Un’altra caratteristica che denota questi tempi di deluminazione dell’Occidente è una certa copiosa mancanza di coraggio.
Parliamone.
Il coraggio è sempre legato in qualche modo al rischio. Se non hai presente il rischio cui vai incontro, non riesci neanche a calcolare le tue possibilità di superarlo, e non riesci nemmeno a esercitare il tuo coraggio. Scadi nella temerarietà e nel vaneggiamento.
Il coraggio è una predisposizione personale, ma è anche un dato culturale, che ha a che fare con l’etica e la morale. In chi è disposto a piegarsi, sempre e comunque, è raro che possa albergare il coraggio.
Chi, oltre ad altri prerequisiti, ha anche sani principi ideali e morali e, come si suol dire, ha la schiena dritta ― vale a dire colui o colei che sente la propria esistenza non come un mero gruzzoletto individuale da nascondere e preservare contro il Gatto e la Volpe che vorrebbero sottrarglieli, ma ha una visione più ampia, una visione si direbbe “sub specie aeternitatis” ― è predisposto a compiere, prima o poi, un atto di coraggio.
Ci si aspetta che “osi”.
I mediocri, i piccolo borghesi, i meschini, un po’ per natura e un po’ per cultura, non hanno il coraggio e la grandezza non alberga nel loro animo. Da loro ci dobbiamo aspettare piccoli calcoli di convenienza individuale. E piccoli o grandi tradimenti, ripensamenti, scuse. Al massimo, possono spendersi per la loro prole, e magari assicurarsi un avvenire in vecchiaia grazie ai loro pargoli diventati adulti. Ma spesso finiscono lo stesso nelle case per anziani.
Ciò che ho appena detto, visto da un’angolatura diversa, tratteggia perfettamente il profilo ideale del consumatore moderno, la figura centrale dei presupposti economici di mezzo mondo. Mediocre, prevedibile, piagnone, perennemente insoddisfatto eppure soddisfattissimo di inseguire lucciole e cicale, accodato alla burocrazia, sempre in cerca di un padrino forte dietro cui nascondersi.
L’uomo forte è una esigenza dei mediocri, delle mezze calzette. Non dei forti. E il gran vociare che se ne fa oggi, ed i risultati elettorali sempre più orientati verso quella china, lasciano mal sperare.
Il coraggio lo si apprende, è trasmissivo, talvolta è persino epidemico, quando la situazione lo consente.
Ma caliamo queste frasi astratte nella nostra realtà storica e culturale, e anche artistica (che è un rispecchiamento distorto e deformato, ma pur sempre veritiero, della realtà).
Qualche giorno fa, discutendo con un amico giornalista, ragionavamo sul ruolo che ha la sofferenza nella formazione del carattere e della tempra di una persona. Un prerequisito dell’esercizio del coraggio. Era uscita una intervista a Jensen Huang sull'argomento, che probabilmente pochi sanno chi sia, ma che attualmente è una delle persone più importanti del pianeta. Perché è il fondatore e l’amministratore di nVidia, la società che fornisce la base di calcolo di tutte le Intelligenze artificiali, e che è stimata valere non meno di due trilioni di dollari, cioè quanto tutto il debito pubblico dello Stato italiano.
La sofferenza, soprattutto in una fascia di età giovanile, è probabile che sia ancora uno dei fattori chiave che più aiutano alla formazione del carattere umano dei giovani. Ben lo sapevano gli antichi Spartani, che avevano previsto nella loro educazione non un periodo di scuola-lavoro, bensì addirittura l’Agoghé. Le regole educative, dice la tradizione, le aveva scritte di suo pugno Licurgo.
E lì il coraggio te lo dovevi dare, perché ce lo dovevi già avere dentro. E perché ti avevano preparato per affrontarle, quelle durissime prove cui i giovani spartani venivano sottoposti prima di diventare cittadini completi. L’ultima prova consisteva nella conoscenza perfetta delle leggi e delle regole della Assemblea e della Città-stato. Solo dopo potevi essere un cittadino Spartano, di cui gli altri cittadini si potessero fidare ciecamente.
Non a caso il bel film di Zac Snyder, “300”, tratto da una graphic novel e trattato visivamente sullo schermo perché rimanesse tale (tanto di cappello al VFX supervisor), ha scosso l’opinione degli spettatori di tutto il mondo occidentale, narcotizzati dal leit-motiv che si debba sempre cercare un compromesso con la realtà, che ogni uomo ha il suo prezzo, che io mi faccio i fatti miei e cerco di ritagliarmi il posto più conveniente nella mia esistenza, e così via. Un posto fisso da burocrate, purché garantito.
