Ora che siamo nel pieno delle zuffe politiche post-ideologiche, fra pro-ebrei e anti-ebrei, pro-shoah e anti-shoah, fra pro-palestinesi e anti-palestinesi, fra filo-russi e filo-ucraini, pro-fascisti e anti-fascisti, garantisti e giustizialisti, forse è il caso che ci fermiamo un attimo a riflettere, e a rimettere a posto le nostre idee, a rimettere tutti i puntini sulle “i”, e gli immancabili paletti che segnano i punti cardinali negli orientamenti mentali..
Dunque, prendiamo in esame la situazione oggi più scottante, la guerra Israele-Hamas, che ha preso d’infilata la popolazione palestinese residente nella striscia di Gaza. E proviamo a guardarla (per quanto è possibile) freddamente, analiticamente, col bisturi. Anche solo alla luce di ciò che viene posto sotto gli occhi di tutti dai media.
La crisi è iniziata con un selvaggio attacco da parte di Hamas nei territori di Israele lo scorso 7 Ottobre.
La giustificazione dell’attacco sta nel rapporto fra il governo israeliano, i coloni che scalzano illegalmente le popolazioni palestinesi cisgiordane, sostituendole, e la causa del popolo palestinese senza patria né stato da molti decenni.
È una situazione oggettivamente esplosiva. Incrementata dal governo di destra di Netanyahu, che si è accomunato alla ultra-destra religiosa israeliana, nella quale militano molti coloni. Netanyahu ha incrementato e protetto la colonizzazione illegale della Cisgiordania, provocando sofferenza e terrore nei palestinesi cacciati con la forza e umiliati per far posto ai coloni israeliani.
A questo fa da riscontro, nel popolo palestinese, una divisione politica insanabile, fondata su movimenti più squisitamente politici, come Al Fatah o l’OLP, e altri a componente fondamentalista religiosa, come HAMAS (Movimento di resistenza islamica della Palestina, traduzione di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, il cui acronimo è appunto “Hamas”).
Nella striscia di Gaza, sembra che Hamas prima del 7 ottobre avesse la fiducia della maggioranza della popolazione palestinese. Questo motiverebbe il fatto che non vi siano state più elezioni fra i palestinesi.
Perché Hamas maggioritaria, come rappresentanza palestinese, sarebbe un pericolo?
Perché nel primo Statuto di Hamas (1987) è effettivamente contemplato lo sterminio del popolo ebraico e la cancellazione dello Stato di Israele. Cioè, è presente l’intenzione esplicita di commettere un genocidio. Esattamente come nel Mein Kampf di Adolf Hitler, a cui trasversalmente si richiama. Il suo secondo Statuto, quello del 2017, è meno esplicito, ma la posizione è sostanzialmente la stessa: liberare (o reimpossessarsi) del territorio della Palestina “dal fiume al mare”. Cioè tutto.
Quindi, il rischio di avere Hamas a guidare un Parlamento palestinese (più virtuale che reale, d’accordo) è quello di mettere in confronto un estremismo religioso fanatico contro un altro estremismo religioso fanatico, quello dei coloni illegali israeliani, oggi partecipanti al governo in Israele.
Io ci penserei cento volte prima di inneggiare ad una organizzazione politica che ha come fine un genocidio, e di unirmi ad un coro di cui magari non ne capisco le finalità ultime. Naturalmente, questo è diverso dal difendere il diritto di innocanti a vivere o anche solo a sopravvivere.
Al governo israeliano bastava andare a memoria, ricordare cosa avevano fatto i suoi predecessori coi nazisti in fuga in tutto il mondo, responsabili della Shoah: avevano scatenato il Mossad, eliminandoli. Loro, i responsabili diretti. Non migliaia di "innocenti".
Quando era andata bene, li aveva catturati e riportati in Israele, dove avevano subito un regolare processo e affrontato le conseguenze. Avrebbe avuto più senso, rispetto a un massacro di civili inermi. Non responsabili delle azioni di Hamas, se non per quel "consenso" di cui Hamas godeva.
Ci sono poi gli aiuti finanziari ai palestinesi, che finiscono in varie tasche e in vari gruppi politici. E che non sembra abbiano giovato “alla causa”. Ma lasciamo perdere questo argomento, per il momento.
