AVVERTENZA: Scrivo queste righe come riflessione per la mia generazione, e per me stesso, che di sicuro non sono immune da quanto descrivo. É una sorta di promemoria per me e di riflessione per le future generazioni, per capire cosa sia successo dal punto di vista antropologico, non morale. La speranza è di stimolare una riflessione nel lettore, e anche moltissime critiche.
Abbiamo un problema coi Millennials? E uno diverso coi Nativi Digitali? Anzitutto: chi sono? Sono i ragazzi nati intorno al 1982, che nel 2000 sono giunti alla maggiore età ed hanno cominciato a popolare le retrovie del mondo del lavoro. Ma vale credo anche per i nativi digitali, la generazione successiva, e forse per quella dopo ancora. Se nessuno li ferma.
I Millennials, e i ragazzi delle generazioni successive, denotano una sorta di disfunzione comportamentale, una alterazione antropologica, per così dire. Di che si tratta?
Un noto e discusso influencer Usa, Simon Sinek, ha provato a caratterizzare il problema dei millennials alla luce di quattro differenti considerazioni, che convergono però tutte in un unico punto. Molto critico.
Ma proviamo a vederle anche noi dal nostro punto di vista.
Il primo problema dei millennials è la loro educazione. O meglio, come i loro genitori si sono comportati con loro, e quali aspettative hanno ingenerato nell’animo di questi nuovi arrivati. C’è da dire subito che è la generazione dei genitori sessantottini, ma anche di tutti gli altri loro coetanei che non si sono mai sognati di effettuare nessuna rivolta, e tuttavia sono vissuti nel benessere post-boom -economico.
L’ambiente sociale in cui si sono trovati ad educare i propri figli era cambiato completamente rispetto a quello dei propri genitori. Molti di loro hanno pensato che i loro figli non avrebbero più dovuto subire una educazione prescrittiva e restrittiva, come quella che loro avevano ricevuto, figli a loro volta della generazione che aveva conosciuto la Seconda Guerra Mondiale, i campi di concentramento, la fame nera, il mercato altrettanto nero, e poi la rinascita.
Tipico di quella educazione era una forma accentuata di repressione e di punizione. Ad esempio, se dicevi una parola sbagliata, o ti scappava una parolaccia in pubblico, ti arrivava subito un ceffone da parte dell’adulto che ti stava più vicino. E se era il professore a punirti, aveva sempre e comunque ragione lui. Anche se picchiava. Faceva comunque bene. Oggi è vietato per legge. Finisci in galera se provi a dare le botte a tuo figlio.
Con la generazione dei millennials, invece, e per una sorta di contrappunto demenziale, tutti questi pargoli sono diventati dei fenomeni. I loro genitori si sono prodigati a far credere loro che fossero del tutto speciali, unici, dei fenomeni ambulanti appunto, che avrebbero fatto sfracelli nella vita, ciascuno nel proprio settore di applicazione. Roba da record del mondo.
Quindi neppure i professori si dovevano azzardare a modificare cotanti talenti, a toccarli, o a deprimerli. Per confermare questo atteggiamento dei genitori, ogni volta che c’era una smentita, un votaccio, un compito in classe andato male, una sospensione, un esame non superato ― ecco immancabilmente il genitore arrivare a scuola su tutte le furie e, qualora non avesse trovato ampia quanto immotivata soddisfazione, era pronto a passare alle vie legali, facendo ricorso al Tar, scrivendo al Ministro o rivolgendo una petizione direttamente al Presidente della Repubblica.
Pur di trovare conferma che il proprio pargolo era davvero un fenomeno.
Ma da dove proveniva tanta prosopopea? Tanto immotivato trionfalismo?
Addirittura, per non avvilire i giovinetti, nelle competizioni non vengono premiati solo i primi, ma la medaglia viene data un po’ a tutti, anche per il solo ricordo della partecipazione. Così tutti medagliati, nessuno scontento. Tutti vincitori.
Ora, questo atteggiamento sposta clamorosamente il paradigma educativo, per cui se il pargolo segue le orme del padre e rimane dentro la sua bolla di bambagia protettiva, tutt’al più verrà fuori una persona mediamente insopportabile, opportunamente arrogante, presuntuosa e altera, epperò non si dannerà la vita, ereditando occupazione, studio, clienti e averi di famiglia.