Certo, in quella pellicola c’è tanta computer graphic, tanti effetti visivi, anche un bel po’ di retorica, ma il senso del film, innestato nella realtà sonnolenta dell’Occidente al tramonto, intendeva scuotere gli animi e dire: ci sono cose e valori per i quali vale la pena di combattere e, se è il caso, di morire. Non conta solo la convenienza, il proprio gruzzoletto personale, il tornaconto individuale. Ogni tanto bisogna alzarsi in piedi e avere il coraggio di dire “No”, costi quel che costi. Altrimenti la vita stessa non è degna di essere vissuta.
Lungi da me l’esaltare i muscoli per i muscoli, o il vivere palestrato. O la violenza per la violenza. Dico solo che il coraggio e la codardia si mostrano in molti modi diversi nella nostra vita. Quasi sempre incontriamo la codardia, che comporta anch’essa conseguenze rilevanti, talvolta come e più del coraggio. E su questo vi invito a riflettere.
Prendiamola dal côté politico.
Una legge dell’ordinamento civile italiano mia coetanea, D.P.R. 30 marzo 1957 n° 361, nel suo Art.10 impediva ad un soggetto che fosse concessionario dello Stato (qualunque fosse la natura di questa concessione e chiunque egli fosse) di candidarsi alle elezioni politiche. Il senso di questa legge era evidente a tutti: se ti concedo, ad esempio, delle frequenze televisive per esercitare il tuo business, non puoi poi sfruttarle per diventare il detentore di questa concessione, alias il Presidente del Consiglio o cariche rilevanti dello Stato.
Non lo puoi proprio fare, perché assumeresti una posizione dominante, rispetto a tutti gli altri tuoi concittadini. E molto più rispetto ai tuoi potenziali concorrenti. E saresti naturalmente portato a usare la tua posizione politica dominante per rafforzare i tuoi poteri economici e annichilire quelli altrui. Laddove la democrazia è proprio l’arte di bilanciare quei poteri. L’arte di bilanciare diritti e doveri, usando delle simmetrie che non possono invertirsi o snaturarsi, pena la degenerazione del tenore democratico complessivo.
Orbene, quando Silvio Berlusconi, concessionario dello Stato italiano, è sceso in politica per salvare il “paese che amava” dall’orda comunista, gli ex-comunisti non hanno avuto il coraggio di sollevare subito in Parlamento quel conflitto di interesse e chiedere il rispetto della legge italiana. Hanno chinato la testa. Essi ― nostri rappresentanti in parlamento ― potranno poi addurre un milione di buoni motivi e di scuse per cui quella legge (e tutto quello che ne consegue) non siano stati reclamati come un dovere o un obbligo per tutti. Berlusconi compreso.
Ma sta di fatto che il rispetto della legge, chiarissima, non è stato richiesto in maniera perentoria. Accordi sottobanco? Ecco nel video come Luciano Violante si espresse durante un suo famoso discorso in Parlamento nel 2003.
Quello fu un atto, secondo me, di codardia politica. Posso sbagliarmi, ma così la vedo. Un atto che alla fine ha portato (e sta portando) a conseguenze nefaste, proprio sul tenore della democrazia e sulle potenzialità della società italiana nel suo complesso.
Se e quando ti accordi per aggirare una legge, poi le hai aggirate tutte, potenzialmente. Il diritto diventa aleatorio.
Per giungere all’attualità di questi giorni, abbiamo sentito l’ex ministro della salute Roberto Speranza dire cose sconcertanti. Reclamato pare a gran voce dai contendenti del campo largo quale candidato governatore alle elezioni regionali in Basilicata, per mettere pace fra le forze sempre riottose e diuturnamente conflittuali di quella posizione politica, ha opposto un “Non possumus”: perché? Come mai un passo indietro?
A sentire i giornalisti, si tratta di minacce che arrivano a Speranza di continuo da parte dei gruppi no-vax e di una certa area di destra insofferente per le regole democratiche e ancor più per quelle sanitarie e di profilassi.
