LEGULEIUS. Quando
il linguaggio
alza barriere

Uno dei maggiori difetti che vengono imputati all’Unione Europea è quello di aver generato una pletora di norme e regolamenti, nell’affannosa ricerca di regolare e prevedere normativamente tutto, tanto da imbrigliare l’azione dei suoi cittadini e delle imprese che operano nel suo territorio.

È vero, una democrazia vive di leggi, ma di leggi si può anche morire.

Lo vediamo con le leggi sull’agricoltura. Una volta i contadini coltivavano la terra e portavano i frutti del loro lavoro al mercato. Vendevano, intascavano, e via a far bisboccia.

Poi è intervenuta la legislazione dell’incentivazione, e poi ancora la grande distribuzione. E adesso coltivi i campi e allevi il bestiame solo per mandare i raccolti al macero. Coltivi solo le specie che ti dicono che puoi coltivare. Se, da allevatore, eccedi nella quota latte che ti è stata assegnata, lo devi buttare in mare, mentre il caseificio affianco a te, per produrre mozzarelle e formaggi compra il latte che viene prodotto nella Germania del nord, e che arriva con enormi autocisterne percorrendo migliaia di chilometri. E lo consegna in orario, mente tu stai sversando il tuo latte pregiato nel tombino comune al caseificio.

Vale anche per le dimensioni delle zucchine, o del pesce da pescare, e così via per ogni singola specie della flora e della fauna, e finanche del terzo regno della natura. Linneo è un dilettante, al confronto.

Fermiamoci ora un attimo a riflettere sulle leggi. Sul loro senso, sul loro calendario interno, e su come vengono scritte.

Partiamo dall’ultimo punto. Il linguaggio delle leggi e la scrittura dei legislatori.

Vi racconto un fatto emblematico. Una volta l’assessora all’informatica del comune di Roma Flavia Marzano (Movimento 5 Stelle), che faceva tanto la innovatrice spigliata con l’apriscatole in borsetta, emise un comunicato del suo ufficio in burocratese stretto. Da maledetto bastian contrario quale mi onoro di essere, glielo feci notare subito, e lei mi si rivoltò contro, col pungiglione dello scorpione pronto a colpire.

La sua tesi era che i comunicati andavano scritti in burocratese. Perché quella è la lingua “tecnica” delle istituzioni.
Per me, roba da chiodi.

piemontese

Vecchia e spinosa questione, che già Tullio De Mauro aveva studiato col suo gruppo di ricercatori di linguistica. Fra i quali anche Emanuela Piemontese, fresca della presentazione di un libro, ultima sua fatica, che si intitola appunto “Il dovere costituzionale di farsi capire” (Carocci editore).

Perché mai questi “tecnici”, ed in primis i notai e gli avvocati — oltreché i burocrati di ogni sorta — quando scrivono un testo lo inzeppano di termini tecnici fino a renderlo quasi incomprensibile ai profani?

Sostanzialmente, per evitare le ambiguità.

Il termine tecnico deve svicolare dalla legge generale del linguaggio, che vuole “polisemico” ogni termine del suo vocabolario, deve perdere il suo carattere generale e deve irrigidirsi, cristallizzarsi in un unico significato, fra le migliaia di significati possibili.

Quest’impresa titanica è un errore madornale. Ma non c’è verso di redimere gli scribi, perché è il succo del loro lavoro. Senza, non esisterebbero neppure.

Già, perché il linguaggio umano in realtà è polisemico. Una parola vuol dire una cosa, ma vuol dire anche tante altre cose. Non indica soltanto un significato, ma ne contiene molti altri contemporaneamente.

Un noto conferenziere, per far comprendere bene il concetto, a questo punto cita spesso la seguente frase illustrativa: “Qualche giorno fa mi sentivo un po’ giù di morale, giù di spirito, e per tirarmi su sono andato da un amico molto divertente, che mi ha fatto fare una gran risata con una battura di spirito. Fra l’altro, questo amico ha l’hobby di distillare lo spirito dalle vinacce per ottenere la grappa. Accanto a casa sua c’è una villa del Settecento abbandonata, che si dice essere abitata da uno spirito malvagio e dispettoso. Ma siccome questo amico, come me, ha uno spirito sportivo, ci siamo entrati per vedere che succedeva, addirittura insieme a tutta la sua squadra di basket, che sente molto lo spirito di gruppo, e si impegna con molto spirito di sacrificio…”

La frase prosegue ancora, ma io mi fermo qui. In questa frase il termine spirito è usato in sette modi diversi, con significati tutti imparentati fra loro, ma comunque diversi.

