Nella sua conferenza di inizio anno, la nostra Presidentessa del Consiglio Giorgia Meloni ha manifestato parecchia preoccupazione per il ruolo che sta avendo, e che avrà nell’immediato futuro, l’intelligenza artificiale nel campo dell’occupazione dei lavoratori. Lei ha specificato: nel “mercato del lavoro”.
Il suo ragionamento è stato il seguente. Fino ad oggi l’innovazione tecnologica ha comportato un miglioramento dell’efficienza dei lavoratori, con una loro specializzazione e qualificazione superiore proprio nell’uso delle nuove tecnologie. I lavoratori dovevano essere più qualificati per accedere ai nuovi lavori, mentre a quelli poco qualificati, o semi-analfabeti, non poteva essere garantito più alcun posto di lavoro, anche perché insidiato da immigranti che, a poco prezzo, eseguono quegli stessi lavori presto e bene (con tutte le conseguenze politiche, ideologiche e sindacali che questo poi comporta).
Ma ora l’AI sta cambiando lo scenario.
Perché l’AI non aiuta più i lavoratori efficienti e qualificati, ma rischia di sostituirli anche nei lavori più qualificati e specialistici. Nei lavori di fascia alta e altissima, il regno dei privilegiati, che rischiano di finire anche loro nella polvere.
E siccome stava parlando in conferenza stampa a molti giornalisti, li ha guardati negli occhi e ha detto loro che la cosa li riguardava direttamente.
Come sappiamo dalle cronache americane, il New York Times ha fatto causa ad Open.AI perché gran parte dell’addestramento della loro AI sulla scrittura (e in particolare della scrittura di articoli giornalistici) è stata realizzata sull’enorme archivio di pezzi pubblicati per quella testata. Solo che quegli articoli erano coperti da copyright. È vero che non sono stati copiati quanto a contenuto, ma sono comunque stati utilizzati per addestrare una AI a scrivere nello stesso “modo”, saccheggiando il loro patrimonio di conoscenze e di stilemi.
Ha ragione la nostra Presidentessa Giorgia Meloni?
E se l’AI rende inutili anche i lavoratori più specializzati, che succederà già nella società di domani, non solo in quella di dopodomani?
Qui si sconta un problema fondamentale di visione della società e del futuro. Rischio di ripetermi, ma senza una visione “ideologica” del dopodomani, non si riesce neanche a capire cosa bisogna fare oggi per domani. Quindi la politica senza visione degrada, diventa mera gestione dell’esistente, “mercato dei voti”, e da lì a scendere nei bassifondi il passo è breve.
Ed è probabilmente quello che è accaduto nella politica che ci accompagna, dopo il crollo degli “ideologismi” (concedetemi il distinguo) — perché una visione ideale, che metta al centro alcuni valori umani rilevanti, non è un male, non è l’"ideologia fanatica", ma esattamente il suo contrario — è il bene della politica e della conduzione di una intera società verso i propri traguardi. Se la politica si riduce all’economia, la nostra considerazione sull’AI si riduce allora a misurare quanti posti di lavoro ci sottrae, e quindi come si riduce la base dei contribuenti, e come si estingue di conseguenza un erario. E addio Stato!
Ben venga, dunque, la riflessione meloniana, soprattutto se posta al livello giusto e con i giusti riferimenti, e non soltanto riferita al “mercato del lavoro”. Cosa che facciamo ben volentieri, di concerto.
Detto in altri termini, è il problema dei Robot.
Vediamo di riformularlo bene, e di rifletterci bene sopra tutti insieme, perché il nostro futuro, e quello della nostra prole, passa inevitabilmente da qui.
In questi giorni guardiamo con orrore alla possibilità che la Cina “comunista” si impossessi dell’isola più importante del mondo in quanto a tecnologia, Taiwan. Fateci caso, ogni volta che si inasprisce il confronto Usa-Cina, partono le navi e gli aerei “comunisti” e fanno esercitazioni e caroselli intorno a Taiwan, come gli Homungulus di Mad Max 2, sempre in procinto di assaltare la raffineria di petrolio. Perché lì si concentra la produzione mondiale di microchip, oramai indispensabili alla sopravvivenza tecnologica delle società postindustriali.
