Non sono pochi i milanesi rimasti stupefatti alla vista della nuova Piazza San Babila. Un tempo avrebbero detto “Hann fàa ‘na scarpa e ‘na sciavàta”, salutando con una battuta l’occasione persa, sintetizzando la delusione e il rammarico per quello che poteva essere un bel lavoro e invece si è rivelato un gran pasticcio. Una distesa di porfido grigio che sembra cemento e che mal si accompagna ai precedenti interventi sulla piazza, ma che l’assessore responsabile Marco Granelli aveva così presentato: “La risistemazione dell’area, al termine della costruzione della nuova linea della metropolitana, rappresenta una grande occasione per ridare coerenza a tutto l’ambito Duomo-San Babila-largo Augusto e valorizzarne la forte vocazione pedonale”.
A colpire sono soprattutto i particolari. La piazza è divisa in due. Guardando verso il centro, a destra è rimasta la sistemazione del 1997 progettata da Luigi Caccia Dominioni, con la fontana, le aiuole e la pavimentazione fatta di lastre di pietra serena; a sinistra, la parte nuova, minimale con qualche panchina di pietra (o cemento?) e una grande distesa di cubetti di porfido grigio chiaro. A separarle c’è una bella linea di demarcazione di pietra chiara. Diverse sono anche le luci. Nessuno sforzo creativo: ad affiancare gli storici pali illuminanti disegnati da Ignazio Gardella, comunissimi lampioni che il popolare blog Urbanfile ha definito “da parcheggio pubblico”.
Ma il colpo più basso arriva dalla M4, l’ultima nata tra le linee della metropolitana milanese che in San Babila incrocia la M1, “la rossa”. Gli ingressi alla stazione non sono accomunati come avviene normalmente. Non si scende dallo stesso accesso per poi percorrere strade sotterranee differenti. Le fermate sono affiancate e a guardarle viene male. Da una parte, la leggerezza e il segno inconfondibile del progetto di Franco Albini e Franca Helg con Bob Noorda, che ha segnato la storia del design dei trasporti urbani; dall’altra, a circa un metro di distanza, un catafalco di cemento grigio che appare sproporzionato e insieme misero. Con il piccolo capolavoro grafico: il logo di M4 che scimmiotta quello di M1 (Compasso d’oro ai suoi autori nel 1964). E visti uno accanto all’altro se ne coglie subito la differenza.
Milano da tempo tende a non commissionare progetti ai professionisti e tantomeno ai maestri. Le risistemazioni delle piazze nascono principalmente dalla collaborazione coi privati, come è successo con M4 non solo per San Babila, e si traducono in operazioni molto varie, dal semplice maquillage allo sventramento. Come il caso di piazza Liberty, oggetto di un grande scavo che oggi chiamiamo Apple store. Anzi, Apple Piazza Liberty come vuole il marketing di Cupertino. Inaugurata il 26 luglio del 2018, la nuova piazza è in realtà lo store. Come aveva spiegato l’allora vicepresidente del retail di Apple Angela Ahrendts, il negozio apparteneva al nuovo concept aziendale che mirava a costruire non semplici spazi di vendita ma “luoghi dell’incontro”. Ambienti dove vedere i prodotti, comprarli e imparare a usarli, ma dove incontrare anche artisti, fotografi, creativi per lezioni di fotografia o montaggio. In più lo store doveva connettersi alla città attraverso una grande scalinata che nelle intenzioni rappresenta un anfiteatro in grado di ospitare concerti, proiezioni, eventi vari e un parallelepipedo di vetro alto otto metri con cascata d’acqua, un omaggio alla città dei Navigli.
Inutile dire che la scalinata è per la maggior parte del tempo una normalissima piazza, un comunissimo luogo di sosta dove riposarsi, rifocillarsi e fare due chiacchiere sotto lo sguardo attento degli imponenti bodyguard del negozio. Superfluo anche sottolineare come la città abbia deciso di abdicare al suo ruolo e lasciare che siano altri a definire la qualità del suo spazio pubblico. È importante sottolineare invece come anche i detrattori dell’operazione Apple siano stati costretti ad ammettere che è sempre meglio questo della distesa di asfalto a uso parcheggio che c’era prima.
Già, perché il tema esiste. In assenza dell’iniziativa (e dei soldi) di un privato cosa è in grado di mettere in campo il Comune di Milano? Evidentemente molto poco, se si considera che pure l’urbanistica tattica a Milano è oggetto di collaborazioni con privati; anche se si chiamano Bloomberg Associates e appartengono all’organizzazione filantropica dell’ex sindaco di New York Micheal R. Bloomberg come nel caso del programma Piazze Aperte. A Milano anche interventi a basso costo, su piccola scala e reversibili, caratterizzati dalla rapidità dell’esecuzione e dalla partecipazione dei cittadini (l’urbanistica tattica appunto), diventano progetti complessi.
Ciò che nel resto d’Europa nasce spontaneamente dagli abitanti o è portato avanti dalle amministrazioni locali, a Milano diventa un programma articolato promosso dal Comune di Milano, sviluppato da AMAT (Agenzia Mobilità Ambiente e Territorio, una struttura tecnica del Comune di Milano) in collaborazione con Bloomberg Associates e Global Designing Cities Initiative. Un piano per cui diverse piazze di Milano, dalla periferia più recente al cuore della città storica, senza distinzione di importanza, localizzazione, dimensione, in modo indifferente al contesto, alla configurazione, al valore architettonico sono state rinnovate con alberelli, vasi di fiori, panchine, giochi e tavoli da ping-pong, ma soprattutto tinteggiate a terra con molta vernice colorata, per segnare la differenza dal grigio dell’asfalto dei percorsi automobilistici. Perché l’obiettivo principale è togliere spazio alle auto e restituirlo ai cittadini. Ottima idea.
Come per piazza Liberty e l’Apple store qualunque cosa è meglio delle auto parcheggiate o in movimento. Ma la Milano che si vanta di essere capitale mondiale del design non avrebbe il dovere di immaginare una propria via alla progettazione dello spazio pubblico, chiamare le sue migliori intelligenze creative e destinarci soprattutto risorse sufficienti?