Se questa è la situazione di fatto in Palestina, ci dobbiamo chiedere quanto il governo di Netanyahu (con i suoi atti disastrosi) rappresenti ― sull’altra sponda ― le volontà e le intenzioni del popolo israeliano nel suo insieme (del quale fanno parte anche più di un milione di palestinesi, cittadini dello Stato di Israele, che l’ultra-destra invece vuole espellere per arrivare ad uno stato etnico-religioso) e quanto Hamas rappresenti le intenzioni e i desideri del popolo Palestinese, in nome e per conto del quale ha commesso un’ecatombe il 7 ottobre 2023. Compiendo, con molta probabilità, atrocità indicibili.
Questa domanda ci porta immediatamente ad estendere la stessa considerazione all’Europa e perfino a noi stessi, all’Italia. Il passaggio è molto semplice.
Putin rappresenta sì o no il popolo russo nel suo complesso? O i russofoni del Donbass? Quando, il 24 febbraio del 2022, ordina alle proprie armate di oltrepassare il confine ucraino e di iniziare una “operazione di polizia”, lo fa per il suo popolo o per propri motivi politici?
E Zelensky? È espressione del popolo ucraino, quando si contrappone all’invasione russa e cerca l’aiuto dell’Occidente per contrastarla? O ha mandato a morire centinaia di migliaia di ragazzi ucraini per nulla? O peggio, per una causa sbagliata? O peggio ancora, per una causa persa?
Ma la stessa domanda ce la potremmo fare anche noi. Giorgia Meloni e il suo governo rappresentano i desideri, le intenzioni o gli interessi del popolo italiano, e quindi gli interessi tuoi, i suoi, i miei? O non persegue piuttosto dei suoi obbiettivi, per i quali ha chiesto ed ottenuto un consenso elettorale, ma che poi gestisce in conto proprio? E non possiamo dire lo stesso dei governi precedenti e di quelli che seguiranno?
Il consenso elettorale comporta forse un coinvolgimento degli elettori nelle responsabilità delle azioni degli eletti? Vale a dire: se, come partito politico, scrivo una bestialità nel mio programma elettorale, lo stampo e lo metto a disposizione del pubblico anche su internet, se lo proclamo anche nei comizi, “e la gente mi vota” (col sottotesto sempre abbinato: “gli italiani non sono stupidi: quando hanno votato sapevano benissimo cosa stavano votando”), sono io partito responsabile della sua attuazione, oppure è responsabile chi mi ha dato con il suo voto mandato a operare?
Ed è proprio qui che volevo arrivare insieme a voi, partendo dalla cronaca di oggi, ma puntando poi direttamente al nucleo fondamentale di una questione rilevante.
Che è la seguente: che rapporto c’è, nelle nostre democrazie moderne, fra governati e governanti?
Siamo noi elettori che ci esprimiamo attraverso i nostri eletti, oppure aderiamo semplicemente ad una offerta politica che ci viene consegnata come un prodotto da acquistare o meno? E il nostro “acquisto” ci rende forse “responsabili” dei contenuti di un certo programma politico, che abbiamo votato, più di quanto l’acquisto in un supermercato non ci renda responsabili del contenuto di una scatoletta? Perché la tecnica di vendita e di convincimento è la stessa...
Se compriamo un prodotto pieno di additivi e conservanti, finanche nocivo alla salute (come le sigarette o perfino la droga variamente “tagliata”), condividiamo la responsabilità del produttore sulle conseguenze della fruizione di quel prodotto?
Questo è il punto fondamentale che dobbiamo dirimere, che ciascuno di noi deve dirimere per proprio conto, e che oggi probabilmente sta inchiodando buona parte degli elettori occidentali ad una astensione elettorale basata su ragioni emotive e irrazionali, ma che riserva una coda perniciosa e irresponsabile perché gravida di conseguenze. E che dovrebbe quanto meno spingerci a chiedere garanzie sul nostro voto, come vedremo nel finale.
I popoli ― e di conseguenza gli elettori, dove questo accade ― sono responsabili o no dei loro governanti? E fino a che punto lo sono?
Queste domande sono fondamentali per i partecipanti ad una democrazia.
E ne comportano tante altre, come loro diretta conseguenza. Anche perché tutta la nostra civiltà è basata sul concetto di responsabilità individuale, che ha come pendant il concetto di “persona”, autonoma e responsabile delle proprie azioni, così come la persona è dotata di diritti inalienabili sanciti dalle varie Carte che li definiscono.
Addentriamoci in questi interrogativi.