Dovesse cadere quell’isola nelle mani dei cinesi ― rivendicata dal gigante asiatico con futili motivi pre-logici ― l’Occidente tornerebbe indietro di 50 o 60 anni, e forse più, con le conseguenze potrebbero anche essere devastanti.
Stiamo tutti scherzando con il fuoco. E le slabbrature di guerra si cominciano a sentire forti e chiare, come vene di una eruzione che cova sotto la cenere, e che potrebbe deflagrare in qualsiasi momento.
Ora permettetemi di proporvi uno scenario tecnologico come visione di un futuro a portata di mano, semplicemente indicandovi delle traiettorie e il loro punto di congiunzione.
Dunque, prima traiettoria.
Da una parte abbiamo lo sviluppo sempre più impetuoso dell’Intelligenza Artificiale, che sta dando alla nostra specie una potenza di calcolo e di operatività mai prima d’ora raggiunta. Ma la sta dando solo a coloro che sanno come realizzarla e come utilizzarla. I ricercatori in questo campo si sono accorti che, utilzzando per i loro calcoli i chip delle schede grafiche, come le nVidia RTX, potevano raggiungere e superare quella soglia che consente straordinarie performance in tempo reale. E che quindi porta alla vita reale l’AI.
Così gli algoritmi predittivi e quelli statistici, quelli di retro-propagazione delle conoscenze e di riaggiustamento degli errori, diventavano efficientissimi in frazioni di secondo. Poi, grazie anche a investimenti industriali di tutto rispetto, negli ultimi anni le tecnologie dell’AI si sono perfezionante e oggi riescono a operare con facilità in gran parte delle competenze una volta appannaggio del solo essere umano.
Quindi il “cervello elettronico” è ad un ottimo punto. In gran parte dei settori di produzione di beni materiali, di allevamento, biomedicali e di servizi, l’AI è perfettamente in grado di sostituire gli esseri umani con dei robot enormemente più efficienti dell’uomo, non solo: ma anche in grado di riallineare in un istante le loro competenze e capacità, propagando le loro conoscenze a tutti i robot collegati fra loro istantaneamente.
Pensate quanta fatica abbiamo fatto noi, in Italia, ad inserire i computer nella pubblica amministrazione, senza ancora esservi riusciti. Se, al posto dei nostri intorpiditi e spesso svogliati impiegati amministrativi, vi fossero stati dei robot, in qualche secondo sarebbero stati tutti capaci di usare i nuovi macchinari messi a loro disposizione, senza nemmeno protestare. E in qualche secondo riuscirebbero ad allinearsi a nuove tecnologie.
Seconda traiettoria: i social media.
Scherzando durante un’intervista che mi è stata fatta da Marta Rizzo, e che potete trovare in un bel libro collettivo da lei ideato, che si chiama “Non c’è che dire” (La Lepre Edizioni), le raccontavo che il vero prodotto dei social media sono i suoi partecipanti stessi. Non c’è alcun bisogno di far loro pagare una quota mensile per la bacheca su cui scrivono e normalmente si insultano reciprocamente, né per tutti i servizi collegati: gli utenti pagano con il loro agire, pagano con le loro informazioni che rilasciano a voraci robot “sniffatori” (si chiamano “bot) che succhiano tutto ciò che sono e che scrivono.
Pagano rivelando ciò che visitano, pagano coi prodotti che acquistano, con le pubblicità che seguono, con gli “Influencer” a cui sottoscrivono un abbonamento. Pagano coi like.
È tutto un sistema economico che si muove con i social, ma solo se ci sono centinaia di milioni di sottoscrittori. Voi provate a fare i furbi con loro, come ha fatto Elon Musk col suo ex-Twitter, oggi X, facendoli pagare per ottenere i privilegi “premium”, ed ecco che i socialnauti scappano a gambe levate, e ci si ritrova con un bel pugno di mosche in mano. E poi, nasce subito un altro social concorrente gratuito, che fa le stesse cose e che ti frega gli utenti.
