Molti propagandisti ingenui pensano che ripetendo pubblicamente mille volte una stessa frase, fino allo sfinimento, alla fine la gente poi ci creda. È come se ci facesse l’abitudine, la gente. E alla fine si abitua e gli piace pure.
Questa tecnica della ripetizione continua ad libitum era uno dei meccanismi priomordiali su cui faceva affidamento la propaganda, sia politica che commerciale. Si basava sulla cosiddetta "psicologia reattiva": una cosa ti piace se te la ricordi, se fa parte della tua memoria, superficiale o profonda che sia. La voce del verbo "piacere" scambiata con la voce del verbo "ricordare", e viceversa. Una sorta di strabismo psichico.
Diceva un mio vecchio mentore: “La gente si affeziona perfino alle proprie malattie”. Ci fanno compagnia.
Scendiamo ancora una volta giù in cantina, a vedere meglio che succede.
L'altra mattina ascoltavo una disquisizione sugli effetti dell’outing della principessa del Galles, Kate Middleton. Dopo evidenti conflitti interni al sistema di comunicazione della famiglia reale, la principessa ha postato un video nel quale si dichiara affetta da tumore e sotto cura intensiva, sfatando una serie lunghissima di illazioni sui suoi rapporti con il marito, il futuro re d’Inghilterra, su separazioni e trame segrete. Era cancro.
Fino a qualche anno fa non lo si nominava nemmeno, si preferiva usare la locuzione "un brutto male". Non si informavano i parenti e spesso neppure il paziente. Oggi si fa un video e si posta su youtube. Meglio.
Gli effetti sono però sorprendenti. La principessa Kate è una influencer formidabile. Non potete immaginare quanti bravi sudditi inglesi abbiano ora chiesto un controllo medico per affezioni tumorali subito dopo la diffusione di quel video. Le richieste sono piovute a migliaia. Così come le vendite di cappellini di un certo tipo, dopo che Kate si è fatta vedere ad un evento pubblico indossandolo, o di quelle scarpe che portava, o di quella borsetta in tono.
Da non credersi. La gente guarda Kate, e corre subito a comprare. Come i nostrani guardavano Ferragni, e correvano a comprare, comprare, comprare. Non importa cosa.
Neuroni a specchio in libera uscita, infoiati come marinai di rientro da una crociera annuale.
La propaganda specialistica sa infatti benissimo che non è solo la ripetizione di una serie di concetti (o ritornelli) ad infilarsi subdolamente nelle nostre menti e a condizionare le nostre scelte "come formiche", ma è la "fonte", l'"origine" di quei concetti, l’influencer, a determinare il successo della penetrazione profonda del messaggio ripetuto. L'influencer è l'olio che spinge il messaggio giù per il tubo.
Ci sono dei messaggi che riempiono le casse di società commerciali, incluse quelle degli influencer. Poco male. È il mercato e la sua pubblicità. Ma ci sono anche messaggi di diversa natura che, alla lunga ed inopinatamente, diventano mortali. Soprattutto quelli politici e sociali. Messaggi che, sul momento, sembrano dare un vantaggio competitivo a chi li pronuncia, ma che alla lunga devastano la terra sulla quale attecchiscono. Che nessuno dissoderà più. E creano un popolo di stolti, in perenne attesa.
Una delle tante frasi che oggi vanno per la maggiore sui media è: “Si sa, in campagna elettorale i politici dicono bugie di ogni genere, pur di accaparrarsi il consenso dell’opinione pubblica. Ma passate le elezioni, quello che viene detto in campagna elettorale non conta più”.
Questo adagio, che sembra giustificare una sorta di “innocenti bugie” (come sono quelle pubblicitarie), in realtà è mortale per la politica tutta e per il tenore democratico di un Paese.
