L’impoverimento della base lavorativa italiana e del suo tenore culturale (legato ad un abbassamento del livello di istruzione della popolazione e ad un affievolimento progressivo dei suoi diritti civili e sociali) stanno portando il Belpaese verso una situazione di crisi congestionata che si sta avvitando su se stessa, dalla quale sarà molto difficile uscire.
Il debito pubblico che stiamo accumulando determina un pagamento di interessi che ha il seguente andamento negli ultimi anni, secondo il mio Copilot:
- nel 2019: 63.984 milioni di euro (il 3,6% del Pil).
- nel 2020: 65.983 milioni di euro (il 3,6% del Pil).
- nel 2021: 69.659 milioni di euro (il 3,7% del Pil).
- nel 2022: 73.739 milioni di euro (il 3,9% del Pil).
- entro quattro anni, l’Italia pagherà il 9,1% in più di interessi sul debito pubblico, ovvero 17,4 miliardi di euro in più.
Questo significa che il Paese, l’un per l’altro, paga già oggi circa 200 milioni di euro di interessi sul proprio debito… al giorno!
Il dato sembra sparito dai radar pubblici e dai radar mediatici, mentre è stato presentissimo fin da quando siamo entrati nell’Unione Europea, determinando buona parte delle scelte politiche di qualsiasi governo si sia succeduto alla guida del Paese. E determinando anche la fissazione del cambio eccessivamente elevato fra lira ed euro al momento del nostro ingresso nell’Unione.
Come ha rivelato l’allora Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, il nostro Paese non sarebbe potuto entrare nell’Unione Europea perché all’epoca non rispettava nessuno dei parametri fondamentali fissati per l’ingresso di un Paese, e la decisione di non lasciarlo fuori — più che di non farlo entrare — era dettato dalla necessità di evitare una concorrenza sfrenata e feroce con la Germania, ribaltandola in una sorta di asservimento dovuto alla moneta unica. Quella decisione venne presa solo all’ultimo momento, in fretta e furia.
Se ascoltate bene queste due ricostruzioni della vicenda fatta da uno dei protagonisti, vi renderete conto di come stessero effettivamente le cose all’epoca. E di come non ce l’abbiano raccontata proprio giusta, a proposito di Stati Uniti d’Europa.
In risposta alle attuali condizioni cui accennavo all’inizio, la risposta data da gran parte delle forze politiche italiane sembra puntare all’istaurazione di un sistema di potere sempre più verticistico e sempre più autoritario.
Siamo passati dalla democrazia proporzionale a quella sempre proporzionale ma con premio di maggioranza, che ha determinato la tendenza ad andare verso il bipolarismo. Per poi terminare quella traiettoria con una riforma istituzionale totale già tentata da Matteo Renzi (e che gli costò una bella frenata nella carriera politica), grazie alla quale la maggioranza guidata da Giorgia Meloni punta a un premierato inedito, che non si ispira a nessun altro modello in voga nelle democrazie mondiali, un premierato elettivo diretto. Questa formula sembra essere in grado di sbilanciare il sistema dei pesi e dei contrappesi istituzionali democratici, a vantaggio appunto di un “premierato forte” senza limitazioni.
Mi sbaglierò, non faccio lo storico di professione, ma sembra che una parte dei nostri politici stia puntando a una moderna forma di monarchia assoluta (i famosi “pieni poteri”), in presenza di un impoverimento di massa e di una riduzione sensibile delle capacità elaborative della popolazione italiana, che ha oltretutto un tasso di invecchiamento notevole.
Una sorta di rientro nel medioevo. Uno dei “ricorsi storici” di Vico.
Qualche sera fa Massimo D’Alema, ospite del programma di Gramellini su LA7, sosteneva che l’invecchiamento notevole della popolazione italica fosse la vera causa nel nostro avvitarci in una crisi profonda. Nel dopoguerra l’età media degli italiani era di una marcata giovinezza (23 anni), mentre oggi l’età media degli italiani si aggira intorno ai 45 anni: è quasi raddoppiata! È chiaro che qui da noi un uomo di 50 anni viene considerato ancora un “ragazzo”, mentre nei Paesi emergenti l’età media dei dirigenti è di venti anni inferiore.
In Italia, 23 milioni e 182mila persone (il 39% della popolazione residente) sono lavoratori dipendenti e contribuiscono per la gran parte a mantenere tutti gli altri. Tra chi non lavora, vi sono persone troppo giovani o troppo anziane per “timbrare il cartellino”, ma anche una parte (non piccola) di persone in età lavorativa che sono “inattive”, pari a 12 milioni e 752mila. Questo vuol dire che il 21,5% della popolazione residente potrebbe lavorare, “ma non lo fa”.
