Ora che è iniziato il coro delle lamentele di Milano, tutti si sentono liberi di parlare male della città, anche i giornalisti più fedeli alla linea del sindaco Sala che fino a ieri hanno negato pure l’evidenza. L’ultimo tema oggetto del dibattito pubblico è la gentrificazione della città. Il 23 dicembre Repubblica Milano titolava: “Negli ultimi 5 anni da Milano sono andate via 204mila persone, ma ne sono arrivate 240mila. I dati dell’anagrafe”. E nel sommario precisava: “Chi lascia la città lo fa soprattutto a causa del carovita e in maggioranza sceglie di spostarsi nell’hinterland. Tra i neoresidenti un quarto è straniero”.
In effetti gli aumenti dei prezzi sono notevoli in tutti i settori, a cominciare dalla casa che proprio in questi ultimi cinque anni ha visto un aumento medio del 43,2%, con il rialzo medio nelle zone periferiche al 50,3% e punte del 59,2 in zona Fiera San Siro. Lo dice l’analisi dell’Ufficio studi del Gruppo Tecnocasa che fa notare anche la differenza più clamorosa: la media delle altre metropoli segna un più 8,8%. Secondo lo studio sono due i fattori che hanno spinto a questa straordinaria crescita: l’arrivo di nuovi tratti di metropolitana e i lavori di riqualificazione e recupero di ampie aree dismesse. Non solo, i prezzi elevati delle zone centrali e semicentrali negli anni hanno spinto gli acquisti verso le zone periferiche, determinando il clamoroso rialzo dei valori.
Però colpisce che chi di mestiere si occupa di cronaca e dovrebbe raccontare i cambiamenti quotidiani si accorga di un fenomeno con cinque anni di ritardo (un ciclo economico completo). E colpisce soprattutto il tono sorpreso di fronte alla dimensione e alla natura della vicenda, come se la gentrificazione fosse qualcosa di inedito e straordinariamente innovativo.
Su linkiesta.it, a onore del vero già due anni fa, è comparso il pezzo “La gentrificazione a Milano e i dieci anni che hanno trasformato il quartiere Isola” a firma Vincenzo Latronico che in prima persona raccontava la sua esperienza. Ecco l’attacco: “Io sono arrivato in Isola nel 2006, a ventun anni, trasferendomi dal quartiere residenziale in cui abitavo con la mia famiglia. Se cʼera una pubblicistica dellʼIsola (e in effetti cʼera già, ma ancora molto sottovoce rispetto a quello che si sarebbe vista in seguito – il 'quartierino', le 'botteghe', la 'classe creativa') non la conoscevo: ci aveva abitato una mia ragazza, e io stesso, in seguito, ci ero passato ogni tanto in cerca di serate remote. Volendo uscire da casa dei miei avevo guardato gli annunci sulla bacheca della biblioteca universitaria, e chiamato per la doppia che costava di meno; al numero, un fisso, non aveva risposto nessuno, e non avevo lasciato messaggi in segreteria. Ma uno dei miei futuri coinquilini aspettava il responso da un colloquio di lavoro, e trovando una chiamata sconosciuta mi ha ricontattato. Ho ottenuto la stanza così.”
“Raccontare nel 2022 questa storia del 2006 mi dà la sensazione di parlare di un mondo lontano. Lo è: i suoi elementi – gli annunci cartacei sulle bacheche, la segreteria del telefono fisso, con allʼinterno unʼaudiocassetta in miniatura – la mettono in continuità coi quarantʼanni precedenti più che coi dieci che sarebbero seguiti, che di tutto ciò avrebbero visto la sostanziale scomparsa”.
Come se il quartiere Isola nel 2006 fosse lo storico insediamento di abitazioni destinate agli operai che lavoravano nelle fabbriche di zona (il Tecnomasio Italiano Brown Boveri, la Pirelli, l’Elvetica) o l’originario borgo rurale ottocentesco che si sviluppava in modo lineare oltre Porta Comasina. La gentrificazione trasforma l’Isola da molti decenni come trasforma ogni area urbana del mondo. Se ne parla criticamente almeno dagli anni '50 e nel 1964 è stata la sociologa inglese Ruth Glass a chiamare con questo nome il complesso intreccio di fattori che porta al cambiamento sociale ed economico di un’area urbana che da proletaria diventa borghese (gentrification significa borghesizzazione) grazie all’acquisto degli immobili, la loro ristrutturazione e rivalutazione da parte di soggetti maggiormente benestanti.
La cosa interessante è che a Milano i maggiori critici del fenomeno sono spesso coloro che un ruolo lo giocano in prima persona nell’espulsione dei ceti meno abbienti dalla città. E non si tratta degli intellettuali e dei critici che difendono i diritti del proletariato sorseggiando vini biologici da 9 euro a bicchiere seduti in ex osterie della periferia trasformate in caffè letterari o birrifici artigianali. Si tratta di un’amministrazione comunale ininterrottamente nelle mani del centrosinistra dal 2011 che da allora si entusiasma per ogni fenomeno contemporaneo che sembra spingere verso il futuro – i grattacieli, lo smart, il green, gli spazi multifunzionali, i parchi tecnologici, il coworking, gli hub creativi, la città a 15 minuti – e si rifiuta di leggere i fenomeni preoccupanti più volte denunciati in questi anni da molte voci come il caro affitti, la perdita del potere d’acquisto, la difficoltà a trovare un lavoro stabile, la sicurezza, il degrado ambientale e l’inquinamento.
Come ha detto Giovani Semi, docente di sociologia urbana presso l’Università di Torino in occasione della presentazione del suo libro, “Bdsg. Breve manuale per una gentrificazione carina” (Einaudi, 2022 ma ora ripubblicato da Mimesis): “… la democrazia, la bellezza, lo smart, il green etc sono un insieme di descrittori per definizione post-politici perché nessuno si può opporre a una città in cui a 15 minuti hai tutti i servizi di cui hai bisogno, così come nessuno si oppone a una città più bella, più tecnologicamente avanzata o sostenibile o partecipata”. Il fatto è che “questi descrittori servono a coprire una serie di politiche che vanno in direzione completamente opposta. Quando ti dico che faccio la città dei 15 minuti è perché sto pensando a aree residenziali ricche dove cercherò di decentrare attività e servizi, ma nel resto della città non applico la stessa logica. E infatti gli impianti sportivi, le scuole, la mobilità pubblica, collassano. Se andiamo a vedere da dove iniziano queste politiche rileviamo che partono sempre dal centro, per poi arrivare, chissà quando, in periferia. L’impressione è che questa galassia di descrittori post-politici serva solamente a coprire ideologicamente delle operazioni neoliberali. La domanda che dobbiamo porci è una: che cosa vogliamo fare quando interveniamo sul corpo urbano? Vogliamo abbellire la città o vogliamo ridurre le diseguaglianze? Questa credo sia l’unica domanda da fare. Poi possiamo discutere di come rendere la città più bella una volta che è diventata più giusta, e dal mio punto di vista se è più giusta è anche più bella. Ma la verità è che gran parte di questa retorica è solo rivolta a una città più bella”.
Se invece ci volessimo occupare di una città più giusta, ecco la vera emergenza: i dati diffusi dagli Istituti previdenziali indicano che nella ricca ed efficiente Lombardia su le oltre 700 mila assunzioni nel primo semestre 2023, circa il 50% è per un lavoro precario. Aggiungiamo pure l’inflazione che erode i salari e l’aumento dei costi per le famiglie (asili, bollette, mutui, la spesa…) e immaginiamoci come può essere bella, green e smart la vita di un qualsiasi lavoratore a Milano.