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Questa è la polisemia della lingua. Che esiste anche nei testi scientifici, dove nessuno sospetterebbe che si annidi. In un saggio sull’argomento, Giovanni Bettimelli scrive che "I manuali scientifici sono scritti male; e questa dannazione sembra derivare inesorabilmente da qualche speciale caratteristica del linguaggio con cui si esprimono. La loro funzione consiste nell'introdurre il lettore alle regole d'uso di un linguaggio specialistico, ma essi devono svolgere questo compito parlando ancora il linguaggio comune. Il linguaggio dei manuali diventa così una strana sorta di ibrido, in cui il vasto spettro di potenzialità linguistiche del parlare ordinario è condizionato, e viene adeguato, alle specificità del linguaggio specialistico di cui si vuole parlare."

Ma anche questo tentativo di "precisione assoluta" della scienza, di snaturamento del linguaggio, è ugualmente vano. Insensato perseguirlo. Un altro errore madornale. Nella letteratura scientifica, ad esempio, il termine cogente di “massa”, presenta almeno sei significati nient'affatto simili. Eccoli:

  1. Il termine massa è stato utilizzato per indicare due grandezze potenzialmente distinte: l'interazione della materia con il campo gravitazionale ― e la relazione che lega la forza applicata a un corpo con l'accelerazione su di esso indotta.
  2. Nel quadro più ampio della relatività ristretta, specialmente in una prospettiva storica, la massa relativistica non è più una proprietà intrinseca della materia ma dipende anche dallo stato della materia stessa e dal sistema di riferimento in cui viene osservata. Il concetto di massa relativistica non è centrale alla teoria, al punto che alcuni autori la ritengono un concetto fuorviante.
  3. Nella relatività ristretta un corpo ha una massa relativistica direttamente proporzionale alla sua energia, tramite la famosa formula E = mc².
  4. A differenza di spazio e tempo, per cui si possono dare definizioni operative in termini di fenomeni naturali, per definire il concetto di massa occorre fare esplicito riferimento alla teoria fisica che ne descrive significato e proprietà. I concetti intuitivi pre-fisici di quantità di materia (da non confondere con quantità di sostanza, misurata in moli) sono troppo vaghi per una definizione operativa, e fanno riferimento a proprietà comuni — l'inerzia e il peso — che vengono considerati ben distinti dalla prima teoria che introduce la massa in termini quantitativi, la dinamica newtoniana.
  5. Il concetto di massa diventa più complesso al livello della fisica subatomica dove la presenza di particelle elementari con massa (elettroni, quark, ...) e prive di massa (fotoni, gluoni) non ha ancora una spiegazione in termini fondamentali. In altre parole, non è chiaro il perché alcune particelle siano dotate di massa e altre no.
  6. Le altre principali teorie che cercano di dare una interpretazione alla massa sono: il meccanismo di Higgs, la teoria delle stringhe e la gravità quantistica a loop.

A seconda dello scienziato che la tratta, la massa è definita in molti modi diversi, per cui chiedere ad un bravo studente di fisica, ad esempio, che cosa si intenda per massa, è rischioso: potremmo vederci sciorinata una intera Treccani dei possibili significati diversi e di equazioni di campo che li definiscono.

Di “campo”? Quale "campo"? Eccolo lì, altro termine polisemico. Come vedete, è nella natura stessa del linguaggio non accettare limiti e condizionamenti.

Limiti e condizionamenti che sono invece il pane quotidiano e il compito specifico dei nostri scribi, nel tentativo di contenere il mare magmatico linguistico, facendgli argine con muretti di sabbia.