Sempre in Italia, al 31 dicembre 2022, il numero dei pensionati ammonta a 16.131.414. Questi pensionati ricevono un totale di 22.772.004 di prestazioni previdenziali pensionistiche generali. Queste prestazioni includono pensioni di invalidità, assegni per disabili, e altre forme di sostegno.
Ma vediamo alcuni dettagli interessanti:
- La maggior parte dei pensionati in Italia sono persone anziane con più di 80 anni. La classe più numerosa, sia per uomini che per donne, è quella degli ultraottantenni.
- In media, ogni persona riceve 1,4 pensioni. Il 68% delle persone riceve una singola prestazione pensionistica, mentre il 32% ne riceve due o più. Tra questi, il 24,2% ha due pensioni, il 6,6% ne ha tre e l’1,2% ne ha quattro o più..
- Le prestazioni pensionistiche attive nel sistema italiano al 31 dicembre 2022 hanno un costo annuo complessivo di 322.233 milioni di euro, registrando un aumento del 2,9% rispetto al 2021.
Dipendenti
- Dipendenti23182
- Popolazione59440
Attivi e Inattivi
- Attivi23182
- Inattivi12752
Totale
- Attivi23182
- Inattivi12752
- Pensionati16131
La bilancia dei pagamenti delle pensioni si sta quindi squilibrando in modo impressionante verso l’eccesso, perché anche se l’età anagrafica non ha un gran valore per i pochi intellettuali presenti nel Paese lo ha invece per la gran parte dei lavoratori dipendenti (22 milioni) per i quali la pensione determina la fine della attività di produzione e il passaggio secco a carico dell’erario (INPS).
La stessa traiettoria verso l’alto dovrebbe avere la spesa sanitaria, per mantenere in vita tutti questi anziani. E in effetti aumenta in valore assoluto, ma diminuisce percentualmente rispetto alle richieste sempre maggiori, determinando un allentamento delle prestazioni e degli stessi medici, che stanno migrando dalla sanità pubblica in disarmo a quella privata sempre più potente e sempre più esclusiva. Alcuni milioni di italiani hanno già rinunciato, loro malgrado, a curarsi.
A questo aggiungiamo che, con il crollo degli ideali in politica — anche se tutti i partiti parlano di “progetti” e di “temi” presenti nei loro programmi — cresce dall'altro lato il tasso di corruzione in politica e nei funzionari dello Stato, e raggiunge livelli impressionanti, tanto da far dare quasi per scontata la sua pratica da parte di tutti i cittadini.
Le capacità di incidere da parte del governo su questo problema sembrano quasi nulle. Anzi, il corpus di provvedimenti anticorruzione sembra in via di smantellamento e abbandono. Pur essendo diventata (o continuando ad essere) una emergenza nazionale, l’etica, l’onestà o le cosiddette “mani pulite” (©opyright di Enrico Berlinguer) sono viste come un errore politico per chi li sostiene.
L’Italia è al 42° posto su una classifica di 180 paesi nell’indice della percezione della corruzione 2023, secondo il Rapporto elaborato da Transparency International. L’anno precedente, l’Italia occupava il 41° posto, aveva disceso un altro scalino.
Ricordo che l’indice di Percezione della Corruzione (CPI) di Transparency International misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e nella politica in numerosi Paesi di tutto il mondo. Questo indice si basa sull’opinione di esperti e assegna una valutazione che va da 0 (per i Paesi ritenuti molto corrotti) a 100 (per quelli “puliti”). Nel 2023, l’Italia ha ottenuto un punteggio di 56, lo stesso dello scorso anno e del 2021, con un incremento di tre punti rispetto al 2020. Da 2012, sono stati guadagnati 14 punti.
La media dei paesi dell’Europa occidentale è di 65 punti (peggiorata di un punto rispetto ai 66 dello scorso anno, ma di ben 9 punti superiore al nostro). I paesi meno corrotti del mondo, secondo questo indice, sono la Danimarca (90 punti), la Finlandia (87) e la Nuova Zelanda (85). In fondo alla classifica si trovano la Somalia (punteggio 11), il Venezuela e la Siria (punteggio 13).
