Nel 2023 tra i fenomeni globali che possiamo vantare di cavalcare con energia e creatività c’è la restituzione dell’università al suo ambito storico: un privilegio per pochi. Tra numeri chiusi, rette considerevoli e costi proibitivi per il mantenimento fuori sede, all’università ormai ci possono andare proprio in pochi. Il fenomeno non sembra preoccupare più di tanto nessuno e anzi si configura come un’interessante opportunità per fondi immobiliari e speculatori a caccia di nuovi mercati.
Mentre in tutta Italia gli studenti protestano per il caro affitti e tragicamente rinunciano a iscriversi all’università lontano da casa o mollano carriere già intraprese per tornare a dormire con mamma e papà, si inaugurano ovunque studentati dalle tariffe proibitive. La residenza universitaria per i figli di famiglie facoltose è un grande business. Come ha raccontato Charlotte Matteini nel pezzo “Milano, cresce il business degli studentati per ricchi” apparso su ilfattoquotidiano.it: “Una stanza singola da 27 metri quadrati con cucinino e bagno privato annessi costa 1.300 euro al mese, 650 euro un posto letto in una stanza doppia da 26 mq, da dividere con un coinquilino, 900 euro mensili una camera en suite singola da 17,5 mq.
A proporre queste tariffe sono gli studentati Aparto Ripamonti e Giovenale del gruppo Hines, recentemente inaugurati a Milano… Le tariffe sono all inclusive e comprendono utenze e servizi comuni come palestra, aule studio e aule cinema, ma non la lavanderia, che è un extra da pagare a parte”. I numeri sono dalla parte degli speculatori. Secondo il rapporto “Lo student housing tra Pnrr e mercato” presentato la scorsa primavera da Scenari Immobiliari e Camplus, in Italia servono almeno 130mila posti letto per gli studenti non residenti. A oggi i posti letto offerti ai fuori sede (che sono il 40% degli iscritti totali) è intorno al 10,5%, di cui l’8,1% è assicurato dagli enti preposti e il 2,4 dai privati. Siamo a circa la metà di quel 20% che rappresenta la media europea. Ovvio che cresca l’interesse per questo mercato e infatti nel 2022 in Italia sono stati fatti investimenti per 200 milioni di euro (12,4 miliardi a livello europeo).
Ma se nelle città italiane si lascia che siano gli speculatori immobiliari a decidere chi abbia o meno il diritto di studiare, negli Stati Uniti le cose non vanno molto meglio. Dopo la decisione della Corte Suprema dello scorso giugno di superare l’Affirmative Action per l’iscrizione all’università, il dibattito è aperto. L’Affirmative action, azione positiva, è una sorta di discriminazione al contrario per promuovere la presenza di soggetti deboli in determinati contesti. Nel caso delle università si trattava di considerare l’etnia come fattore determinante di ammissione, soprattutto per afroamericani, ispanici e asiatici. Nel mirino della Corte Suprema erano finiti i piani di ammissione protetti delle università di Harvard e della North Carolina, definiti “sfuggenti”, “opachi”, “imponderabili”.
Ma la verità è che questa decisione potrebbe aprire la strada a criteri ancora più soggettivi e misteriosi. Come ha raccontato il New York Times, in futuro i criteri oggettivi come i test d’ingresso o le votazioni conseguite potrebbero diventare molto meno rilevanti a scapito di fattori come le qualità personali, raccontate attraverso lettere di presentazione (raccomandazione?) e borse di studio. E infatti l’Ufficio dei diritti civili del Dipartimento dell’educazione ha aperto un’inchiesta proprio per valutare i criteri di ammissione dell’università di Harvard che appaiono nettamente favorevoli alle famiglie degli ex studenti o di chi dona soldi, in violazione del titolo VI della legge sui diritti civili del 1964.
Come aveva detto il Presidente Biden commentando la decisione della Corte Suprema, “si rischia di estendere i privilegi invece che le opportunità”. L’ironia, in tutta questa triste vicenda, sta nel fatto che già nel 2017 uno studio svolto dal centro ricerche Opportunity Insights con sede nell’università di Harvard aveva dimostrato la paurosa condizione elitaria delle università americane. L’analisi aveva evidenziato che in 38 università Usa, comprese cinque della Ivy League – Dartmouth, Princeton, Yale, Penn e Brown – c’erano più studenti provenienti da quell’uno per cento della popolazione che rappresenta il vertice della piramide dei redditi che studenti provenienti dalla base di quella stessa piramide che rappresenta il 60% della popolazione americana. Considerato che lo studio si intitolava “Diversifying America’s Leaders: The Role of College Admissions” (Diversificare i leader americani: il ruolo delle ammissioni al college), viene da riflettere sul reale stato di quella che si considera la prima democrazia del mondo e la patria delle opportunità.
Il fenomeno dilaga. L’università per pochi piace a molti. A troppi. Nemmeno la pandemia è servita a spalancare le porte delle facoltà di medicina. In Italia come in Svizzera o in Gran Bretagna. Il numero chiuso piace molto e sempre di più. Non resta che sperare nei Caraibi ormai. L’Università delle Indie Occidentali con sede al Cave Hill Campus di Barbados offre straordinarie opportunità agli studenti cittadini dei paesi a cui fa capo l’istituto. I governi di Barbados, Giamaica e Trinidad & Tobago attraverso appositi programmi coprono ai loro concittadini i costi economici degli anni di studio e le tasse di iscrizione. Ma ci sono anche sconti e agevolazioni per studenti stranieri.