Dunque, chi sostiene che esista una sorta di “patto” all’interno di una società, e che per il solo fatto di nascervi eredita la sua sottoscrizione, ovviamente intende una bella metafora. Nessuno di noi, infatti, ha firmato alcun foglio o carta bollata, per vivere dove viviamo: si ritrova immerso in condizioni date, e appena è in grado di capire, inizia a prendere una serie di decisioni, dirette o indirette.
Questo vale tanto per noi, quanto per il migrante del Mali o del Pakistan, o della Cina, che trovandosi a svolgere la propria esistenza in condizioni che non gradisce, decide di spostarsi a vivere sul pianeta dove quelle condizioni sono invece più adatte al suo desiderio e al suo progetto di vita.
Questo dovrebbe essere il primo diritto, sacro, per rispettare la libertà di tutti gli uomini che vivono (e che vivranno) sul pianeta. No borders.
Sappiamo, naturalmente, che questa verità è negata di fatto da una infinità di confini, dalle frontiere fra gli Stati, dalle legislazioni che si danno i popoli internamente a certe aree geografiche segmentate politicamente.
Era il Medioevo il tempo in cui si costruivano i castelli per imprigionarvi le persone, e per controllare militarmente i contadi e inchiodare i servi della gleba al loro lavoro nei campi sui quali nascevano. E gli si imponeva di tutto, incluso lo “ius primae noctis”. Nell’anno di grazia 2024, non sembra più una condizione accettabile.
A rigor di termini, se non concepiamo gli uomini ― tutti gli uomini, nessuno escluso! ― liberi di spostarsi sul pianeta a loro piacimento, non riusciremo nemmeno a concepire qualcosa come la nostra libertà e il nostro diritto di perseguire legittimamente gli scopi della nostra esistenza. E allora è meglio lasciar perdere l’argomento.
Secondo punto.
In alcuni Paesi esistono delle “Costituzioni” che stabiliscono il patto fra gli esseri umani in vigore in quella certa nazione. In altri Paesi questi “princìpi” non esistono, esistono solo le leggi, e quelle sono. In Israele, ad esempio, non esiste una Carta Costituzionale. E quindi le leggi varate dalla Knesset o dal governo non possono essere esaminate alla luce della loro congruenza con una serie di princìpi fondamentali, mai approvati.
In Italia invece esiste (altroché!) una Costituzione, ma come in tutti gli arzigogoli bizantini, poi arriva qualcun altro che comincia ad argomentare che ciò che ci è scritto là sopra ― in diretta contrapposizione con quanto gli stessi estensori avevano detto esplicitamente ―- vada “interpretato”. E sempre “con elasticità”. Cioè, che esiste una “Costituzione formale”, ma anche una “Costituzione materiale”, vale a dire quella che viene praticata nella realtà. E se ne esistono due, fatemi capire, non è forse perché la seconda deve buggerare e invalidare la prima? Altrimenti, che senso ha?
A rigor di termini, e nella comprensione comune dei parlanti italiano, la Costituzione è chiarissima e non presenta problemi di interpretazione. Quello che vuol dire, lo dice chiaramente. Ma poi si sono sviluppati gli alti ed astrusi studi dei “costituzionalisti”, che hanno preso in esame da una parte tutti i lavori preparatori della commissione che l’ha redatta, andando a disquisire sulle intenzioni dei Padri Costituenti durante la sua elaborazione, per identificarle e dare un senso “particolare” alle frasi chiarissime già scolpite sulla sua tavola, andando alla ricerca di ulteriori recondite interpretazioni. E dall’altra questionando sulle sentenze della Corte Costituzionale, continuando anche laddove la Corte segnala l’inadeguatezza o la contrarietà della leggi emanate successivamente rispetto ai suoi principi fondanti.
Volete un esempio? La legge elettorale con cui siamo andati a votare è incostituzionale. La Corte lo afferma chiaramente. È contrario a quanto c’è scritto là sopra. Ciò nonostante, in base a circonlocuzioni ed elzeviri causidici, andiamo a votare con quella legge. E questo non urla vendetta?
Molto correttamente, la nostra Costituzione si pone come elemento di valutazione universale per gli altri popoli e gli altri individui. Infatti se qualcuno, perseguitato o messo in difficoltà altrove, viene da noi e fa valere il diritto di asilo in base ai principi della nostra Costituzione, noi lo accogliamo. Lo dobbiamo accogliere. E ciò consegue dal principio che gli uomini devono essere liberi di muoversi e di vivere nella democrazia, che era il nostro primo punto. Riconosciamo a tutti gli uomini i diritti che riconosciamo a noi stessi nella nostra Costituzione.