La polisemia (o se volete l’ambiguità) è nella natura stessa del linguaggio, ed è ineliminabile. Ma loro non lo sanno, e proseguono imperterriti nell'elaborazione del burocratese spinto.

wittgenstein

Come insegnava il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein, noi facciamo continuamente “giochi linguistici” con le parole, con le frasi, con le sintassi. E nel linguaggio — contrariamente a quanto avviene nei giochi — mutiamo le regole strada facendo, mentre la partita è in corso, riassegnando significati e valori in continuazione. Ma, come parlanti di una certa lingua, siamo in grado di accettare facilmente questa mutazione continua. Perchè il linguaggio può anche parlare del linguaggio, e spiegare come muti (usando appunto il metalinguaggio).

È tutto insito nei meccanismi intestini di mutamento di una lingua. Di tutte le lingue del mondo. Facciamocene una ragione, accettiamolo e viviamo la nostra ambiguità linguistica con serenità.

Per questo le grammatiche oggi sono viste dai linguisti con sospetto e rispetto. Rispetto, perché grazie a loro esistono regole scritte che ci consentono di formulare frasi sensate, e in base alle stesse regole i nostri interlocutori sono in grado di capire cosa intendevamo quando le abbiamo pronunciate. Sospetto, perché nel momento in cui scrivi una grammatica e la pubblichi, le regole probabilmente sono già cambiate, e la lingua magari potrebbe anche essere altrove.

Il linguaggio muta continuamente. Perché la società è in continua cambiamento, come un magma che, scorrendo lungo un pendio irto di pietre ed arbusti, si adatti a quello che trova sulla sua strada per scendere a valle, senza mai raggiungerla. Inglobando pietre e rocce, aggirando arbusti, distruggendo case, ricolmando fosse.

Questa mutazione è una evoluzione? L’umanità è forse in cammino verso il progresso?

Non sempre.

Eppur si muove. Cambia costumi, cambia valori, cambia il proprio credo, cambia le parole.

Per questo è impresa vana tentare di fermare la mutazione ed irrigidirla in termini “tecnici”; ognuno dei quali dovrebbe mantenere una permanenza di significato nell’ambito dell’universo di discorso specializzato, all’interno del quale dovrebbe mantenere inalterato il suo significato.

Tanto varrebbe scrivere anche leggi, decreti, e comunicati pubblici accettando l’ambiguità del linguaggio, e parlando con il pubblico dei cittadini in maniera chiara, liscia e comprensibile, come vorrebbe una legge non scritta della democrazia partecipativa.

Invece, per leggere una legge, un contratto, o un decreto ministeriale: c’è da mettersi le mani nei capelli. I concetti vengono ripetuti fino alla nausea, e si tenta di coprire tutte le possibili istanze e tutti i singoli casi, millimetricamente, in modo tale che una lettura malevola, parziale, o interessata non possa far sorgere contenziosi da nessuna delle parti interessate.

Che invece insorgono sempre. Inevitabilmente. E quindi spingono gli estensori ad ulteriori postille e distinguo causidici.

epimenide

Il tentativo di questi scribi è di risolvere qualcosa che assomiglia molto al famoso paradosso di Epimenide cretese, che come ricorderete andava dicendo in giro che i cretesi fossero tutti bugiardi. Il che è vero nel momento in cui un vero cretese dice il falso, ed è falso nel momento in cui il falso di un cretese dice una cosa vera.

Il problema del paradosso del mentitore di Epimenide, come è facile immaginare, sta in quel quantificatore “tutti”. Se gli anteponete un “quasi”, il paradosso crolla. Ma i nostri scribi pensano invece di dover menzionare “tutti” i casi in cui una legge o un decreto si può o si potrebbe applicare, e così facendo franano lentamente anche loro nel paradosso magamatico.

Proprio per questo — e siamo al secondo aspetto accennato all'inizio — le leggi nascono tutte con la sindrome di Benjamin Button, per così dire. Nascono quasi morte, e poi forse nel tempo ringiovaniscono. Già, quelle buone ringiovaniscono, mentre quelle cattive si spengono poco dopo la loro emanazione.

Mi spiego.

