

E poi decreta.

La Ragione fa quindi la strada opposta a quella dell'intelletto, discende da regole generali a casi particolari, deduce. Fa da legislatore interiore.

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I due metodi delle nostre facoltà conoscitive

Scarta tutte le teorie illogiche e improbabili, e cerca di unificare quelle che le sembrano analoghe o complementari, in maniera da ricreare un quadro d’insieme coerente, una “visione sistematica del mondo” — che comprenda quanti più casi e quante più eccezioni possibile. Così avviene nella nostra conoscenza. Così lavora la Ragione.

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Ora, nel passo della Critica del Giudizio cui facevamo riferimento, Immanuel Kant parla dell’arte come situazione di “libero gioco fra intelletto e immaginazione”. Il significato, dopo quanto abbiamo detto, diventa abbastanza semplice eppure carico di conseguenze.

L’intelletto è dunque la parte della mente che si occupa della comprensione immediata di ciò che abbiamo intorno, del mondo che ci circonda. È la nostra parte euristica, che va in esplorazione, alla scoperta del mondo, è la componente pionieristica della nostra mente, se volete.

L’altra parte della nostra mente — la Ragione, appunto — cerca invece di consolidare quella esperienza pionieristiche in regole, in leggi, in norme, in precetti, che fissino una volta per tutte l’aleatorietà della vita e dell’esperienza di tutti i giorni, congelandole in principi solidi e duraturi. Ed universali, cioè che valgano per tutti gli uomini e per tutti i fatti, sempre e ovunque si manifestino.

In suo aiuto interviene l’immaginazione: appena l’intelletto scopre nella realtà le prime avvisaglie di quei principi decretati dalla ragione, l’immaginazione le proietta su larga scala come se sapessimo già come andrà a finire. E ci fa quindi “guadagnare tempo” sulla realtà: proiettando il finale, anticipando il futuro, e così predisponendoci per tempo a fare le contromosse decisive — in un istante — per intervenire prontamente sulla realtà e, se del caso, vincere!

Se volete — riflettendo un attimo in parallelo — la controparte dei “princìpi” della Ragione sono i simboli.

simboli

L’attività simbolica della mente, che racchiude in sé, in una unica rappresentazione, una miriade di significati e concetti tutti legati e imparentati fra loro, in una rete al cui centro è posto il simbolo, è una forma di conoscenza molteplice istantanea. E totalmente “astratta”, cioè vale solo per gli esseri umani nel loro universo del pensiero — e per nessun’altra specie animale al mondo.

Torniamo al gioco di Kant, all’arte che imballa l’intelletto e l’immaginazione facendoli girare a vuoto.

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Il David di Michelangelo

Quando guardiamo un quadro, una scultura, quando vediamo un balletto o ascoltiamo della musica — ci dice Kant — queste due facoltà mentali, importantissime e decisive per la nostra conoscenza e per la nostra sopravvivenza nel mondo reale di tutti i giorni, vengono applicate liberamente al gioco artistico-formale che stiamo percependo. Siccome vengono liberate dall’impellenza delle necessità di vita, dall’obbligatorietà di “comprendere o morire”, queste nostre due facoltà cercano di trovare leggi, regole, somiglianze, significati reconditi, sempre applicando questi concetti vitali — ma in questo caso soltanto alle pure “forme” che l’arte ci offre. E questo ci dà piacere. E mantiene aperti molti significati del mondo, squarcia la realtà e la storia, e ci dà una visione concentrata della vita.

Perché l’arte non ci pone a rischio, (almeno apparentemente). Non dobbiamo agire o reagire, non dobbiamo difenderci, non dobbiamo rispondere prontamente. Dobbiamo guardare, riflettere e ragionare gratuitamente. Basta contemplare. O “basta connettere”, come avrebbe detto E. M. Forster.

Con l’arte queste facoltà intellettuali agiscono — come dire? — in folle, sono libere di passarsi reciprocamente la palla e di scambiarsi continuamente i dati. Giocano fra loro, ma è come se facessero sul serio. E questo ci illumina e ci appaga.