Il dialogo fra la politica (anzi, fra tutte le organizzazioni statuali) e il cittadino deve necessariamente basarsi su una sorta di igiene delle affermazioni. Bisogna dire la verità al pubblico, e in pubblico. Altrimenti la fiducia nelle istituzioni e nei sui rappresentanti crolla, e il tutto diventa un teatrino di barzellette. Se chiunque in politica può spararla grossa a piacere — e tendenzialmente sempre più grossa del suo concorrente — e poi non pagare pegno, vorrà dire che le parole non varranno più nulla. E il Parlamento, che è fatto di parole, perderà anch'esso ogni valore, insieme a coloro che vi siedono all'interno.
Il bello è che, una volta eletti, gli stessi politici poi aprono il libretto dei sogni del loro programma elettorale, e cominciano a recitare il salmo de “Gli elettori lo sapevano, era nel nostro programma quando ci hanno votato, e ora abbiamo quindi un mandato a procedere”. Il che andrebbe bene se i politici si attenessero scrupolosamente ai propri programmi. Li renderebbe credibili, e l'elettore andrebbe a studiare a fondo i rispettivi proclami elettorali.
Ma non è così. Nessun elettore, seriamente, legge i programmi di tutti i partiti prima di recarsi alle urne, comparandoli e quindi scegliendo quello che gli è più consono. Se è per questo, l'elettore medio non legge nemmeno il pistolotto del proprio partito, o di quello che andrà a votare: ascolta i comizi televisivi, le dispute nei talk show, le diatribe e gli urlacci nei dibattiti televisivi, e poi corre a votare colui o colei dal quale è rimasto più impressionato. Mette una croce e via! E il famoso programma politico? Bah, e chi lo conosce?
E anche questo non è un bene per la democrazia, ma segue il sentiero della propaganda di massa, tutta tesa ad aggirare le scelte razionali per stimolare le sole scelte istintuali, emotive, irrazionali.
Il cuore della democrazia è alimentato da scelte irrazionali, come il cuore del meccanismo principale del mercato, la borsa. Basta la comunicazione di eventi apparentemente senza alcuna importanza capitale, bastano dei presagi, per determinare crolli o capitalizzazioni incredibili. Per questo gli organi di tutela e le agenzie che diffondono notizie devono dire la verità, altrimenti succedono cataclismi finanziari inusitati.
In Inghilterra, dove la sanno abbastanza lunga di democrazia e di borsa, le menzogne non sono consentite agli uomini delle istituzioni e del mercato. Ogni piccola bugia si paga quasi sempre con le immediate dimissioni. Lì, il rapporto fra bugia e sconquasso è quasi immediato. E quindi, dopo foto ritoccate e video alterati, subito intercettati e valutati come bugie, Kate ha fatto benissimo a dire esattamente la verità. L'avrebbero tormentata ad libitum finché non fosse emersa.
Diverso il percorso di Julian Assange. Il giornalista australiano ha creato un meccanismo per togliere il velo alle trame del potere. Non ha sfatato bugie, ha alzato un velo sul "non detto", sul "nascosto", che contiene in sé lo stesso germe di pericolosità di una comunicazione scioccante in borsa. Per questo i vari governi degli Usa lo vogliono incarcerare e, chissà, eliminare.
Se apri troppo gli occhi ai narcotizzati dai media, alla fine c'è il caso che questi possano vedere, e possano accumulare ricordi e desideri di libertà. Troppo rischioso.
Guardiamo ad esempio l'allarme generale che stiamo vivendo in questi giorni: i rischi di una guerra nucleare. Con un conflitto alle porte di casa, in Europa, fra la Federazione russa guidata da Putin ed l'Ucraina di Zelensky, formalmente uno stato del tutto indipendente dalla Federazione russa, si sente parlare spesso di lancio di ordigni nucleari, fossero anche solo “tattici” (cioè di raggio limitato).
Le principali televisioni russe, detenute dallo Stato o da qualche altro oligarca, ospitano commentatori che soffiano continuamente sul fuoco atomico, forse per abituare il loro pubblico ad un tale ipotetico scenario, per sedimentare una memoria positiva nella loro psicologia.