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Il curioso caso di Benjamin Button

Ogni legge ha bisogno di un processo di creazione, di un suo percorso. Nasce dal fatto che qualcuno senta la necessità di definire un processo o prescrivere un certo comportamento, e quindi immagina un dispositivo di legge. Poi occorre discuterne con altri, normalmente all’interno di un partito, finché non si decida di redigere un testo vero e proprio. Che viene presentato al Parlamento. E la sua discussione, se va bene, viene “calendarizzata” (sic! Stiamo già entrando nel burocratese) in una data qualsiasi, magari dopo mesi e mesi. Forse deve prima passare in una delle tante commissioni parlamentari, per essere sviscerata, analizzata e sottoposta a un pre-giudizio, contenuto nella relazione finale di maggioranza e, se il caso, anche in una relazione opposta della minoranza, il cosiddetto “minority report”.

Finalmente deve poi essere discussa in aula, fra i partiti, in sessione plenaria. Lì probabilmente verrà modificata ed emendata, e alla fine sarà sottoposta al voto dell’assemblea. Ma non è finita qui. Passa da un ramo del parlamento all'altro, e se trova modifiche ritorna al ramo che l'ha generata per primo.

Una volta emanata la legge, vanno ancora scritti i decreti attuativi, gli specimen, la redazione non ambigua di tutti i casi in cui può, o potrebbe, o si vorrebbe che fosse applicata, e le sanzioni che comporta non rispettarla: cosa devono fare le pubbliche amministrazioni e gli organi dello Stato per attuarla, e come devono comportarsi in caso di sua inosservanza da parte dei cittadini.

Nel corso del processo di approvazione di una legge, sono intanto passati anni. Le condizioni che hanno fatto sorgere la necessità di quella legge potrebbero essere cambiate, o potrebbero anche non sussistere più. La legge nasce pertanto già “vecchia”, e forse in molti casi già morta. Se è una buona legge, con molta prospettiva ed ampia visione del futuro, allora prende piede e viene applicata, con ritocchi e rifiniture. Ringiovanisce strada facendo, per così dire. Come Benjamin Button.

Guardate la nostra Prima Legge, la Costituzione.

marchesi

I Padri Costituenti, dopo interminabili discussioni, si erano posti la domanda giusta: con che lingua scriviamo la Legge Fondamentale della nascente Repubblica Italiana? Ed avevano dato non solo la risposta giusta, ma avevano trovato anche la persona giusta alla quale affidare le forbici d’oro per la sua redazione finale: Concetto Marchesi.

La Costituzione italiana accetta l’ambiguità linguistica e la polisemia implicita, e si affida alla buona, onesta, pulita e genuina interpretazione dei cittadini democratici per la sua comprensione. E infatti è chiarissima, la capisce anche un bambino. Obbiettivo centrato.

terracini

Concetto Marchesi, da fine latinista qual era, aveva ripassato per due settimane al setaccio tutti gli articoli, dopo che lo scrittore Pietro Pancrazi aveva già depurato gli articoli in prima stesura, scritti probabilmente nell’allora già presente burocratese. Questo il tempo che il Presidente dell'Assemblea Umberto Terracini gli aveva concesso, intimandogli di scrivere qualcosa che tutti gli italiani potessero facilmente ed immediatamente capire.

Perché nella Costituzione italiana si rispecchiava la visione, condivisa da tutte le componenti di quella Assemblea, di un mondo positivo e aperto, per come se lo immaginavano quelli che avevano lottato con le unghie e con i denti proprio per conquistarsi il diritto di immaginarla e di scriverla. Un bene troppo prezioso per essere abbandonato ad una scrittura grigia, arida e leguleia.

Sarebbero possibili quindi altre “interpretazioni” della nostra Costituzione?

Ma certo! Non c’è peggior sordo di chi non voglia sentire. E i peggiori fra i nostri sordi sono tutti coloro che, sapendo in cuor loro di non amarla e non apprezzarla, tentano in tutti i modi di rivoltarne mille volte le carte in tavola, per scoprire frammenti di significato recondito e nascosto, che i nostri Padri Costituenti potrebbero aver voluto dire, soppesando col bilancino ogni termine, ogni aggettivo, ogni virgola.