Ora, è possibile che i cittadini italiani non siano più d’accordo con la Carta Costituzionale a cui si ispirano. È possibile che vogliano cambiarne i principi fondamentali che regolano i rapporti fra loro, i valori in cui credono, e gli obbiettivi che si danno. Perfetto.
Ma allora bisogna riscrivere tutta intera una nuova Carta, che è stata concepita come un sistema omogeneo e organico, con un progetto architetturale che tiene in equilibrio tutte le sue parti, determinando i poteri che le strutture, le istituzioni e le varie parti in cui si articola.
Non si può, e non si deve, minare subdolamente quella Carta sfondandone una paratia, come ad esempio l’elezione e la definizione dei poteri del Presidente del Consiglio. O il ruolo del Senato rispetto alla Camera. Perché così facendo, sembra elementare dirlo, il sistema si squilibra e basta. E prima o poi darà esiti imprevisti e sorprendenti. Si vuole ottenere questo? Bene, allora si mostri un disegno alternativo a quello contenuto nella Costituzione, un nuovo impianto costituzionale, un nuovo Progetto di Stato e di istituzioni. E poi lasciateci liberi di decidere.
Terzo ed ultimo punto. Forse il più importante, per questa discussione.
Il voto.
Le libere elezioni.
La scelta della compagine al governo, e del programma da realizzare.
Sono stati scritti chilometri di saggi per raccontare come la pratica del voto non solo non corrisponda che in una piccola parte al concetto di “democrazia” ― perché la democrazia è solo quell’impianto progettuale scritto sulla Carta Fondamentale e tutto il sistema e l’architettura sociale che ne viene prevista, con bilanciamento dei poteri e possibilità di cambiamento e di accesso per tutti ― ma anche che si tratti del momento cruciale in cui i valori diventano numeri, e i numeri indicano una compagine, o una “parte”, che sarà investita del potere di guidare le istituzioni che governano l’intera società per un certo periodo.
Altri chilometri di saggi sono stati scritti per analizzare il modo in cui il consenso elettorale venga acquisito. Comunicare in una società di massa, composta da decine di milioni di persone, attraverso mezzi di spersonalizzazione a distanza ― e ciò nonostante indurre i destinatari del messaggio a credere e tenere per vero l’oggetto di quelle comunicazioni ― costituisce una tecnica molto raffinata.
Non nuova, nella storia della “democrazia”, ma antichissima.
Quando ad Atene gli antichi greci si alzavano per prendere parola nell’assemblea della loro città, dovevano anche allora far ricorso a tecniche di convincimento personale. Perché alla fine si votavano le varie proposte, e vinceva chi aveva più “sorti” (voti). Era la democrazia diretta, quella vera. Ma era anche la messa in comune del proprio destino.
Socrate aveva dimostrato, a molti dei sofisti e fini dicitori nelle loro assemblee, che quelle tecniche persuasive, senza la conoscenza della verità, risultassero vuote e fallaci. Infatti, venne mandato a morire. Già allora Socrate aveva messo in guardia i suoi concittadini e i suoi interlocutori, avvertendoli che la loro “opinioni” (in greco, “doxa”) non fossero affatto la “verità” (in greco, “aletheia”, letteralmente “disvelamento”).
Cioè, che “opinione” e “verità” fossero quasi l’una il contrario dell’altra. Per noi, oggi, fa tutto l’“opinone”. Ciò che Socrate prendeva per falso. Opinione individuale e l’opinione pubblica. Ma dobbiamo sapere che, a stretto rigore di termini, la nostra opinione è insignificante quando va bene (perché generata da mille cose diverse e incontrollabili dai più, incluse le passioni ed i sentimenti), quando va male diventa perniciosa e spinge a disastri.
Spinge a votare persone su basi fantasiose, che poi tirano fuori programmi e riversano su di noi la responsabilità delle follie che loro attuano. In nome nostro.
A partire da un famoso saggio di Edward L. Bernays, intitolato “Propaganda” (1928), nel quale il nipote di Freud emigrato in Usa (e che conosceva benissimo le carte dello zio, e ne traeva ampi spunti) aveva reso di dominio pubblico le principali tecniche grazie alle quali, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, si riesce ad entrare nelle menti dei consumatori per condizionarli anche oltre e contro i propri interessi e desideri, e li si obbliga silenziosamente ad aderire ai messaggi inviati loro. Per proseguire con Hitler e Goebbels, col lavaggio del cervello, alle loro folle plaudenti i discorsi, persino sessualmente eccitate e emozionate fino all’orgasmo (Willhelm Reich). Per concludere coi messaggi subliminali, le tecniche di manipolazione pubblicitaria delle masse. Solo un ignorante abissale (o un malafedista) non vede come la base fondamentale delle democrazie sia un tappeto melmoso, teatro di silenziose e subdole contese. Qulle orchestrate dai cosiddetti “spin doctor”, abili a rivoltare le frittate (e i risultati elettorali).