Ma voi vi siete mai messi nei panni di un Putin, e avete mai immaginato veramente che cosa significhi ordinare il lancio di un ordigno nucleare?
A parte il risultato sul terreno, la distruzione, la catastrofe, la contaminazione millenaria — avete mai provato ad immaginare che cosa succederebbe “dopo”? Chi da la sicurezza al primo lanciatore che altrettanti missili, dall’altra parte, non siano pronti e in agguato, in attesa solo che questi prema il bottone per neutralizzare e annichilire il primo lanciatore? Premere quel bottone potrebbe essere l'ultima cosa che fai nella tua vita, può significare giocare una partita mortale dall’esito potenzialmente immediato per te e i tuoi cari: equivale, con elevata probabilità, ad un suicidio istantaneo terrificante.
Ma vi pare così probabile che qualcuno sia così pazzo da farlo davvero? Non sapendo quali reali contromisure ha l’avversario, dove veramente siano dislocate le sue postazioni, non avendo quindi neppure la sicurezza di infliggere all'altro il primo colpo mortale? Un boomerang demenziale. Per non parlare delle reazioni di un potenziale terzo o quarto giocatore.
No, il ritornello sulla bomba atomica è solo una minaccia. Non costa nulla pronunciarla, ma fa parlare per settimane gli analisti e i giornalisti di tutto il mondo, e incute timore e rispetto. Un altro messaggio che, ben oliato, deve andare giù per il tubo di chi ti ascolta.
E mette in scacco l’altro fronte, quello Occidentale.
Infatti, l’arrovellarsi dell’Unione Europea su un esercito ed una difesa comune a mio parere ruota intorno al fatto che l’Unione ha un solo Paese autorizzato a possedere l'armamento nucleare, la Francia. Se si arrivasse alla decisione di istituire un esercito comune europeo, la sua guida spetterebbe giocoforza a quel Paese, perché sarebbe l’unico in grado di decidere se, come e quando eventualmente impiegare “l’asso di bastoni”.
Ma questo violerebbe il principio di parità nell’Unione, e metterebbe i tedeschi in secondo piano, in scacco, a ricasco delle decisioni francesi. E quindi non si farà mai.
A meno che, in violazione dei patti internazionali, la Germania un giorno non dichiarasse pubblicamente di possedere l’arma atomica anche lei. Reaslizzata sotto il naso di tutti. Ma, se lo facesse, l’Unione andrebbe immediatamente in mille pezzi e diventerebbe un immenso protettorato tedesco, più di quanto non lo sia già oggi. Inaccettabile.
Come è inaccettabile un altro ritornello, che noi sciaguratamente passiamo per buono e accettiamo supinamente dal dittatore russo, quello cioè di considerare "Russia" i territori dell'ex-URSS e tutti i territori che loro desiderano e dichiarano di interesse strategico per la sicurezza del loro Paese. L'Ucraina è un paese indipendente o no? Quando è stata dichiarata la Federazione russa, quelli che non vi hanno aderito lo hanno fatto legittimamente o no? E se lo hanno deciso legittimamente, come possiamo accettare che un altro stato li dichiari comunque territori di sua proprietà?
Lo stesso concetto deve valere anche per la Cina e gli Usa, ovviamente. Noi non accetteremmo mai di essere dichiarati tedeschi perchè un giorno il Sacro Romano Impero o Federico II, o il Terzo Reich si erano impossessati della penisola italica. Altrimenti dichiariamo nostro tutto il Mediterraneo fino alla perfida Albione, ricalcando i confini dell'Impero Romano nel momento della sua massima espansione e facciamo prima. (Poi, con gli egiziani, ce la vediamo in separata sede).
Gli stati devono imparare a stare al loro posto.
Sempre a proposito della Germania — e proseguendo nella sfilza dei luoghi comuni per gli stupidi — nel primo ventennio di vita dell’Unione Europea ci siamo abituati a considerare le sue regole finanziarie e di bilancio come ferree, prescrittive e inderogabili per tutti gli stati, tranne uno, la Germania.