Se putacaso invece si deve andare a guadagnare la pagnotta altrove, facendo leva sulle sue sole forze, allora scoprirà immediatamente di non essere più quel fenomeno che per oltre vent’anni gli avevano fatto credere che fosse. Scoprirà che altri ragazzi, più intelligenti e preparati di lui, molto più stimolati a sviluppare competenze ed abilità, sono già miglia e miglia avanti a lui. E imparerà il fatto che non c’è più mammina a difenderlo, che il mondo è duro e spesso cattivo, che se vuole essere una persona minimamente decente e onorata deve tirare fuori il carattere e il talento, se ce l’ha.
Il risultato è quasi sempre una perdita di autostima ed una depressione incipiente. E non può che essere così, viste le premesse.
Perché il risveglio comporta un evidente trauma e uno stress molto maggiori che se fosse stato educato a dura disciplina, alla meditazione, a non sottovalutarsi ma anche a non sopravvalutarsi, ad osservare criticamente il mondo e a escogitare il modo di cambiarlo, o quanto meno di cambiare la propria posizione e la propria disposizione nei suoi confronti.
E allora ci si scopre inadeguati, incapaci di reagire, inferiori ai propri concorrenti. E ci si lascia andare. O, meglio, qui interviene un secondo fattore a peggiorare la situazione. Un fattore che non era presente nelle precedenti generazioni.
La tecnologia.
E interviene (almeno) in due modi diversi.
Il primo è il fattore velocità.
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Ogni capriccio viene risolto in pochissimo tempo. Deve venir soddisfatto in un lampo. Se ci vogliono giorni, non va bene. Siamo diventati un popolo di impazienti. Ma mentre i più anziani conoscono il valore dell’attesa, i Millenials no, tutto gli è dovuto quasi istantaneamente. È tutta una vita imperniata sulla velocità e sulla mancanza di spazi di attesa, di riflessione, perfino di ozio.
Fin da piccoli sono stati abituati ad un tour de force nella vita, per dimostrare il miracolo che sono. Scuola, palestra, piscina, equitazione, scuola di musica, basket, uno dietro l’altro, uno via l’altro. E se un giorno se ne stanno da soli, allora devono guardare la televisione con la serie del cuore. Con la pubblicità inclusa.
Questo non è il solo danno che abbiamo realizzato su di loro. Velocità e attività ossessiva. Zero spazio mentale libero.
Ma parliamo anche di un altro aspetto della tecnologia, parliamo di quel compagno di viaggio, di giochi, di esperienze, di comunicazione che è il telefonino cellulare.
Quando ci si sentiva depressi, si avevano alcune possibilità per rinfrancarsi. Nei tempi passati, spesso ci si attaccava alla bottiglia. Finché non arrivava il “click” al cervello e scattava l’anestesia verso il mondo. Un ottimo rimedio per lo stress, ma purtroppo l’alcool facilmente porta alla dipendenza, che ovviamente non è da alcool stesso, ma dall’effetto anestetizzante che induce, e che ci solleva dai guai del mondo facendoceli dimenticare.
Oggi la bottiglia viene sostituita dal telefonino.
Sei giù? Sei depresso? Cominci a mandare in giro messaggini.
“Ciao, ciao, ciao, ciao, ciao...” a raffica, compulsivamente, verso coloro che sai che ti leggeranno e ti risponderanno dall’altra parte della luna, oltre l’abisso digitale.
Oppure scriviamo un post sul nostro social abituale, o su altri social, nella speranza di catturare nuove “amicizie”, e poi ci nascondiamo dietro l’angolo per vedere cosa succede. In cuor nostro, la mente va lì, sempre lì, con la speranza di ottenere un riscontro positivo, una risposta, un commento, un “mi piace”.
E se non ti rispondono, se non ti si fila nessuno, se non ottieni alcun “like”, allora sono guai. Che ho fatto di sbagliato? Cosa avrò scritto che non va? Non piaccio più ai miei “amici”? Sono diventato antipatico? Sono un reietto?
E si scende in basso, l’ansia aumenta, l’insicurezza ci mangia.
Mentre se ricevi messaggini in risposta, se ottieni conferme, torni a sentirti “bene”. Ottieni le tue conferme. Ottieni un “piacere”. Ma a cosa è dovuto questo “sentirsi bene”, questo “piacere”?
È il rilascio di dopamina.
La dopamina è quella componente che viene rilasciata nel cervello quando si è dipendenti da un qualcosa, e si ottiene esattamente l’oggetto desiderato. È una sorta di ormone del piacere, una ricompensa che il corpo da a se stesso.