Dopo il crollo del muro di Berlino e l’estinzione forzosa delle strutture del socialismo reale, lo scenario della politica in Occidente è cambiato completamente. Ma siccome le “forme” in cui avviene la contesa politica sono rimaste apparentemente le stesse, sembra quasi che vi sia una continuità.
Siamo probabilmente ancora all’infanzia della democrazia. Sembriamo un po’ quei bambini che giocano a mamma e papà con le cucine e i forni di plastica, le tazzine di caffè posticce, e che fingono di bere e assaggiare buonissime torte inesistenti ― laddove le pietanze vere le cucinano altri, le mamme e i papà veri.
Mettiamoci anche le moderne macchine di diffamazione, quelle che generano fango, la propaganda delle fake news, i social, la famosa “bestia” di Salvini che martellava sugli avversari politici, le nuove AI in grado di generare deep fake e rispondere direttamente a ciascun elettore, e avrete un panorama realistico della situazione. Tutto per ottenere quel “numero” finale, in base al quale si assegnano i rappresentati degli elettori.
Quando i cittadini esprimono la loro “opinione” con il voto, dobbiamo pensare al risultato di tutto questo.
E non, come ci vogliono far credere, a dei disciplinati studentelli che dopo aver recuperato i programmi di tutti i partiti, se li leggono per giorni e li sottolineano accuratamente, li confrontano fra loro, assegnalo un punteggio e poi scelgono il programma che a conti fatti (“a conti fatti!”) risulti loro più convincente.
Non avviene questo. Nessun calcolo del genere. È solo una bella metafora. Ma è esattamente questa la rappresentazione che furbescamente viene data del popolo votante, perché da una pratica (solo fantastica) del genere deriva la piena conoscenza delle intenzioni dei partiti e dei candidati, e da qui discende anche la piena responsabilità dell’elettore nell’assicurare loro il proprio consenso. E la “legittimazione” a realizzare il programma per gli eletti.
Bella storiella. Ma se non avviene mai, per nessun elettore, allora le cose stanno diversamente.
Ora, azzeriamo tutta la precedente argomentazione e risolvetemi il seguente quesito.
Se le elezioni sono quel momento cruciale che ci dicono essere, che definisce chi ha vinto e chi ha perso, e che autorizza, di conseguenza, i vincitori di turno a procedere nella realizzazione del loro Programma elettorale, perché investiti dalla “volontà popolare”, non dovrebbero essere proprio le elezioni il momento più sacro, controllato e presidiato della nostra vita sociale?
Cioè, se ogni singolo voto è prezioso proprio per definire chi guiderà l’architettura del potere su cui si ergono le istituzioni statali, e quale programma verrà meticolosamente attuato rendendocene direttamente responsabili, quel voto non andrebbe forse protetto, blindato, super-controllato, verificato e validato?
E invece, guarda caso, non è così. Toh! guarda. I voti si comprano. I voti si “portano” in dote. Il consenso si muove “a pacchetti”. I candidati si muovono coi loro voti. Le schede elettorali per il voto all’estero sono un delirio da bande armate criminali. E noi facciamo spallucce? Boh?
Come mai, allora, non esiste una legge draconiana che, poniamo, obblighi all’esilio perenne e alla confisca dei beni familiari tutti coloro che vengono sopresi a conculcare la volontà degli elettori, a impedirne la libera espressione, o ad alterare in qualsiasi maniera, anche piccola, l’espressione di un elemento così cruciale per l’intera democrazia?
Perché coloro che sono sorpresi a “vendere” il proprio voto, non vengono privati per sempre del diritto ad esprimerlo?
Perché con le Banche e con l’Ufficio delle Imposte abbiamo sistemi di riconoscimento a doppia a tripla chiave, che ci consentono da remoto di essere millimetricamente identificati ed accedere al nostro gruzzoletto o ad altre informazioni, e di disporne come meglio crediamo ― ma quando andiamo a votare tutta questa sicurezza va a farsi benedire?
Io una risposta me la sarei data.
È simile alla vostra?