Dopo essersi ripresa da un paio di fortissime debacle monetarie, la più recente dovuta all’annessione della parte Orientale (DDR) dopo il crollo del Muro di Berlino, con conversione del marco est/ovest uno a uno e le conseguenti ulteriori enormi spese per la realizzazione di infrastrutture nella parte annessa tali da bilanciare le capacità produttive — la prima debacle la Germania la ebbe in seguito ai debiti di guerra, poi scontati del 50% da tutti i suoi creditori, altrimenti quel Paese sarebbe stato schiavo dell’occidente per secoli — ora i tedeschi sono considerati il paese trainante l’economia europea, tanto da arrivare a dare parecchio fastidio all’industria nordamericana, nella lotta per la conquista dei mercati mondiali.
Quasi tutti i bilanci dello stato tedesco erano completamente fuori, per eccesso, dei parametri europei. Ma abbiamo chiuso gli occhi e fatto spallucce. Mentre gli sforamenti dal 3% del deficit venivano visti come inaccettabili e sanzionabili, spread alle stelle, governi caduti. Attualmente il nostro Paese viaggia intorno al 7% di sforamento, e nessuno ne parla.
Pochi sanno che la concatenazione delle decine e decine di università tecnologiche tedesche, denominato “Fraunhofer Institute”, è detenuto direttamente per circa il 30% dalla stessa Unione Europea, che in questo modo finanzia la ricerca privilegiando il sistema tedesco. Un altro 30% è detenuto dallo stato tedesco e dai Lander, e il resto è frutto di sovvenzioni private da parte di fondazioni industriali e bancarie.
Sicché, parlando di ricerca industriale tecnologica competitiva, quando una università tedesca presenta un progetto, e chiede sovvenzioni all’Unione Europea, è come se giocasse in casa, ed ha la quasi totale certezza che i suoi progetti le vengano finanziati. Mentre noi italiani, come altri Paesi dell’Unione, non solo facciamo fatica ad elaborare progetti, ma ne facciamo ancor più a farceli finanziare. Scusate se è poco. E scusate se accumula e offre vantaggio competitivo alle industrie tedesche.
A proposito di finanziamenti, e di leit-motiv, noi italiani abbiamo una enorme palla al piede, che costituisce un problema anche per tutta l’Unione Europea, e che è esattamente lo stesso problema che stava annichilendo la Germania, quella che oggi insieme al Belgio, all’Olanda e ad alcuni altri Paesi nordici fa la “frugale”.
Il problema è il seguente. Se voi andate a vedere la curva dell’andamento del bilancio dello Stato italiano, vedrete che fino ad una certa data esso era in perfetta sintonia con le altre grandi democrazie europee, dopo il nostro exploit del cosiddetto “boom” economico degli inizi degli anni ’60.
Il bilancio dello stato italiano presentava un deficit tutto sommato modesto, e gli investimenti in infrastrutture e in educazione pubblica (i due grandi binari su cui corre l'evoluzione di un Paese, dove nella pubblica istruzione andrebbe inclusa anche la ricerca) andavano sotto il nome di “spesa pubblica”.
La “spesa pubblica” è un termine bonario, positivo, rassicurante. Non fa male a nessuno.
Fino agli inizi degli anni ’80 il rapporto tra Debito Pubblico e ricchezza prodotta dal Nostro paese (Pil) era intorno al 60%, ovvero in linea e sotto controllo, poiché producevamo ricchezza e spendevamo un po’ di più, ma con un rapporto sostenibile. Poi cosa è successo? Dal 1981 la Banca d’Italia, per decisione di Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, ha smesso di monetizzare il debito pubblico che è schizzato alle stelle. Una storia che si è ripetuta, amplificata, con l’Euro e la BCE.
Il meccanismo si è scassato. È cambiato il clima culturale.