Droga, sesso, alcool, e altri stimoli esterni aumentano il rilascio di dopamina, funzionando come premio per il nostro cervello, aumentando il battito cardiaco e la pressione sanguigna, e stimolando le parti più recondite del nostro ego. Ci si abitua al premio, e alla fine non ne possiamo fare a meno. Funziona così in quasi tutte le dipendenze. Naturalmente ha anche tante altre funzioni importanti, ad esempio sulla formazione della memoria. Ma si è visto che bloccando il recettore D2 si ottiene la liberazione di molta dopamina e la trasmissione del piacere incrementa. Su questo principio si basa la cura della depressione, per risollevare "chimicamente" il tono dell'umore, in modo farmacologico.
Il telefonino si è innestato in questo fenomeno psicofisico in modo infernale, o se volete anche direttamente chimico, ed è diventato fonte di un piacere bevuto a piccoli sorsi. Ora, quando siamo molto giovani, l’unico consenso di cui sentiamo il bisogno è quello dei nostri genitori. Ma quando abbandoniamo il tetto materno ed entriamo nelle tribù di coetanei, o in contatto con il mondo esterno, ecco che il consenso deve venire dalla cerchia di conoscenze e amicizie che ci attornia.
Ma se sono “amicizie da social”, cioè amicizie superficiali, pronte a bannarti al primo screzio, che non condividono con te neanche il piacere di guardarsi negli occhi e di capire che cosa ti stia emozionando, quali palpiti e quali pensieri ti passino in mente quando stai comunicando qualcosa, mi dite che tipo di “ambiente” fa da contorno alla vita di questi “millenials” e dei loro successori digitali? Perché vietiamo loro alcool, droghe, e porno, ma poi gli mettiamo in mano un telefonino appena riescono a digitare qualcosa?
Quali conferme, quale supporto, quali emozionali connessioni stanno alla base dei single, bianchi, con lavoro stressante e in perenne crisi di lavoro e di personalità?
Già. Perché le amicizie, quelle vere, quelle reali, non sono quelle elargite a profusione dai social. Non sono i like o le pacche virtuali sulle spalle, e poi chi si è visto si è visto. Noi lo sappiamo. Ma lo sanno anche loro? Lo "vivono"?
Una amicizia richiede tempo. Richiede anni ed anni. Richiede un avvicinamento reciproco, richiede un contatto duraturo, ed è capace di modificarti e di farti capire al volo i messaggi silenziosi che provengono dall’amico. Richiede comprensione reciproca e una sorta di “uscita al di fuori di sé”, per interessarsi davvero alla vita, alle gioie, ai dolori, alle ansie e alle aspettative di un altro, dell’amico. Che a sua volta ha altri genitori, altri amici, altri amanti. Che potrebbero essere in competizione coi tuoi, con dolore. Che fanno anche da metro per te, in un mondo di esperienze che si costruisce come le stalattiti. Stratificandosi col tempo.
Ma soprattutto, un rapporto amichevole è gratuito. Dona, non prende. Non ha bisogno di conferme, non ha bisogno di successi o insuccessi. Non ha bisogno di parvenze.
Quel mondo purtroppo non viene più praticato, ci si tiene a distanza.
Il nostro cellulare è il contenitore di tante cose, oramai. Della rubrica telefonica, ma anche dei nostri sistemi di pagamento, delle nostre mail, delle nostre amicizie, del nostro mondo “che conta”. Lo portiamo sempre con noi, in classe, nelle riunioni, perfino a tavola.
Con chi stai mangiando? Con chi dividi la mensa? Non con colui che ti siede davanti o di fianco, ma con un altro, forse sconosciuto, che sta in un altro continente e che ti sta sollecitando in una chat. Quindi chi ti sta di fianco, o di fronte, non conta nulla. Anche se è il tuo ragazzo o la tua ragazza. O se stai in riunione. Ogni pochi secondi il tuo sguardo va sul cellulare posato sul tavolo.
"Blin", messaggio ricevuto. E allora, invece di parlare coi vicini, vai subito a rileggerti per l’ennesima volta quello che hai scritto, per provare a sentire con la mente di un altro quanto sei stato fico a scrivere il post. E poi vai a controllare subito quante risposte, quante approvazioni, quante conferme ti hanno mandato.
E ciò funziona meglio, molto meglio di un digestivo.
Funziona come la droga. Rilascia dopamina.