Mi auguro che sia una bufala, che le motivazioni siano tutt’altre e che un giorno le verremo a sapere. Perché se quelle fossero le vere motivazioni, saremmo di fronte ad un altro caso sconcertante di codardia politica, che imporrebbe al suo attore principale l’abbandono immediato dell’arengo politico, per mancanza dei requisiti minimi indispensabili, e il suo dedicarsi ad altri interessi.
Che lezione sarebbe questa per i nostri ragazzi? Per le generazioni che hanno bisogno di stimoli e convincimenti per impegnarsi?
Passiamo ora ad un altro settore dove il rischio e il calcolo la dovrebbero fare da padrone, quello degli investimenti industriali e dei finanziamenti alle imprese.
Ho trascorso una fase della mia vita a contatto con queste strutture, sia qui che negli Usa, e la differenza fra le nostre e quelle d’oltre oceano è lampante e allarmante, dal mio punto di vista.
L’idea prevalente fra gli investitori nord americani (inclusi i canadesi) è basata sul rischio calcolato e sulla competenza. È chiaro che chi si occupa di finanza — anche di quella dedicata ai settori produttivi, non solo di finanza speculativa — ha grandi competenze nel suo settore, e prevedibilmente meno, molte meno, nei settori produttivi che potrebbe contribuire a far crescere e decollare, apportandovi fondi.
Ma per questo esistono gli esperti, i consulenti e soprattutto i mentori. Chi investe in quel continente, da per scontato che su dieci investimenti, poniamo, uno solo risulterà effettivamente vincente. Un paio andranno così-così, e gli altri saranno perdite. Ma alla fine avrà non solo guadagnato dal progetto campione di incassi, ripagandosi di tutti gli altri, ma avrà anche contribuito ad impiantare industrie nel suo paese, sollevandone il tenore economico e le capacità produttive generali, con beneficio di tutti.
E quindi lo sforzo degli investitori consiste nel capire quale sia la “mela d’oro” nel cesto delle mele buone o buonine, e come evitare le mele marce.
Consulenti. Comitati di specialisti che analizzano la natura profonda del business, gli aspetti innovativi e tecnologici e poi — ma solo da ultimo — le richieste finanziarie. Ho raccontato qualcosina di questo in un romanzo, “Il ricatto del Gambero”, per chi avesse voglia di capire meglio.
In Italia, e un po’ nell’Europa latina, i finanziatori partono tutti “ufficialmente” dallo stesso presupposto, ma l’idea che hanno gli agenti finanziari qui da noi, investitori, bancari, o di natura privata, è che loro mica sono scemi: investono solo sulle mele d’oro! Le altre, neanche a parlarne!
Già, ma come fanno a capire quale sia l'unica pepita da scegliere nel mazzo?
Qui da noi è il proponente dell’idea che deve arrivare lì da loro con tutti i compiti fatti. Piani tecnici, prospetti occupazionali, business plan, garanzie di ritorno non oltre il secondo anno di vita del progetto, al massimo, forecast. Loro non si documentano, e aspettano che nel racconto e nell’esposizione del business su cui investire, per illuminazione divina, capiscano in un lampo di trovarsi di fronte al pomo di Paride.
Solo che l’illuminazione non arriva mai. E anche se arrivasse, direbbe Kafka, non sarebbero in grado di comprenderla.
Naturalmente, qualche eccezione anche qui da noi c’è, ma si contano sulle dita di una mano. Facciamo mezza mano. Investono per altri motivi, e per ragioni del tutto spurie e diverse.
Vi racconto qualcosa che mi è capitato davvero, una delle tante, per farvi comprendere come questa mancanza di coraggio mini alle fondamenta la situazione industriale italiana, che da competitiva come dovrebbe essere si riduce a speculativa, a rendita di posizione, a rendita “politica” e poi sempre in mercati chiusi, presidiati e iper-controllati (tecnicamente si dice “captive”).
Uno dei primi grandi progetti europei finanziati per trasformare una situazione di palese degrado in una attività produttiva viva e tecnologicamente all’avanguardia si è svolto in quel di Torino, all’inizio del millennio. Il cinema italiano era nato lì, alla FERT, e poi si era spostato da Torino (l’ultima lettera dell’acronimo) a Roma (la penultima lettera), a Cinecittà per l’esattezza. Gli stabilimenti Fert giacevano, alla fine del millennio passato, nel degrado di una periferia, a viale Lombardia, abbandonati. Erano diventati un luogo malfamato e di malaffare.