Ma ― e qui seguitemi su questa traiettoria ― i dati sottratti “naturalmente” a tutti i frequentatori dei media vanno a rimpinguare i serbatoi di “huge data” di società specializzate, come la famigerata Cambridge Analytica, che li usa per poi addestrare le intelligenze artificiali dedicate a vendere prodotti e servizi al mondo intero, inclusi ovviamente i partecipanti ai social dai quali queste informazioni sono state tratte.
E non solo vende prodotti, ma li impone. E impone anche posizioni politiche, impone la diffamazione, impone i fake. Impone il voto. Impone la propria opinione facendola diventare opinione comune, e criminalizzando tutte le altre opinioni. Lo vedremo presto nelle elezioni Usa, e per quel poco che conta anche nelle elezioni Europee.
Centinaia di milioni di persone che sembrano svagarsi o divertirsi, o perfino discutere fra loro, ma che in realtà stanno dando vita ad un sistema economico formidabile da una parte, e ad una enorme cattura silenziosa di dati personali e comportamentali, linguistici, geografici che non ha eguali nella nostra storia, dall’altra.
Terza traiettoria. La potenza di calcolo dei chip.
Stavamo parlando poco fa di Taiwan, e della super-concentrazione di fabbriche iper-tecnologiche dell’isola del bengodi dell’AI. Ma questo è il presente. Il meccanismo di miniaturizzazione e di aumento di potenza di calcolo in una frazione di spazio sembra essere arrivato al limite fisico di compressione, con le componenti di cui disponiamo. È probabile che la loro realizzazione nello spazio orbitale apporterebbe una certa percentuale di efficienza in più, ma è l’architettura di quel tipo di processori che è arrivata al capolinea.
Bene, come l’AI si è sviluppata ed è esplosa dopo qualche decennio di maturazione delle “reti neurali”, che ne hanno costituito la base di sviluppo, così adesso assistiamo alla maturazione della tecnologia dei processori quantici che sfocerà probabilmente in una nuova generazione di processori spaziali.
Non sono ancora disponibili sul mercato, la loro programmazione è ancora molto difficile e specialistica, ma di due cose possiamo essere sicuri: che costituiranno una enorme salto nelle capacità e nella potenza di calcolo, inimmaginabile oggi. E che, con i dovuti strumenti di programmazione messi a punto, saranno alla portata di tutti, probabilmente distribuiti fra le fibre di una tuta da jogging, o più probabilmente ancora inseriti dentro un simil-orologio da stringere al polso.
Quarta traiettoria. Lo sviluppo di robot umanoidi.
Di “sintetici”, come si chiamano in gergo. Con algoritmi oramai messi a punto di computer vision che ricostruiscono istantaneamente la scena tridimensionale a partire da due, ma anche da una sola, telecamera. Con i sensori emotivi, in grado di comprendere lo stato emotivo del loro interlocutore umano dalla pressione sanguigna del volto, di contare i suoi battiti cardiaci, e con motori e giroscopi in grado di mantenerli in posizione eretta e di farli muovere, saltare e correre con una agilità superiori a quelle umane.
Ora, se continuate con me questo gioco balistico intrapreso insieme, e prolungate anche solo queste quattro traiettorie in un futuro non troppo distante, vedrete che si incontreranno in un punto dove il lavoro non sarà più un problema umano. Non sarà cioè più quello che è stato per i secoli passati e che ha comportato una visione del mondo che abbiamo comunemente chiamato “capitalismo”. Ma anche società occidentale.
Però noi non siamo ancora preparati a questo. Non siamo preparati ad una vita di ozi. O ad essere totalmente liberi dalla schiavitù del lavoro. Non siamo pronti a ricevere un salario in cambio di nulla.
Ma chi se ne intende di queste cose ne parla, magari in stanze molto riservate, ma ne parla, altroché! Il problema è ora squisitamente umano, sociale, valoriale. Di civiltà.
E qui si parrà della nostra nobilitade: che fare?