Il fritto è improvvisamente tornato sulle nostre tavole. È nel menu di molti ristoranti e viene interpretato dagli chef più innovativi. I suoi segreti sono svelati sulle riviste di cucina, sui canali tv dedicati al cibo e dai foodblogger. Impazza nei food-truck, i camioncini del cibo di strada che ora sono tornati un po’ ovunque e in versione sofisticata. Escono libri e ricettari sull’argomento. Aprono friggitorie orgogliose di definirsi tali. Al supermercato è ricomparso persino lo strutto e il burro chiarificato va per la maggiore.
Di colpo ci siamo scordati ogni raccomandazione sui pericoli della frittura, sulla buona alimentazione e anche sul controllo delle calorie. Da nemico giurato, il fritto è diventato amico buono per ogni occasione. Chissà cosa direbbe il povero professor Carlo Cannella, il nutrizionista docente di scienze dell’alimentazione che imperversava in tv ed era celebre anche per la sua rigidità in materia di frittura e che alla domanda “Ma quando possiamo permetterci un fritto, una volta al mese?” rispondeva “Una volta sì, ma nella vita”.
Quando i foodblogger abbiano abbandonato i tentativi di riuscire a rendere gustosa la parmigiana fatta di melanzane alla griglia per passare a sentenziare che “se la melanzana non è fritta non è parmigiana” non è dato sapere. Quello che sappiamo con certezza è che Milano è il motore propulsore del rinnovato gusto per il fritto. Qui hanno sede le riviste specializzate, i canali tematici, i blog, molti degli editori che pubblicano libri sul tema. E qui Sorbillo ha deciso di aprire non solo le sue pizzerie napoletane, ma pure l’Antica Pizza Fritta da Zia Esterina a due passi dal Duomo. Ci danno un’idea del fenomeno le recensioni gastronomiche. Ecco cosa titola Cook, l’inserto del Corriere della Sera dedicato alla cucina: “Le 8 migliori pizze fritte da provare a Milano”. O il sito Sluurpy.it: “Le migliori 10 friggitorie di Milano”.
Fioriscono ricette per impanare e friggere persino le verdure che normalmente soccorrono gli affamati a dieta perenne perché riempiono e hanno pochissime calorie. Ha voglia il professor Giorgio Calabrese, medico nutrizionista, a provare a informare anche via youtube sui rischi della frittura, spiegando il concetto di punto di fumo, introducendo la nozione di acroleina (una sostanza tossica per il fegato che si sprigiona appunto quando l’olio raggiunge il punto di fumo) e ricordando che sì, c’è differenza tra friggere con l’olio di semi e l’olio extra vergine di oliva, ma la verità è che “uno fa molto male, l’altro fa meno male, ma sempre male fanno”.
E infatti non c’è ricetta che negli ingredienti alla voce “per friggere” non indichi l’olio di semi. Come in tutte quelle di Giusi Battaglia, foodblogger milanese di origini palermitane che sul suo sito giusinaincucina.com e dall’omonima trasmissione su FoodNetwork propone con grande successo ricette della tradizione siciliana molto spesso basate sulla frittura: dai cannoli alle melanzane, dai panzerotti alle polpette. Tutti cotti in abbondante olio di semi oppure nello strutto.
E pensare che sono passati solo otto anni da quando Milano si presentò al mondo con lo slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita” scelto per Expo 2015. Come spiegava all’inizio dell’anno successivo l’allora ministro delle politiche agricole Maurizio Martina: “La vera eredità dell’Expo di Milano è stata mettere al centro del dibattito internazionale la questione geopolitica del cibo”, e ventilava la possibilità di diventare leader mondiali delle scienze della vita, della nutrizione e della sostenibilità. Non solo, tutti allora celebravano “La Carta di Milano”, firmata in occasione di Expo 2015, impegno solenne per porre il diritto al cibo come diritto fondamentale dell’uomo e che rappresentava il contributo dell’Italia all’aggiornamento degli Obiettivi del Millennio delle Nazioni Unite per eliminare la fame nel mondo entro il 2030. Nella redazione della Carta erano stati coinvolti cittadini, istituzioni, imprese, università e associazioni chiamati a indicare modelli di sviluppo sostenibili per garantire cibo sano, sicuro e sufficiente a una popolazione mondiale in costante crescita.
Alla fine ci hanno lavorato più di cinquemila persone che hanno partecipato alle tappe del tour “Expo delle Idee” a Milano, Firenze, Pompei. È stata tradotta in 19 lingue per arrivare potenzialmente a 3,5 miliardi di persone. Parlava di diritto al cibo come diritto umano fondamentale; di lotta allo spreco alimentare e di acqua; tutela del suolo agricolo; educazione ambientale e alimentare; salvaguardia della biodiversità; contrasto al lavoro irregolare minorile; sostegno al reddito degli agricoltori. Tutti hanno potuto sottoscriverla. L’hanno firmata anche capi di stato e premi Nobel.
Quella, si diceva, sarà la strada da percorrere anche per lo sviluppo futuro della città di Milano, la seconda città agricola d’Italia a dispetto della sua fama di centro industriale e finanziario. Ne era convinto anche Beppe Sala, commissario unico di Expo 2015 poi diventato sindaco della città. Da allora in realtà a Milano abbiamo invece visto moltiplicarsi tutte le strade possibili dell’omologazione culinaria. A ondate sono sorti e tramontati sushi bar, pizzerie napoletane, pinserie romane, raviolerie cinesi, birrerie artigianali, hamburgherie, baracchini per il poké hawaiano o per i cannoli siciliani, ora le friggitorie… Un lento e inesorabile percorso di allontanamento dalla dieta mediterranea, dal cibo a chilometro zero, dalla cultura della contaminazione dei gusti e delle tradizioni per abbracciare l’omologazione, la serialità e l’industrializzazione gastronomica tipiche delle economie del turismo.
Alla fine la frittura finisce così per apparire come la vera eredità di Expo 2015. E anche per lei valgono le regole che accompagnano la città dall’esposizione universale in poi: la celebrazione di ogni cosa che suona come una novità, l’entusiasmo per tutto ciò che risulta made in Milano, la capacità di sintetizzare con un nome d’effetto anche i fenomeni più banali. E allora rassegniamoci, i finocchi passati nell’uovo, impanati e fritti sono il contorno irrinunciabile di questo ultimo inverno, ma ovviamente si chiamano “la milanese di finocchi”.