Con enorme lungimiranza, il Comune aveva creato un progetto europeo, ed insieme un ente pubblico che incamerasse i finanziamenti e svolgesse i lavori di ristrutturazione, per dotare quell’area degradata di laboratori delle tecnologie più all’avanguardia. Chi aveva fatto il progetto, per non sbagliare, ci aveva messo di tutto, e di più. L’idea era che, una volta risistemata la ex baracca, ristrutturati i due studi cinematografici e i due padiglioni con sale e salette per uffici, aule e laboratori, poi si sarebbe bandita una gara al miglior offerente che, da quel momento in poi, avrebbe condotto l’impianto, pagato un affitto, ma soprattutto avrebbe costituito un motore di rinascita industriale di quelle periferie urbane. Deviando gli interessi locali dal settore dall’automotive in disarmo (FIAT) verso l’industria pesante sì, ma dell’immateriale, quella dei film, delle fiction televisive, degli effetti visivi (da non confondere con gli effetti speciali).
Io ero stato coinvolto due volte in quel progetto. Primo, perché la mia società partecipava al consorzio di imprese che aveva vinto la gara di gestione, dando vita alla società Lumiq srl. E poi perché, sempre con lungimiranza, l’ente Comunale che deteneva la proprietà degli impianti, il VRMMP (virtual reality and multimedia park), avendo terminato l’opera di bonifica e la gara, aveva pensato bene di attivare risorse, energie, atti di comunicazione creando la prima grande Conferenza italiana di tutto ciò che è digitale lì, a Torino, nel Centro Congressi, in autunno inoltrato. E siccome serviva un Direttore artistico che convincesse personalità rilevanti nel settore ad affacciarsi a Torino e a creare un ponte fra i loro luoghi di origine (molti in California) e l’alto Po, ecco che la loro scelta era caduta su di me, probabilmente perché qualche tempo prima avevo organizzato a Cinecittà, su ordine e imposizione del suo presidente Gillo Pontecorvo, la prima conferenza italiana sugli effetti visivi digitali.
E conferenza fu. Si chiamava Virtuality Conference, oggi le hanno cambiato il nome in un anonimo “View conference”. Ma l’idea era giusta: si trattava di spingere al massimo l’acceleratore sulla creazione di un distretto digitale, e di far gravitare su Torino le migliori risorse umane e tecnologiche del pianeta.
Il difetto di progettazione (e qui torniamo al nostro tema) era che una struttura del genere, molto grande e costosa, era pensata per fare “service”. Chi aveva bisogno di spazi attrezzati cinematografici, di maestranze digitali, di rendering farm, di sale di montaggio e di telecinema, poteva rivolgersi alla nuovissima “Lumiq”.
Tanto più che i registi italiani, i direttori della fotografia e gli operatori di ripresa cinematografica poco capivano di digitale, e convincerli ad abbandonare la pellicola era impresa assai ardua, senza un centro di competenze di livello internazionale qui in Italia.
Ma i soldi nel cinema, quelli veri, li fanno i produttori, e tutti coloro che in un modo o nell’altro accedono ai copyright del titolo. Quelli fanno tanti soldi, e per questo hanno una organizzazione di ferro, selezionano le sceneggiature con estrema cura, suddividono i compiti in ruoli altamente professionali, scegliendo i professionisti migliori. E poi, come ciliegina sulla torta, assicurando il film. CHi fa service prende solo le briciole.
Tutte cose sconosciute alla nostra industria cinematografica. Che normalmente va a ricasco dei finanziamenti statali o europei, punta a fare due o tre passaggi nelle sale, tanto per dire che il film è uscito, e che vede investimenti produttivi ridicoli. Ci sono registi, anche molto noti, che fanno tutto da soli: si scrivono la sceneggiatura, i dialoghi, si scrivono le musiche, e quasi quasi fanno anche il montaggio e il doppiaggio. Così le briciole dei finanziamenti statali se li mettono in tasca loro.
Lungimiranza zero.
I laboratori torinesi avrebbero potuto produrre, con l’apporto di gente esperta di produzione (importata dagli Usa) titoli egregi. Con team leader che assicurassero qualità produttiva di livello internazionale e trasmissione di conoscenza ai locali, si poteva fare anche animazione 3D. Alla Pixar, che allora era un unicum nel mondo ed un fenomeno nascente.