Il nostro Presidente dell’Autorità Anticorruzione, Giuseppe Busìa, ha dichiarato: “La corruzione in Italia non si risolve criticando l’indice di percezione, cioè il termometro che segna la febbre, e che resta uno strumento utile. Lavoriamo invece, insieme, per combatterla”. Ha sottolineato l’importanza di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione, compreso l’indice del rischio di corruzione elaborato da Anac, basato su dati oggettivi e non più percettivi. Busìa ha anche richiamato all’importanza di una legge di regolamentazione delle lobby e di una normativa che eviti i conflitti d’interesse.
Ma i conflitti restano tutti ottimamente al loro posto. E quelle richieste sembrano miraggi, se confrontate alle tendenze politiche cui accennavo precedentemente.
A questo si coniugano una serie di gravi provvedimenti per intralciare la libertà di stampa. E per la forte limitazione, se non la soppressione, di nuove voci libere che dovessero apparire sulla scena mediatica.
D’altra parte il debito, la crisi e la corruzione esistono, per i cittadini, solo se qualcuno ne parla.
Se tutti tacciono, quei fenomeni spariscono ai media e dalle preoccupazioni del pubblico pagante (i famosi consumatori di tutto) e semplicemente “non esistono”. Non fanno storia.
Come l’immigrazione dal Sud del Mondo.
Detto in una frase: l’Italia è oppressa da un abnorme e inestinguibile debito pubblico, la sua base produttiva si va impoverendo, il prodotto interno lordo decresce, la popolazione sta rapidamente invecchiando anche perché non tratteniamo gli immigrati, la corruzione politica aumenta fortemente e stiamo andando verso un premierato fortissimo senza contrappesi, una sorta di dittatura democratica.
Sembrerebbe una situazione da cicale.
Prima o poi ci si dovrebbe aspettare quindi un terremoto istituzionale. Un evento rivoluzionario?
Non credo.
Vi propongo un paragone fra la nostra situazione degenerativa e le condizioni in cui altrove, e in altri tempi, si sono verificati sommovimenti rivoluzionari.
Anzitutto, il termine “rivoluzione” non è una parolaccia, anzi! Nel mercato, ogni rivoluzione non fa che immettere idee e tecnologie nuove, e aprire nuovi spazi di commercio prima inesistenti. Nuovi mercati nuovi prodotti, nuovi bisogni, e tanti affari. Un esempio per tutti, l’Intelligenza Artificiale, che sta dischiudendo le porte di una nuova età dell’oro al mercato asfittico che ha fatto fuggire i capitali verso la rendita (o meglio, la speculazione) finanziaria.
Pensate anche all’innovazione dei telefonini (cellulari), cosa ha determinato sul mercato.
Nella scienza, le scoperte “rivoluzionarie” sono una benedizione, perché gettano una luce del tutto nuova sulla realtà rispetto, a come eravamo abituati a considerarla. Dopo una scoperta rivoluzionaria, la “realtà” cambia, non è più la stessa di prima: diventa più complessa e più profonda. Nuovi fenomeni emergono alla luce della conoscenza scientifica, e trovano una spiegazione. Cioè: nuovi fenomeni prima ignorati, vengono finalmente “visti” e “interpretati” alla luce di teorie scientifiche rivoluzionarie.
Pensate alle teorie sull’atomo, alla scoperta del bosone di Higgs, sulla sua composizione, sulle modalità per estrarre energia dalla rottura dei legami fra le sue componenti.
Solo la rivoluzione in “politica” viene biasimata dal potere costituito. E non potrebbe essere altrimenti. Per il semplice motivo che la vecchia classe politica “rivoluzionata” dovrebbe lasciare il proprio posto posto alle nuove energie e alle nuove soluzioni, perdendo tutto il proprio potere. Mai sia!
Piuttosto, si dirottano investimenti verso la cosiddetta “sicurezza”, o “security”. E verso gli apparati dei servizi segreti, molto più estesi e radicati nella società di quanto un ingenuo cittadino non possa credere. Il potere si sta corazzando per resistere ad un eventuale impatto da parte dei "diseredati", ove mai? E Julian Assange si becca una condanna a morte, perché la divulgazione di informazioni che possano attentare alla sicurezza del potere costituito (sebbene assolutamente vere) crea i presupposti per determinare il crollo delle “credenze” della popolazione, la perdita di fiducia e di autorevolezza, e pertanto determina le condizioni ideali per una rivoluzione democratica.
