Oggi ti porto a comprare i veri sigari cubani in una fattoria di Vinales, con l'accento circonflesso sulla "n", provincia di Pinar del Rio. Costano molto meno che nei negozi di Stato - dove per aggiudicarti i più pregiati devi sborsare fino a 120 euro l'uno - e hanno un aroma, un sapore, un tepore che non solo ti allietano il palato, ma ti giuro anche lo spirito.
Quello che ho fumato io era (sottolineo era perché è durato troppo poco e lo rimpiango) un Cohiba Behike, “puro”, mi ha assicurato chi me lo ha venduto dopo una magica dimostrazione di abilità sigaraia: un Cohibe in 20 secondi, dalla foglia al prezioso cilindretto arrotolato. Poi però il sigaro deve riposare ancora tre giorni prima di essere acceso. Così Reiner me ne accende uno pronto che ha scelto accuratamente da una fila di sigari che a me in realtà sembrano diversi tra loro soltanto per le dimensioni. Invece lui, un trentenne robusto, dalla faccia gioviale e dagli stivali bianchi lucidi, erede del sapere di tre generazioni di "veguero" (che sarebbe il nome con cui a Cuba vengono definiti i coltivatori di tabacco), ci spiega tante altre distinzioni.
Io ti dico quelle che mi hanno colpito di più, anche perché se dovessi mettermi qui a raccontarti tutte le fasi (oltre 500) per arrivare a un Cohibe partendo dal seme facciamo notte e non ho nemmeno un bicchierino di rum da offrirti. Sul rum bisognerebbe aprire un capitolo a parte e sicuramente lo aprirò in una delle prossime puntate. Per ora ti dico solo che se decidi di metterti a fumare un "puro" devi accompagnarlo con il rum dopo averlo intinto appena appena nel miele delle api di terra.

Api allo stato brado che nidificano a terra e che nessuno qui si sognerebbe di allevare. "Nella foresta troviamo tutto quello che serve, miele compreso", mi spiega un giovane contadino. Per questo tutti hanno cura del luogo, di questa terra rossa come la ruggine, fertile come se fosse stata fecondata da un vulcano, di questo mondo fatto di colline dalla cima piatta e di grotte calcaree che l'Unesco nel 1999 ha inserito nel patrimonio dell'umanità da tutelare. Le colline si chiamano mogotes, sono coperte di vegetazione fitta e tutte insieme formano un paesaggio armonioso, che invita alla buona disposizione d'animo e alla meditazione sull'origine di questo nostro mondo meraviglioso.
Te ne stai lì in piedi a guardarle come imbambolato e a quel punto cominci a capire perché ci vuole un sigaro, un'ora di tempo per fumarlo, un po' di miele e un goccio di rum. A Viñales me ne hanno fatto assaggiare un tipo che penso non riuscirò più a bere in vita mia, se non tornando tra queste piantagioni. Lo ammorbidiscono con un additivo, ma non pensare che sia roba chimica: aggiungono guayaba in infusione per un certo periodo di tempo e ne esce questo liquore che infatti si chiama Guayabita del Pinar.
Non smetterei mai di berlo, anche a costo di ubriacarmi pesantemente. Volevo persino comprarne una bottiglia da portare a casa, ma costava 40 euro e avevo terminato la "divisa" (ovvero euro e dollari) e così mi tengo la voglia. E certo, anche il bel ricordo. Avevo finito il contante perché poco prima, al culmine di un entusiasmo tipico degli ex tabagisti, avevo acquistato 60 euro di sigari "puros", quelli che Reiner mi aveva arrotolato nella capanna delle dimostrazioni per i turisti, nel cuore della sua azienda.
Lo sai che ogni pianta nel corso della sua crescita deve essere controllata 150 volte? E che ciascuna piantina germogliata dal seme viene poi impiantata a mano nei campi di Vinales? E che i sigari cambiano sapore e “forza” a seconda della miscela di foglie che si usa per confezionarlo? È tutta una questione di altezza: le foglie che stanno più in basso vengono raccolte per prime, due o tre per volta, e poi nell’arco di un mese gradualmente si raccolgono quelle più in alto in modo che la pianta possa continuare a svilupparsi. Il mix tra le foglie raccolte ad altezze diverse dà origine a sigari più o meno forti, dai Montecristo di Che Guevara ai Cohibe amati da Hemingway, passando per i Romeo y Julieta preferiti da Churchill.

La raccolta delle foglie per produrre queste icone del fumo attivo avviene rigorosamente a mano, pianta per pianta. Nei campi di tabacco, mi dicono con orgoglio i contadini, non si impiegano mezzi meccanici, sono ammessi solo gli animali. Non so se sia vero, ma per quel poco che ho visto c’è da crederci: persino per le strade polverose del borgo di Vinales passano più carretti trainati da piccoli cavalli snelli che veicoli dotati di cavalli vapore. Sono gli stessi carretti con le ruote da automobili che vengono usati per sballottare i turisti da una fattoria all’altra.
In realtà ti ho parlato dei sigari per portarti su un altro sentiero. Perché la storia della produzione dei sigari è un po’ come quella dei mogotes, le colline del paesaggio di cui ti dicevo prima. Fuori sembrano panettoni al pistacchio, ma dentro sono vuote, divorate da millenni di gocce d’acqua calcarea sospinte dalla forza di gravità a creare opere d’arte nel buio delle grotte carsiche.

Ora devo divagare ancora. Ma mi limito a dirti che se hai voglia di farti una mezzoretta in coda per entrare nella grotta turistica di Cueva del Indio può essere un’esperienza: Caronte ti porta a spasso per il fiume sotterraneo con una barchetta da 14 posti a sedere, spinta da un piccolo motore Yamaha 4 cavalli le cui emissioni di idrocarburi combusti rendono vagamente l’idea di certe descrizioni dantesche. Da una divagazione all’altra mi corre l’obbligo di indicarti anche il Mural de la Preistoria, che si trova a pochi minuti di pullman dalla grotta. È stato realizzato sulla parete naturale del Mogote Pita, è lungo 120 metri ed è pertanto il dipinto all’aria aperta più grande del mondo. Raffigura l’evoluzione del mondo, dai dinosauri all’avvento dell’uomo ed è un’idea realizzata nel 1961 da Leovigildo González Morillo, il quale ha applicato le tecniche che gli aveva insegnato Diego Rivera, cioè il grande muralista messicano marito di Frida Kahlo.

Leovigildo ha utilizzato solo tinte naturali, che sono vivacissime anche se le mie foto non rendono l’idea: sono riuscito a scattarne solo un paio sotto la pioggia fitta di un tiepido temporale tropicale. Ti aggiungo che per finire l’opera ci sono voluti quattro anni e che hanno collaborato alla sua realizzazione anche i contadini della zona. E torno ai sigari, finalmente, o meglio a una storia di sigari che mi pare interessante per i suoi risvolti sociali più significativi e per spiegare come questo popolo resiste e sorride, nonostante tutto.

Un veguero mi ha raccontato che lui in realtà è laureato in lingue e potrebbe insegnare inglese e francese nelle scuole. Però gli conviene coltivare tabacco nella terra dove prima di lui hanno sudato il nonno e il padre. Perché è vero che il 90 per cento del raccolto viene consegnato allo Stato, ma è anche vero che con quel 10 per cento di piante che restano a chi le coltiva si guadagna infinitamente di più che a insegnare lingue nelle scuole: lo stipendio mensile di un insegnante è pari 30 euro. E io, come ti spiegavo prima, ne ho pagati 60 per otto sigari. “Sì certo, a me piace insegnare – conclude il mio interlocutore – però…”.
(4. continua)