Quindi c'è una generazione che cresce con una bassa autostima e che non ha i meccanismi per affrontare lo stress, non ha quella rete di amicizie reali, fidate, approfondite che sono necessarie per affrontare i grandi e i piccoli drammi della vita. A ciò si aggiunge il senso di impazienza, di velocità, di immediata soddisfazione di ogni fesseria che salti in mente. Sono ragazzi cresciuti in un mondo di gratificazione istantanea. E molte di queste gratificazioni vengono dal telefonino.
Mentre le grandi soddisfazioni, le grandi conquiste interiori si ottengono tutte solo con lo sforzo e a volte con dolore, con la privazione che stimola tutte le proprie energie a conseguire un obbiettivo.
Così si forma un carattere, e così si creano le vere amicizie, e anche gli amori, che riempiono una vita e che la rendono degna di essere vissuta. Diceva qualcuno che entrando in contatto con personalità di grande pregio chiedeva immediatamente loro attraverso quali grandi dolori fossero passati.
Avrete sicuramente fatto caso che i Millenials sono perennemente insoddisfatti. E quando non sono insoddisfatti, sono completamente neutri, quasi indifferenti. Evitano le passioni, così evitano anche le sofferenze in caso di perdita. Mai grandi prese di posizione, ma sempre e solo sarcasmo verso gli altri, e una sorta di autoindulgenza vittimista verso di se stessi. E poi ti chiedi come mai gli "underdog" ottengano milioni di consensi elettorali? Perché il vittimismo paghi? Perchè vogliano un uomo solo al comando?
Ma non è colpa loro.
Loro si sono adattati, ma non c’entrano con la decisione di avere una o due, o finanche tre generazioni di questo tipo.
Direbbe Roger Rabbit, è così che li disegnano.
Così li desidera un potere troppo intento a autoaffermarsi e a proiettarsi nei millenni a venire: buoni, docili, incapaci di reagire, stressati, senza autostima. Insicuri dentro, nel profondo.
Chissà quanti talenti sono andati bruciati, quante potenzialità sono state immolate sull’altare del neoliberismo. Sono ragazzi bravissimi, anche di talento, ma erosi all’interno da una ideologia che li ha condizionati al punto tale, che ciò che avrebbe fatto scattare per molto meno una ribellione generalizzata nella mia generazione ha determinato una sorta di assuefazione dopaminica nel Millennials.
Eppure ne ho conosciuti di bravi e di bravissimi, con punte di eccezionalità. Ma il loro panorama è comunque grigio, grigissimo. La loro instabilità, elevata. Sono i ragazzi delle generazioni perdute, ai quali non è stato dato in sorte di avere un futuro pieno e radioso. Sono, sciaguratamente, i ragazzi perfetti per il globalesimo, se mi passate il neologismo..
Li hanno voluti così. Timorosi e diffidenti, sarcastici e spiantati, senza più punti cardinali. Senza il piacere di fare una cosa perché è giusto farla, e non per soldi. Senza il piacere di “buttarsi” in una impresa, ma con il gusto di correre sul ciglio di un grattacielo o di saltare da un palazzo all’altro per vedere se riescono a non morire. Ed in effetti il tasso di suicidi, o il ricorso agli psicologi o, peggio, agli psicanalisti, è enorme. Inusitato. Come se questo servisse a cambiare anche solo di un millimetro la loro condizione.
Ma forse gliela riesce a rendere accettabile, un grigiore sopportabile.
Per questo occorre riuscire a farli rialzare in piedi. E far loro rialzare loro un fiaccola, per scorgere un barlume di cambiamento laggiù, in fondo.
Per questo occorre dedicarsi a loro incessantemente, per dedicarsi a noi stessi e al pianeta.
Come diceva Robin Williams in “Will Hunting, genio ribelle”, seduto su una panchina del parco, con lui affianco: “Sei solo un ragazzo, tu non hai la minima idea delle cose di cui parli”. Un ragazzo che non ha avuto tempo per fare esperienza. Non ha avuto il tempo per crearsi le amicizie di una vita e per sperimentare le passioni e l’amore. E che non ha mai provato l’ebbrezza di ribellarsi e di mettersi in gioco in prima persona, non esclusivamente per sé ma per gli altri. Non è mai riuscito a donarsi. Ad essere la dopamina di un altro.
E prosegue: “Non sai cos'è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami qualcosa più di te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto. Io ti guardo, e non vedo un uomo intelligente, sicuro di sé, vedo un bulletto che si caga sotto dalla paura.”
La nostra paura.