Avevo parecchi amici in quel settore, qualcuno anche vincitore di premi Oscar, disposti a trasferirsi a Torino e creare, all’epoca, un secondo polo di animazione 3D in Italia, e primo in Europa: sarebbe stata una svolta incredibile. Sia per la rinascita economica locale, sia per quella finanziaria, sia anche per tutto l’indotto. Un bel colpo per la città di Torino, che stava diventando vedova della Fiat.
Facemmo anche un test, per dimostrarne la fattibilità: vi ricordate la pubblicità con le formichine della Carta Camomilla? O qulla con la particella di sodio di Acqua Lete? Ebbene, vennero prodotti dal gruppo che proponevo proprio come test, come "demo" delle potenzialità produttive raggiungibili. La Pixar ci fece i complimenti per le formichine.
Per farvi capire quale sia l’entità del fenomeno economico del cinema Usa (pieno di effetti visivi a supporto della narrazione cinematografica) nei confronti di quello nostrano, vi devo però dare qualche numero. Un film Usa di classe A costa mediamente fra i 100 e i 200 milioni di dollari. Normalmente, fra mercato Usa e resto del mondo, porta a casa quattro o cinque volte il valore dell’investimento. Questa è la normalità, oltreoceano. Due volte l’investimento nel breve periodo, e il resto nell’arco dei successivi quattro o cinque anni. Ma può anche andare male, e fare un flop.
Poi ci sono i capolavori, o i film di cassetta (i cosiddetti “blockbuster”), che portano a casa dieci o quindici volte il valore dell’investimento. Stiamo parlando di miliardi di dollari, non di milioni. Titenic, ad esempio, ha reso quasi due miliardi di dollari. Già, cifre da bilancio di uno Stato come il nostro.
Qui da noi, in Italia, i film costano invece mediamente non più di due o tre milioni di euro. Quando va bene, ma proprio bene, raggiungono gli otto o i dieci milioni: ma sono pochissimi. Ed incassano cifre ridicole. Ma sembra che a tutti stia bene così: produzioni quasi vernacolari, molte fatte da comici o da commedianti all’italiana, normalmente con sceneggiature incentrate su loro stessi e sulla loro vita di artisti del cinema. Storie che spesso non riescono a superare i confini regionali, figurarsi se possono essere distribuite nel mondo.
Una pena. Non a caso Gillo Pontecorvo si è dannato, negli ultimi anni della sua vita, per tentare di ribaltare questa situazione e di rimettere il cinema italiano sulla buona strada. Con esiti incerti, e non sempre all’altezza delle sue aspettative.
Per i film di animazione tridimensionale il volano economico era ancora superiore. Puntammo su quello e, avendo individuato un soggetto cinematografico adeguato, una bella storia di tipo europeo, ci servivano uno o più finanziatori disposti a scommettere quelle cifre di livello mondiale. Piccolo particolare: in quelle cifre è compresa anche l’assicurazione, per cui se un film va male al botteghino, o non si riesce a concluderne la produzione, gli investitori ne escono comunque indenni, o con perdite molto basse. E le società di assicurazione hanno a loro volta consulenti in grado di valutare sceneggiature, cast, troupe, e potenziali introiti. E il premio assicurativo deriva da queste valutazioni.
Jack Nicholson, tanto per dire: quando gli chiesero di partecipare a Batman, chiese un cachet relativamente basso, ma poi pretese di essere associato ai diritti del film. E così incassò una valanga di soldi. Il lungimirante coraggioso.
A Torino si dovevano anche tenere in quel periodo le Olimpiadi invernali, molto attese, e un centro di produzione cinematografico-televisivo così all’avanguardia lasciava sperare bene per la virtualizzazione delle gare. E per una produzione di tipo diverso. Molti ci puntavano
Ma torniamo al problema principale, trovare i soldi per produrre un film di animazione tridimensionale di livello internazionale, trattenendone i diritti, o almeno quanti più diritti possibile, perché — come abbiamo detto — sono i diritti di copyright che comportano gli utili, i dividendi dai biglietti nelle sale, dal merchandising (che vale molto di più dei biglietti) dai videogame sul tema (che valgono ancora di più) dai “diritti di antenna”, che significa il diritto di trasmettere quel film in televisione. Diritti suddivisi per ogni Paese, che valgono circa un milione per ciascuno, moltiplicato per i 160 Paesi dove questo mercato è vivo e brillante. Un abella sommetta, euro più, euro meno.