Conseguentemente, la “spesa pubblica”, endemica per qualsiasi comunità, è diventata il ben più minaccioso ed arcigno “debito pubblico”, che ci colpevolizza singolarmente. Il suo finanziamento è stato assegnato ai Buoni del Tesoro, e lo Stato è stato messo nelle mani del Mercato. Che dal debito doveva trarre guadagno. I rendimenti dei titoli del Tesoro, non solo del nostro Paese ma di tutti i Paesi a capitalismo avanzato neoliberale, sono diventati un affare. Il nostro Stato rende ai suoi finanziatori, euro più euro meno, un centinaio di miliardi all’anno di soli interessi passivi.
Sono dunque cambiati i concetti, sono cambiati i meccanismi, è cambiata la stessa natura delle cose. Lo Stato è diventato un soggetto attivo nella finanza, non solo nell’economia. E siccome noi italiani siamo benefattori dell'umanità, le aste dei titoli del tesoro le abbiamo fatte per anni a nostro danno, garantendo ai sottoscrittori il massimo dei loro rendimenti piazzati sul mercato.
Bella mossa! Tutto questo cambiamento è stato un bell'affare, soprattutto se legato ad una moneta comune europea, che ci impedisce le manovre monetarie con le quali l'Italia se l'era cavata per anni. Svalutando la lira e rendendo più competitivi i nosti prodotti sui mercati d'esportazione. Ci siamo inchiodati all'euro, e adesso il "debito pubblico" cresce a dismisura. Ma fino a quando crescerà? Può, un Paese come il nostro, con una crescita dello zero-virgola, anche solo immaginare di restituire un giorno un debito che assomma oggi a quasi 3 mila miliardi di euro? In quanti millenni ci riusciremmo?
Se non vi è soluzione al debito italiano, allora bisogna chiamarlo in un'altra maniera. O fare un corto cirtcuito, come quello che ha consentito alla Germania di rinascere per ben due volte. Altrimenti, semplicemente non connverrà più abitare nel Belpaese. E difatti anche le grandi società dello Stato consolidano i loro bilanci in altri Paesi, per non pagare tasse che finiscono in un pozzo senza fondo. E così andiamo a rotoli.
Adesso siamo imbrigliati in questo meccanismo che fa sì che il nostro Paese abbia un bilancio economico primario in attivo, cioè che produciamo molto più di quanto ci mangiamo (scusate, "consumiamo"), ma purtroppo tutto questo utile serve a malapena a pagare gli interessi sui titoli di stato, e allora ritorniamo sott’acqua di molto, fino a toccare il fondo della lista dei Paesi dell’Unione.
E sono quarant'anni e più che dobbiamo fare i conti con il “debito pubblico”, il Mr. Hide della nostra tranquilla “spesa pubblica”, con conseguenze nefaste evidenti: le casse dello stato sono vuote, non hanno il becco di un quattrino mai, per qualunque spesa pur giustissima (dalla sanità all’istruzione, passando per la ricerca, per le infrastrutture), i comuni sono in perenne deficit, le assunzioni sono vietate, e non possiamo più muoverci perché altrimenti l’Unione Europea ci stanga.
Vista così, non sembra nepopure conveniente fare la carriera del politico, se non per meri interessi privati. O per le immunità derivate. Tanto, guidare un Paese del genere, che va col pilota automatico impostato a Bruxelles, è fatica sprecata. Anzi, non c’è alcuna fatica: basta seguirne i diktat.
E quindi diventa un problemaccio compilare i programmi elettorali, sapendo che nella realtà non si può muovere paglia. Conviene spararle grosse a piacere, fantasticare di decisionismi e di uomini forti. Tutti ritornelli buoni solo per i gonzi. Tanto tutti sanno che niente di ciò che sta scritto su quelle carte programmatiche potrà essere mai realizzato.
A meno che non si faccia una vera rivoluzione. Puntualmente dichiarata nei programmi elettorali degli incendiari, puntualmente negata quando quegli incendiari, una volta eletti, si insediano nei Palazzi del potere, trasformandosi immediatamente in pompieri.
Ma noi non ce la beviamo. Vero?