L’ultimo assurdo dibattito milanese – sempre che qualche articolo di giornale e una cascata di invettive via social facciano un dibattito – riguarda la vendita a LVMH della Casa degli Atellani, con annessa Vigna di Leonardo. La notizia rimbalza, tra un’anteprima e una smentita, almeno dal dicembre dello scorso anno e alimenta grida di scandalo e sdegno per la paura di vedere trasformato il gioiello rinascimentale nell’ennesimo cinque stelle extra lusso. Ma a ben vedere il gioello rinascimentale le sue radicali trasformazioni le ha già subite da un bel pezzo.
Il complesso, dono del duca Ludovico il Moro al fidato scudiero Giacometto di Lucia dell’Atella, fu al centro della vita mondana milanese per tutto il periodo sforzesco e nel 1498 vide anche l’arrivo di Leonardo Da Vinci a cui il duca regalò un piccolo appezzamento di terra con vigna, adiacente al giardino degli Atellani. Ma dopo diversi passaggi di proprietà la dimora fu comprata nel 1919 dall’ingegnere e senatore Ettore Conti. L’architetto Piero Portaluppi fu incaricato di un imponente progetto di restauro che ne modificò la struttura e che riscoprì anche parti andate perdute, come gli affreschi di Matteo Bandello. Da oltre un secolo la Casa degli Atellani è di proprietà delle famiglie Maranghi, Portaluppi e Castellini Baldissera e solo dal 2015 è stata riaperta al pubblico in occasione di Expo Milano.
La Vigna di Leonardo, estirpata nel 1920 per una banale lottizzazione dei terreni e comunque al centro di una zona poi devastata dai bombardamenti del 1943, è stata riportata in vita giusto in tempo per l’inaugurazione. E del resto poteva in quell’anno la capitale mondiale del cibo privarsi della possibilità di informare il globo dell’esistenza del vino del genio da Vinci? E poteva non offrire un’adeguata ospitalità? La Casa degli Atellani, sottoposta a rigidissimi vincoli dalla Soprintendenza, è stata comunque in grado di ospitare gli Atellani Apartments, come recita il sito: “Cinque appartamenti vacanze elegantemente arredati, completi di cucina e dotati di ogni comfort, disponibili per affitti a breve o lungo termine”.
Che cosa succederà agli Atellani ora che sono nelle mani del magnate più potente del sistema del lusso? Come ha scritto Artribune, fonti vicine alla famiglia di Bernard Arnault dicono che “Casa degli Atellani avrà uso essenzialmente privato – come già oggi – con una parte dedicata ad attività culturali e al pubblico. L’idea è di riportare questo edificio, di importanza storica e artistica, al suo splendore. Evidentemente il progetto sarà sviluppato di concerto con la Soprintendenza ai Beni culturali e con il Comune di Milano”. Intanto immobile e giardino hanno chiuso al pubblico dallo scorso primo ottobre. Ci si sente un po’ a disagio ad ammetterlo, ma Milano da tempo subisce la moda più che farla. La progressiva finanziarizzazione del sistema, con la concentrazione dei marchi in pochi gruppi internazionali, ha trasformato il ruolo della città: non più player rilevante a livello internazionale, con primati interessanti nel prêt-à-porter e nella moda maschile, ma prestigioso palcoscenico dove mettersi in mostra e, proprio per questo, territorio di conquista. La moda a Milano è un operatore immobiliare potentissimo che decreta i valori di mercato scegliendo dove aprire i propri negozi (arrivando ad espandere il Quadrilatero ben oltre i suoi confini storici) e che agisce anche sullo spazio pubblico condizionando le politiche dell’amministrazione comunale. Come è successo per la Galleria Vittorio Emanuele II, che da “salotto di Milano” si è trasformata in uno store multimarca più simile alla Rinascente che a una strada urbana.
La moda è anche un operatore commerciale che rileva prestigiose attività storiche di altri comparti. Il gruppo LVMH nel 2013 ha deciso di procedere all’acquisizione dell’80% della pasticceria Cova, la caffetteria di via Montenapoleone dal 1817, pagandola 32,8 milioni di euro. Un’offerta superiore di venti milioni a quella fatta dal Gruppo Prada che l’anno successivo si è rifatto comprando l’80% di un altro storico locale milanese, la Pasticceria Marchesi, dal 1824 il forno da cui esce il panettone più milanese che c’è.
La moda a Milano è poi un operatore culturale molto attento all’arte contemporanea che apre musei e gallerie restituendo alla città palazzi in disuso (in passato l’Hotel Marino alla Scala della Fondazione Trussardi) o rilanciando interi quartieri (la Fondazione Prada in Porta Romana, Armani Silos in porta Genova) ed è un operatore turistico che crea business anche sul patrimonio storico della città (Bulgari e l’hotel in un palazzo del XVIII secolo nel cuore di Brera, Ferragamo e l’Hotel Portrait Milano nell’ex seminario arcivescovile di corso Venezia, ora LVMH con la Casa degli Atellani di corso Magenta). La moda è anche partner commerciale e sponsor di molte istituzioni pubbliche milanesi sempre più povere e prive di idee, a cominciare dal Comune. In cambio di cifre davvero ridicole, nemmeno lontanamente paragonabili al loro giro d’affari ma neanche a ciò che normalmente spendono per organizzare un cocktail, alle case di moda viene permesso davvero molto: eventi straordinari, allestimenti su suolo pubblico, attività commerciali in luoghi improbabili, uso di palazzi storici e sedi istituzionali a prezzi di favore, ingorghi del traffico, chiusure di vie…
La sensazione è quella di un sistema che non si intreccia più con la città di Milano, non si alimenta più delle sue capacità e dei suoi talenti, ma si limita a presidiarne ogni luogo interessante e a consumarne le migliori energie. Dal canto suo, la città non sembra comprendere queste nuove dinamiche e resta sospesa tra i fasti del passato che crede ancora vivi o perlomeno rianimabili e la paura di perdere un giro d’affari fondamentale nell’economia urbana almeno dalla fine degli anni 70. Così si lascia fare e ci si accontenta di chiedere briciole per finanziare qualche mostra irrilevante e per allestire l’albero di Natale in Piazza del Duomo.