I teorici del neocapitalismo hanno perfino pronosticato che il nostro attuale tipo di organizzazione sociale, e i valori su cui si impernia (basati essenzialmente su potere e denaro, o viceversa, fate voi) costituiscono “la fine della storia”. Un'altra idea assurda. Intendendo dire, con questo, che non ne esistono, né ne esisteranno in futuro, altri. E che l’umanità è condannata in eterno a vivere (e morire) per fare soldi, o per farli fare a qualcun altro. A comandare, o a sottomettersi al potere altrui, ubbidendo ai suoi comandi. O si è preda, o si è predatore. Come narra la storiella della gazzella e del leone che si svegliano ogni mattina nella savana. Il perfetto esempio della favola ideologica neocapitalistica con sullo sfondo la brutalità della vita primordiale.
Niente solidarietà, niente empatia, niente comune sentire. Niente associazionismo e niente miglioramento della specie. Solo la dura e cruda realtà attuale. Inutile ribellarsi. Inutile fantasticare di possibili sommovimenti politici. Attaccate il guinzaglio al carro, e seguitelo.
Come se le società moderne non fossero nate su presupposti e principi esattamente opposti.
E come se il corrompimento di quei principi non dovesse portare inevitabilmente ad una involuzione e ad un collasso sociale, che apriranno molto probabilmente la strada a scenari da incubo democratico prevedibilissimo. Non c’è niente da fare. Ma anche la popolazione delle moderne democrazie non sta facendo niente, ammutolita. Guarda questi fenomeni da dietro il vetro del proprio acquario di privacy.
Perché non siamo allora alla vigilia di un sommovimento politico-sociale?
Perché ce ne stiamo tutti zitti e buoni?
Forse perché siamo vecchi? O forse perché siamo codardi?
O siamo diventati tutti “cicale”?
Una possibile spiegazione, a mio giudizio, risiede nel fatto che in questa fase non esiste un soggetto sociale, politico, economico, morale o ideale ― in grado di interpretare il ruolo di “spinta propulsiva” che potrebbe determinare un sommovimento delle coscienze e delle azioni di massa dei “consumatori di democrazia”.
Nella antica lotta fra Capitalismo da una parte e Socialismo Reale (lasciamo perdere il comunismo, che è tutt’altra cosa, ma è stato tirato giù in basso, nel fango, dal totalitarismo degenerativo sovietico), i Paesi che si ispiravano al secondo oggi impersonano, con un capitombolo della Storia, l’anima del Capitalismo primordiale.
In quella Cina tanto osannata un tempo (acriticamente) dai rivoluzionari incoscienti e ignoranti del ‘68, il Dio Oro (neppure il denaro: proprio il metallo giallo. Stavano costruendo una statua monumentale di oro massiccio per onorare Mao Tze Tung!) è diventato il focus motivazionale di tutto l’agire. Non c’è nulla di nuovo nell’azione copiativa cinese, ma anzi vi è una corroborazione delle vecchie regole già note del capitalismo delle origini. Un altro ricorso storico.
Per questo dicevo poc’anzi di lasciare da parte il “comunismo”. Se ci pensate bene, oggi il paese più capitalista di tutti, e che nei prossimi anni si prepara a diventarne il campione mondiale, è l’unico Paese che si dichiara comunista, con la falce e il martello (e la stella dell’organizzazione) sulla propria bandiera, con un Partito Comunista nazionale, un Comitato Centrale e un Segretario Generale o Presidente che ha truccato anche le più elementari regole del regime per farsi eleggere a vita, lui e i suoi discendenti, quale segretario perenne ed immortale. Un nuovo imperatore. Un nuovo medioevo. Un nuovo anacoluto logico. Una nuova follia, ma vincente.
D’altra parte, se levate alla Cina l’impero, che rimane? Quali grandi conquiste, dal punto di vista artistico e speculativo, ha conseguito la Cina del suo procedere millenario? Nulla di significativo. La moderna Cina si è appropriata dei valori occidentali, della cultura occidentale, del denaro occidentale e li sta portando al parossismo. Preparandosi a sostituire l’impero statunitense. E ricordiamoci: non è mai accaduto nella Stroria che un impero ne abbia sostitutito un altro senza un copioso spargimento di sangue. Mai.
Facciamo un passo indietro, per capire meglio la dinamica della “spinta propulsiva" (© di Antonio Gramsci).
Durante la Rivoluzione Francese del 1789 c’era una borghesia nascente, un terzo stato, che costituiva la classe in rapida ascesa, che controllava la produzione e i mercati, l’industria, il commercio e che veniva soffocata dall’ancien régime, dalla monarchia assoluta, dalle rendite nobiliari e delle proprietà medievali religiose (gli altri due Stati). La borghesia costituiva, in quella vicenda, la “spinta propulsiva” della Storia.
