SE TRAMONTA
ANCHE IL CO-WORKING

Alla fine del 2019, con il solito entusiasmo del neofita che accompagna l’annuncio di ogni novità di sapore internazionale, Milano accoglieva lo sbarco di WeWork, colosso americano degli spazi di lavoro condivisi destinati a comunità tecnologiche, imprenditori, liberi professionisti, startup, piccole e grandi imprese. “WeWork debutta a Milano: il 2 dicembre l’apertura degli uffici di via San Marco”, titolava il Corriere della Sera. E ancora più clamorosamente qualche mese dopo Milano Finanza scriveva: “Wework, il leader mondiale per spazi di lavoro flessibili, inaugura questa settimana il suo nuovo building a Milano, Via Vittor Pisani 15. Questa è la terza sede che WeWork apre in nove mesi nella città italiana. Con l’inaugurazione del 1 ottobre, Via Vittor Pisani 15 è il primo edificio dell’area Porta Nuova di Milano. […] Aprire un nuovo edificio in quest’area che rappresenta il nuovo volto internazionale di Milano è stata una scelta ovvia per WeWork”.

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La retorica del lavoro intelligente – lontano dalle modalità tradizionali ripetitive e invece tutto proiettato verso la creatività e l’innovazione, per questo bisognoso di spazi adeguati, belli, colorati e supertecnologici – a Milano era al suo apice. Come si usava dire (e ripetere fino allo sfinimento), la pandemia avrebbe cambiato le nostre vite e soprattutto il lavoro non sarebbe più stato quello di prima. Figuriamoci gli uffici.

Lo scorso 6 novembre però WeWork ha annunciato di aver chiesto l’accesso alle tutele previste dal Chapter 11, la principale legge fallimentare degli Stati Uniti. Tradotto in parole semplici, significa che ha dichiarato bancarotta. Lo ha fatto solo negli USA e in Canada, ma la domanda è legittima. Cosa resterà della società nata nel 2010 a New York City, della gestione di circa 930mila metri quadrati di spazi per uffici, dei suoi oltre 5.000 dipendenti in più di 280 sedi distribuite in 77 città e in 23 paesi? E in Italia? Che ne sarà dei prestigiosi e innovativi coworking milanesi?

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La crisi di WeWork non è stata improvvisa. Come ha scritto il Sole24Ore: “La bancarotta arriva dopo anni di difficoltà finanziarie evidenti, iniziate probabilmente nel 2019”. Nonostante un cambio dei vertici, l’arrivo di dirigenti più esperti e un’imponente ristrutturazione del debito all’inizio di quest’anno, WeWork non ce l’ha fatta. Le cause sono da ricercare nelle dinamiche del mercato immobiliare, questo sì stravolto dalla pandemia. Il Covid 19 in tutto il mondo ha svuotato gli uffici e fatto impennare lo smart working. Il numero di edifici a uso ufficio ormai deserti, soprattutto in zone centrali e assai care, ha abbassato i prezzi, i tassi si sono invece alzati e competere su un mercato di questo tipo diventa davvero difficile. Il problema non è solo di WeWork, molte altre realtà del settore sono cadute in disgrazia. Come Knotel, altro colosso del settore con sede a New York, anche questo in bancarotta.

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Tuttavia WeWork, il giorno dopo l’annuncio del fallimento, come riportato dal Sole24Ore si è affrettata a far sapere: “Questo processo (di riorganizzazione, ndr) non include le attività di WeWork in Italia, che opereranno come al solito. In tutto il mondo continuiamo ad adottare misure proattive per rafforzare la nostra azienda, compreso il ridimensionamento del nostro patrimonio immobiliare. WeWork è qui per restare e abbiamo intenzione di rimanere nella maggior parte dei mercati anche in futuro. Il nostro focus restano i nostri membri e il continuare a garantire un’offerta di prodotti e spazi di prim’ordine per soddisfare le loro esigenze lavorative, in continua evoluzione».

Forse. Ma a Milano la situazione potrebbe essere pure peggiore dal momento che il coworking si era già manifestato in città (e nell’area metropolitana) come il piano B di un buon numero di hub dell’innovazione mai decollati. Molti degli spazi multifuzionali in teoria dedicati all’innovazione, alla creatività e alla cultura – dall’arte all’alta cucina – si erano infatti subito riciclati in semplici ambienti coworking per poter sopravvivere e non restare vuoti. Ora all’incapacità di incrociare la reale domanda del mercato e di fare un business plan credibile si aggiunge l’ascesa dello smart working.

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Se ne è accorto anche il Comune di Milano che già nel maggio del 2021 ha reso pubblici gli esiti di una ricerca condotta con il Politecnico di Milano, l’Università Cattolica e l’agenzia di community design Collaboriamo, dal titolo più che mai significativo: “Coworking a Milano. Dalla pandemia alla città a 15 minuti”. Un modo per sottolineare come ci sia davvero bisogno del coworking. Nella ricerca infatti si legge: “Gli studi dimostrano che la casa non è sempre considerata il luogo ideale dove lavorare. I lavoratori lamentano: tecnologia non adeguata (29%), senso di isolamento (29%), difficoltà nel bilanciamento vita privata-lavoro (27%) e sensazione di essere sempre connesso (26%) (Osservatorio Smart Working, 2020). In questo contesto, i nuovi luoghi del lavoro (in primis, gli spazi di coworking) rappresentano una alternativa per i lavoratori perché offrono servizi di supporto agli individui e alle organizzazioni che accolgono; sono pensati per la condivisione e gestiti con attenzione al benessere e alla salute dei professionisti che ospitano; offrono spazi flessibili; sono dispersi sul territorio e più accessibili per chi vive lontano dalla sede aziendale”.

Tutto vero. E forse il punto cruciale della questione è proprio questo. Convincere le aziende a riconoscere la possibilità di sistemarsi in un confortevole e super attrezzato coworking vicino a casa, ma certamente non a spese del lavoratore. E non solo a Milan

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