CUBA E IL CHE
LA RIVOLUZIONE
E UN MAUSOLEO
MISTICO

Si dice che a volte un'immagine valga più di tante parole. Beh, questa invece è la volta che sei costretto ad accontentarti delle parole, che spero non siano troppe. Perché ti devo in qualche modo descrivere un posto nel quale, salvo rare eccezioni, non si possono scattare fotografie, regola che sembra incredibile nell'era dello smartphone. Però si può capire: qui c’è di mezzo una questione di rispetto verso un eroe della patria e anche di salvaguardia della quiete mistica di un luogo che a me quando sono entrato, nel silenzio assoluto come raccomandato dai suoi custodi all’ingresso, ha ricordato molto la basilica Inferiore di San Francesco d’Assisi prima del terremoto. Prima cioè della sua trasformazione, secondo me troppo radicale, soprattutto troppo luminosa. Tutta quella luce ha guastato l’atmosfera. Ora è vero che gli affreschi di Giotto e Cimabue si vedono meglio, però ci siamo persi qualcosa: lo spirito e la spiritualità del luogo.

Invece qui a Cuba, dopo essere sceso nella cripta che ospita le spoglie del comandante Ernesto Guevara de la Serna, El Che, ho ritrovato quelle sensazioni che avevo smarrito tra i faretti accecanti sotto le volte della chiesa inferiore di San Francesco ad Assisi.

Anche qui c’è qualcosa di religioso. La cripta è il nucleo intimo del mausoleo che Fidel Castro ha voluto innalzare per l’amico a Santa Clara, la città in cui, proprio grazie a un’intuizione del Che, la rivoluzione trovò lo slancio per abbattere il governo di Fulgencio Batista. A Santa Clara, la battaglia è celebrata con il monumento del Tren Blindado, che ricorda l’episodio chiave della vittoria castrista contro le truppe governative. La curiosità è che per far deragliare il treno pieno di armi e di soldati dell’esercito regolare la pattuglia di guerriglieri guidata dal Che utilizzò un americanissimo bulldozer Caterpillar che fa parte pure lui, insieme con vecchi vagoni e binari arrugginiti, della singolare composizione artistica creata dallo scultore José Dalarra.

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(Il cippo con la lettera d'addio del Che a Fidel Castro)

Per tornare al mausoleo, ti devo ricordare che i resti mortali del Che sono stati recuperati soltanto nel 1997, al termine di una meticolosa indagine, storica ma soprattutto scientifica, che si è protratta per trent’anni. Il Comandante era stato ucciso in Bolivia vicino a Vallegrande il 9 ottobre 1967, il giorno dopo essere stato ferito alle gambe dai Rangers dell’esercito nel Quebrada (cioè canalone) de Churo. Da questo punto della vicenda in poi si entra nelle nebbie delle ricostruzioni: tante versioni, tutte difficili da dimostrare o da confutare. Provo a metterne insieme qualcuna, non certo per avvicinarmi alla verità, che trovo quanto mai sfuggente, ma per darti un’idea di quanto sia complicato farlo.


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(Il monumento del Tren Blindado a Santa Clara)


Di certo si sa che l’8 ottobre Che Guevara e un pugno di fedelissimi si scontrano con l’esercito boliviano e hanno la peggio. Il Comandante, già ferito, avrebbe detto ai Rangers: "Non sparate. Sono Che Guevara. Posso esservi più utile da vivo che da morto". E da qui in poi la ricostruzione è tutta affidata ai condizionali. Secondo una versione più romanzata, il sergente Mario Teràn che aveva ricevuto per estrazione a sorte l’incarico di uccidere il Che dopo l’ordine arrivato da La Paz, pare avesse esitato a lungo e si fosse addirittura ubriacato prima di trovare il coraggio di sparare una raffica di mitra all’illustre prigioniero. Secondo un’altra rievocazione, in parte confermata all’epoca anche dal New York Times, Guevara fu ucciso da un capitano dei rangers boliviani su ordine diretto del governo boliviano con un colpo di pistola al cuore.