Quando quelli del Terzo Stato si sono riuniti nella sala della Pallacorda, gli altri due Stati avevano già perso. La partita andava comunque giocata fino in fondo, ma sostanzialmente (e con la fortuna di avere il “senno-di-poi” lo possiamo dire), la partita era già chiusa nel momento in cui hanno capito che potevano fare senza. Anzi, che proprio il loro “fare a meno” degli altri due Stati era la soluzione. Era la “rivoluzione”.
Poi la situazione si è involuta, anche grazie al regime bellico che si venne a determinare, con tutte le altre monarchie coalizzate per far cessare quell’”abominio”. Ma non prima di aver portato i principi rivoluzionari in giro per l’Europa intera, anche tramite le armate napoleoniche, tanto da far dire a Georg Wilhelm Friedrich Hegel ― uno dei maggiori pensatori dell’umanità ― mentre assisteva ad una sfilata miltiare guidata da Napoleone a cavallo: “Ho visto lo Spirito del Mondo passare a cavallo”.
Ora, quella era la rivoluzione della borghesia contro il vecchio regime, che la stava costringendo in una camicia di forza troppo stretta e soffocante. Anche Carl Marx ne avrebbe riconosciuto il valore, anni dopo, nel suo “Manifesto”, indicando in una prima alleanza fra “borghesia e classe operaia” la migliore soluzione per disarticolare il sistema di potere istituzionale medievale. Un “corso”, sempre per citare Vico.
La lotta per i diritti e le conquiste civili, per le libertà individuali, per una migliore organizzazione del mercato e dei servizi sociali, non può che favorire le nuove classi sulla rampa di lancio. Quindi le due forze propulsive della borghesia e della classe operaia che questa ha partorito, dovevano coalizzarsi e fare un certo percorso insieme. Una sorta di “compromesso storico” ante litteram.
Questa doveva essere anche la base teorica ideologica della “socialdemocrazia” e del “socialismo”.
Poi, sempre secondo Carl Marx, la classe operaia sarebbe andata oltre, proseguendo nella traiettoria della libertà e perfino della creatività. Sarebbe stata la sua ora di fungere da "spinta propulsiva". Ma per giungere dove?
Marx non lo sapeva. O semplicemente non lo voleva prevedere. Si è semre rifutato di strologare su soluzioni. Ma, sosteneva il filosofo di Triar, una volta che le macchine avranno sostituito il lavoro umano su tutti i fronti, dalla produzione di cibo e di case all’amministrazione, l’uomo sarà finalmente “libero” di fare quello che gli pare, e di dare libero sfogo alla sua creatività, ai suoi desideri, alle sue passioni, in modo tale da raggiungere la “felicità”.
Termine, quest’ultimo, che compare solo nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, come fine per il proprio popolo. E non compare mai, nemmeno una volta, nella Costituzione della Repubblica italiana. Neanche per sbaglio. Singolare, vero?
Oggi chi può impersonare questa “spinta propulsiva”? In grado di aggregare forze ed energie nuove, in grado di porsi di fronte al mondo come un soggetto che porterà ad un sommovimento istituzionale, produttivo, di valori sociali e anche finanziari? Perché se non si riesce ad affrontare in modo innovativo, "rivoluzionario", il nodo del “debito pubblico”, ne rimarremo semplicemente soffocati, schiacciati, impossibilitati a fare altro se non quello di lavorare e produrre il più possibile— i 4 italiani su 10 che lo fanno — per sostenere il carico dello Stato nel suo complesso, con tutte le prebende e le pensioni, e tentare di ripagare il debito che invece si accumulerà progressivamente, richiedendo maggiore produttività e maggiori tagli alla “spesa sociale”, sempre maggiori sforzi.
E, qualora esistesse questa nuova forza propulsiva, ci vorrebbero anche degli uomini adeguati a condurla. Uomini nuovi, dalle capacità straordinarie, per compiere l’impresa.
E chi è oggi al potere, e vi sta ficcato, nei suoi gangli vitali, come un polpo sotto lo scoglio, farà sicuramente di tutto perché le nuove voci non appaiono sulla scena.
Ad esempio, non finanziando (e trascurando) fonti energetiche, scientifiche e produttive potenzialmente sconvolgenti, dirompenti. Piuttosto ridanno indietro i fondi all'Europa.
Senza questa nuova forze propulsiva, non vi è soluzione alcuna, a mio modesto parere, alla "crisi della politica" e alle crisi del Belpaese.
E allora che la festa ricominci!