David

L’intelletto cerca le forme dell’Arte, i contenuti, le sonorità particolari nell’espressione artistica cui sta assistendo in maniera apparentemente passiva (come avviene, ad esempio, visitando una mostra di sculture, un concerto, un’opera teatrale, un film), e si applica disperatamente e freneticamente a trovare similarità e consonanze con altre opere della stessa forma d’arte, o di altre forme artistiche, o anche con le forme della vita di tutti i giorni. La Ragione tenta di starle dietro e di consolidare le scoperte dell’intelletto in regole generali, in “stili”, e ne prefigura la funzionalità con l’immaginazione.

È in questo modo che gli esseri umani cercano di seguire le tracce dell’Artista, di salire sulla sua stessa scala per scrutare l’orizzonte che lui ha visto.

Proprio questa è la funzione dell’arte nella società moderna; funzione compresa perfettamente già dai rivoluzionari francesi del 1789 — che infatti inventarono, con il Louvre, il prototipo del museo moderno. Con un preciso compito: dopo che i sanculotti avevano requisito migliaia di opere d’arte a centinaia di nobili decapitati e le avevano ammassate nel magazzino del Louvre, si posero la domanda di cosa fare con quei capolavori. E il primo direttore e fondatore del Louvre non ebbe dubbi: quelle opere andavano offerte alla riflessione (al libero gioco euristico) dei cittadini.

Louvre
Il Museo del Louvre a Parigi

E questo fu proprio il pensiero cosciente del suo inventore, Henri Reboul: il Popolo, i Cittadini (come si diceva a quel tempo) vivono normalmente abbrutiti dalle fatiche della vita di tutti i giorni, dal loro lavoro, per far fronte alle necessità materiali e primarie della sopravvivenza.

Reboul

Invece, grazie al Museo concepito da Reboul (a cui dobbiamo essere eternamente grati) e alle opere d’arte ivi esposte, grazie ai capolavori che contiene, grazie ai reperti archeologici, ai prodigi dell’architettura e della musica — quelle masse in via di abbrutimento hanno l’occasione di entrare magicamente in contatto con il Bello, il Simbolico, col Sublime. Con l’altro mondo. Con la perfezione.

Ciò schiude la vita al significato che dovrebbe avere. Che non è l’abbrutimento dell’essere umano, bensì la sua rinascita.

Perché il Bello, come anticipazione del Bene, è possibile ed è lì, in bella mostra, davanti ai nostri occhi, a portata di mano.

Quindi, se i Conservatori dei Musei e gli studiosi hanno fatto un buon lavoro, l’opera d’arte diventa comprensibile ai molti. Diventa uno stimolo e un arricchimento interiore. Ed assume un valore di redenzione straordinario.

Robespierre

Non a caso chi inaugurò il Louvre, il 10 agosto 1793, con il nome di “Museo Francese”, fu Maximilian Robespierre in persona, il capo della Rivoluzione Francese.

Ecco quindi il ruolo sociale dei “Musei”. Ecco perché devono essere liberi e gratuiti, inderogabilmente. Un museo a pagamento, un museo che punti alla sua “sostenibilità”, tradisce la sua funzione sociale e la trasforma in un mercimonio, in un do-ut-des, in un privilegio, in un luogo ristretto per “addetti ai lavori”, e non più per tutti i cittadini.

Un fraintendimento colossale. Ma altamente funzionale all’ideologia dominate, che vede quantità e numeri anche laddove c’è qualità ed elevazione.

Per concludere, diciamo che l’Arte è uno dei pochi modi attraverso i quali alcuni selezionatissimi e fortunati (o sfortunati, a seconda dei punti di vista) esseri umani, con le loro sole forze, spesso agendo titanicamente contro tutto e contro tutti, riescono a bucare la cappa che ci tiene confinati nella condizione di oppressi, riuscendo ad affermare l’umanità che è in germe nell’Uomo.

Louvre
Vincent van Gogh, Autoritratto con orecchio bendato, 1889

Per loro, ma anche per tutti noi. Riuscendo a vedere il mondo con gli occhi dell’eternità, e mostrandocelo così, nella speranza che non rimaniamo ciechi.