Perché?

Perché, come dicevamo prima, la società è in continua mutazione. E le Costituzioni non sono immutabili.

Se va bene, la direzione di questa mutazione è nella direzione del futuro. Che, in quanto tale, è aperto a tutte le possibili evoluzioni.

Giovanni Sartori

Ma se va male, come accade di questi tempi (“Mala tempora” [currunt], un altro libro sul tema di Giovanni Sartori da leggersi tutto di un fiato), allora assistiamo ad un movimento in direzione opposta, verso il passato. Retrogrado e retroverso.

Ed in effetti, oggi è tutta una richiesta di “pieni poteri”, ecco la necessità di assegnarli all’uomo forte, al duce del decisionismo, con i partiti ridotti a club di affari e di opinioni, i diritti dei cittadini visti sempre più come lusso indebito e immotivato e così via, dritti filati verso le porte del Medioevo, che ci aspetta a braccia aperte. Tutte idee-guida che nulla hanno a che fare con i principi democratici della nostra Costituzione, e che ne motivano forzature e snaturamenti per farla crollare.

Lo stesso Medioevo in cui è caduta la Russia post-sovietica. Oligarchi, milizie personali, obiettori ficcati in galera e chiavi buttate nei pozzi oltre il circolo polare artico. E poi l’immancabile guerra, la violenza come soluzione di ogni dissidio. Le violenze nelle terre occupate ai danni dei servi della gleba, come Lanzichenecchi, in Cecenia prima e poi in Ucraina, e poi chissà dove.

Stessa logica si prepara per “la democrazia più grande del mondo”, gli Stati Uniti, nelle imminenti elezioni di novembre.

Per non parlare della Cina. Questo è il Risiko che sta giocando il potere mondiale.

E cosa accadrà in Unione Europea? Staremo a vedere alle elezioni di giugno, dove sarà quasi obbligatorio andare a votare.

calogero

Chiudo il cerchio con un altro piccolo racconto. Quando diedi l’esame per la mia terza annualità di logica, sul finire del 1983, passò per caso Guido Calogero, uno dei grandi logici che il mondo ci invidia, un mostro di conoscenza. Io stavo discutendo coll’interrogante proprio di un suo libro, e così si accomodò anche lui al tavolo, e la discussione prese un’altra piega. Niente interrogatorio, ma libera discussione. Lui aveva lavorato a lungo sui paradossi logici, e alla fine siamo arrivati alla conclusione credo più forte di tutte, rivoltando i paradossi e conficcandoli nella realtà.

Forse fu credo la discussione d'esame più lunga nella storia della nostra università, perchè durò un pomeriggio intero, credo quattro ore. E si avvicinarono tutti gli studenti in un silenzio ossequioso verso il grande filosofo che ci incantò tutti..

Per Calogero, come per noi tutti umani, il linguaggio serve per capirsi, per comprendersi reciprocamente, per incontrarsi e mettere in comune i concetti, le esperienze, le idee, le vita. Ma bisogna avere questa intenzione positiva al dialogo e alla comprensione reciproca, per parlare. E bisogna anche dire sempre la verità, quando si parla: parlare è un atto profondamente etico. Altrimenti non si parla, si fanno altre cose. As esempio, quando l'intenzione del nostro dire è quella di ingannare il prossimo mediante le parole, allora non si sta più “parlando”, bensì si sta giocando ad un gioco diverso, qualche volta spregevole. Da Cretesi si diventa allora cretini. O mascalzoni. La stessa parola "dialogo" indica la messa in comune del pensiero (logos) fra (dia) i partecipanti al discorso. Vale per tutti. Scribi inclusi.

E ricordatevi, nessuno che abbia pensieri profondi si sognerà mai di parlare in modo difficile e astruso, tale da non farsi comprendere dagli altri, ma cercherà di comunicare le sue preziose scoperte al meglio che gli è possibile, con discorsi semplici, chiari e lineari. E soprattutto retti. Onesti.

Quando invece vi imbattete in un’espressione intricata e contorta, eccessiva e ripetitiva, o fumosa, lì allora gatta ci cova.