Il 7 dicembre, giorno in cui Milano festeggia il patrono Sant’Ambrogio, da anni succedono due cose insieme: la consegna ai cittadini meritevoli delle massime onorificenze della città, gli Ambrogini d’oro, e la Prima della Scala, apertura ufficiale della stagione operistica del tempio mondiale della lirica. Quest’anno al coro di entusiasmo che ha accompagnato la consegna dell’Ambrogino al comico Andrea Pucci e a quello dei crociati e pellegrini del Don Carlo di Verdi si è aggiunto il coro del dolore e del rimpianto per la Milano che non c’è più.
Giornali, radio e tv hanno dato grande spazio all’indignazione diffusa (soprattutto via social) per l’assegnazione degli Ambrogini d’oro a personaggi di dubbio valore e per una Prima della Scala non all’altezza della fama del teatro e per di più frequentata da un pubblico non adeguato al prestigio della serata, a cominciare dagli esponenti del governo. Del malumore diffuso si è fatto carico in prima persona il sindaco Sala rifiutandosi di tenere il proprio discorso alla città alla consegna degli Ambrogini d’oro e impegnandosi in un’inedita fuga dal palco reale della Scala verso la platea al seguito della senatrice Segre, ma a sua volta inseguito con prontezza dal presidente del senato La Russa che di fatto ha provocato il repentino rimbalzo di tutti nel posto d’onore che da protocollo devono occupare.
Si fatica a comprendere la ragione di tanto sdegno. I milanesi in realtà lo sanno bene che la Prima della Scala non è mai stata un evento mondano di grande respiro così come si sono abituati da tempo a leggere nomi improbabili tra i premiati dal Sindaco a Sant’Ambreus. Degli Ambrogini poi conoscono bene anche i motivi del decadimento. Da quando sono competenza del Consiglio comunale sono diventati un gioco di scambio tra i partiti: “Tu nomina i tuoi amici che io nomino i miei”. L’alta onorificenza quest’anno è toccata al comico Andrea Pucci, noto per le battute sessiste e omofobe, ma in altri anni sono stati premiati anche molti professionisti per aver semplicemente fatto il proprio mestiere, dalle food blogger agli organizzatori di concerti, fino a una giornalista come Michela Proietti per aver scritto il manuale “La milanese” che in ben 256 pagine ci mostra la differenza fondamentale tra andare a Santa o Forte. Persino l’ex sindaco Gabriele Albertini, che ha guidato la città tra il 1997 e il 2006, intervistato lo scorso 18 novembre da Repubblica proprio sulla sua decisione di concedere la competenza sull’assegnazione degli Ambrogini al Consiglio comunale ha dichiarato: “Ammetto il mio errore, che è stato quello di non contrastare l’allora presidente del Consiglio comunale Massimo De Carolis anche su questa vicenda. Lui all’epoca voleva addirittura che il direttore generale rispondesse al Consiglio e non al sindaco”.
Sulla Scala poi, se il giudizio sull’opera messa in scena può scatenare addetti ai lavori e appassionati fino a mettere in discussione l’operato di un sovrintendente e del suo direttore d’orchestra e movimentare di conseguenza lo scacchiere dei teatri e delle orchestre almeno europee, la cronaca mondana della Prima è materia da giornali locali, al massimo nazionali. Ciò che oggi si descrive come l’appuntamento classico della grande borghesia milanese, alla borghesia non è mai molto interessata. Le famiglie avevano i palchi in abbonamento e a Sant’Ambrogio non ci pensavano nemmeno di andare. Si sono sempre visti invece attrici, attori, cantanti d’opera, gente di spettacolo, imprenditori in carriera (una volta i cumenda, poi gli stilisti, ora gli influencer). Certo un tempo erano Valentina Cortese e Renata Tebaldi, poi è toccato a Valeria Marini o Daniela Rosati (la moglie di Adriano Galliani), ora a Dvora Ancona, medico estetico che si distingue per le mises improbabili (nel 2021 indossò un gigantesco abito fatto da 100 strati di tulle e illuminato da 1000 luci led).
Il grande rimpianto diffuso non è per una città che non c’è più, è per una città che non c’è mai stata. In compenso, del progressivo deterioramento delle buone abitudini che hanno contribuito a fare di Milano la capitale economica e morale del paese non si lamenta nessuno. Milano era una città dove l’ultimo degli impiegati, maschio o femmina che fosse, vestiva come il primo dei dirigenti. Una città dove la forma era sostanza. Oggi dirigenti e direttori, maschi o femmine che siano, sono mediamente agghindati (e sfigurati) come tiktoker col filtro. A Milano non si parlava a voce alta in pubblico, soprattutto al ristorante. Anche i tanti lavoratori arrivati dal sud imparavano presto i modi milanesi a suon di “Vusa no, Africa” (non urlare, africano). Nessun bambino avrebbe mai potuto calpestare i sedili di autobus, tram e metropolitane senza prendere una sgridata o uno scappellotto da mamma e papà. Nessuno studente avrebbe tenuto lo zaino in spalla ondeggiando sui mezzi pubblici senza essere rimesso al suo posto da tutti gli altri passeggeri. Figuriamoci se non avesse ceduto il sedile a persone fragili o anziane o avesse provato a mangiare cibi untissimi e puzzolenti sbriciolando per terra e sui vicini di posto.
Ma del resto nella laica e accogliente Milano nessun sindaco avrebbe mai rinunciato a tenere il proprio discorso alla città nel giorno di Sant’Ambrogio lasciando che a risuonare fossero soltanto le parole dell’arcivescovo durante l’omelia della messa pontificale nella basilica del patrono.