Ad un certo punto il sindaco di Torino, pressato e convinto dai suoi consiglieri, indice una riunione sull’argomento, nel tentativo di mettere la sua città sulla rampa di lancio del digitale. Invita ovviamente le due Banche e le due fondazioni finanziarie che costituiscono il polo finanziario di quella città, la Cassa di Risparmio di Torino (CRT) e l’Istituto San Paolo.
Ma anche la società Finanziaria regionale Finpiemonte, il vero polmone attuatore del progetto del Distretto Digitale. Ed altri potenziali investitori privati o industriali.
Ovviamente, dal gabinetto del sindaco mi pregarono di introdurre l’argomento e di spiegare il progetto in tutte le sue pieghe, di fare le cifre, illustrare il business plan, i ritorni economici, finanziari ma anche sociali e infrastrutturali, nonché di immagine per la città tutta.
In quella riunione si presentò anche una grande eminenza grigia, forse l’uomo più potente del Piemonte e uno dei più potenti d’Italia. Rimasero tutti sorpresi quando entrò nel gran salone e si mise a sedere intorno all’enorme tavolo che accoglieva già venti o trenta persone. Lui non andava mai alle riunioni, erano gli altri che andavano da lui. Le riunioni si facevano nel suo ufficio, come regola ferrea. Giocava sempre in casa. Immaginate lo stupore e la meraviglia dei presenti, quando lo videro entrare, perché lo conoscevano bene.
Io no, non lo conoscevo. E fu un bene, perché la mia introduzione fu spigliata e brillante. Senza alcuna soggezione o timore. In molti fecero domande, di ogni tipo, e tutti ottennero una risposta rotonda.
Poi cadde il silenzio.
Era il momento di decidere. Il momento del coraggio.
Aspettavano tutti la Sua parola.
Un suo sì, avrebbe scatenato la corsa al finanziamento del progetto, una pioggia di soldi. Un suo no, la dipartita immediata dalla riunione di tutti i potenziali finanziatori.
Dopo qualche istante di silenzio, Mr. Eminenza Grigia sia alzò in piedi e disse: “Lei ci ha convinto. Il progetto sembra ben piantato, i numeri ci sono tutti. Facciamo così: se lei trova un primo finanziatore che è disposto a metterci soldi, io sono il suo secondo finanziatore”.
Si alzò e se ne andò.
Non partì nulla. Dopo qualche tempo, la società tecnologica boccheggiava, e per me, mantenere la direzione di una Conferenza bella sì, e anche oramai rinomata a livello mondiale, ma slegata dal progetto iniziale per cui era nata, era diventato inutile. Una volta assicuratone il lancio (solo dopo il terzo anno, se sopravvivono, le conferenze poi vanno da sole: ma i primi tre anni sono durissimi), rassegnai le mie dimissioni.
Che vennero interpretate malissimo. In Italia nessuno ha il coraggio di dimettersi da alcunché. La presero come uno sfregio, quasi un affronto, ma non fu così.
Le olimpiadi invernali di Torino vennero fatte con tecnologie video tradizionali. E Lumiq, la società che doveva determinare una svolta nel digitale in Italia, oggi credo non esista più ― o se sopravvive, è solo per inerzia.
Ho sempre pensato che la stessa realtà, posta in California, avrebbe determinato una svolta. Qui da noi, briciole e macerie.
Sta di fatto che il de-investimento nella produzione e l’affollamento dei capitali locali nella speculazione finanziaria volatile, col miraggio di vincite esorbitanti, è stata come una droga che ha ottenuto due effetti magnificamente esiziali: una serie di crisi economiche a catena, con bolle, subprime, società ipervalutate composte da quattro ragazzini genialoidi e sprovveduti, artatamente gonfiate per rivenderne le azioni e realizzare nel giro di ore o di minuti extraprofitti esorbitanti — e la destrutturazione di tutto l’apparato produttivo, non più sostenuto da capitali, l’abbandono delle infrastrutture, e la perdita di milioni di posti di lavoro. Di lavori che non tornano più. Mentre quelli digitali erano a lunga scadenza, essendo di tipo privilegiato, ad altissima competenza tecnologica e con tasso elevatissimo di remunerazione.
Per cui, aprire oggi un’impresa in Italia con orizzonti internazionali sembra davvero un atto eroico di coraggio. Ma forse mi sbaglio, è solo temerarietà, sempre se non avete già in mano contratti captive per i prossimi dieci anni a nome della società che dovete ancora costituire.
A scanso di equivoci.
E con una strizzatina d’occhio.