Poi c’è la versione dell’agente della Cia Felìx Rodriguez, infiltrato a Cuba, che aveva partecipato anche in Bolivia alla caccia al Che. Lui raccontò durante un’intervista, nel 2017, che Guevara fu ucciso da diversi colpi d'arma da fuoco alle gambe, sia per agevolare l'identificazione post mortem, sia per dare ad intendere che fosse morto in seguito a ferite subite in combattimento, mascherando così la sua esecuzione. In ogni caso, pare accertato che la notizia della morte di Guevara fosse stata divulgata dal capo dell’esecutivo boliviano René Barrientos già alcune ore prima dell’esecuzione. La salma del Che fu poi trasportata senza troppi riguardi in elicottero all’ospedale di Vallegrande e mostrata alla stampa. Un solo fotografo documentò l’uccisione del rivoluzionario argentino: Marc Hutten, corrispondente dell’agenzia France Presse. Oltre alla foto che tutti conoscono - in cui Che Guevara compare con gli occhi aperti e una specie di sorriso, tanto da sembrare ancora vivo - nel 2014 ne sono recuperate altre otto, inedite, custodite per decenni in una scatola di sigari. Le ha ritrovate Imanol Arteaga, nipote di un sacerdote spagnolo missionario in Bolivia, al quale il fotografo aveva affidato le immagini temendo di non riuscire a portarle fuori dal Paese


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(Il monumento del Caterpillar)

Per trent’anni il luogo della sepoltura di Guevara è stato tenuto segreto. Soltanto il 28 giugno 1997 i suoi resti vengono rintracciati in una fossa comune vicino alla pista di volo a Vallegrande e identificati senza alcun dubbio dagli scienziati incaricati da Fidel. Pochi giorni dopo, le spoglie del Che vengono trasferite a Cuba e poi tumulate, il 17 ottobre, nel mausoleo che Fidel Castro aveva dedicato all’amico. Nella cripta, intorno al piccolo loculo del Che facilmente riconoscibile per un bassorilievo che riproduce con estrema precisione il suo ritratto fotografico più iconico (quello realizzato da Alberto Korda e reso famoso nel mondo da Giangiacomo Feltrinelli), riposano i resti di 29 suoi compagni, tra cui sei guerriglieri morti combattendo con lui nell’ultima battaglia in Bolivia.

Nella cripta ci si può trattenere poco, ma la sensazione di cui ti parlavo all’inizio è immediata: sarà la penombra o magari la fiamma eterna che sfavilla con regolarità nell’aria ferma e fresca dell’ambiente. Quando esci, un piccolo museo ti racconta il Che da vivo: ci sono i suoi oggetti, lettere, documenti, libri, la sua laurea in medicina, storie, imprese, fotografie di amici e familiari, persino alcune delle armi che lo hanno accompagnato nell’epopea. Qui il Comandante è celebrato da vivo, non c’è spazio per quella foto che lo ritrae come il Cristo Morto di Mantegna, divenuta addirittura immagine di culto religioso in certe zone della Bolivia.


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(La piazza del mausoleo)

Dopo la visita al museo, puoi apprezzare il memoriale in tutta la sua grandiosità. La sua costruzione iniziò nel 1982 e ci sono voluti sei anni per completare l’opera, alla quale hanno partecipato con 400mila ore di lavoro volontario anche gli abitanti di Santa Clara. Il progetto è degli architetti Jorge Cao Campos, Blanca Hernandez, José Ramò Linares e dello scultore José Delarra. Al centro di una grande quinta marmorea svetta la statua del Che in mimetica, col fucile in mano e l’inseparabile basco con la stella. La scultura in bronzo, inaugurata in occasione del ventennale della morte del Che, è alta 6,7 metri, ma sembra molto più imponente. È rivolta a 190 gradi verso sud: vuole rappresentare il sogno di Guevara di vedere il Sudamerica libero e unito. Poco sotto il monumento, scolpito a grandi lettere nella pietra, si legge: "Hasta la Victoria Siempre". Emozionante, anche se non sei mai stato un socialista rivoluzionario.


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(La piazza del mausoleo)

A destra del monumento, Incastonato nella pietra a grandi caratteri di bronzo, si legge infine il testo della lettera di addio scritta da Guevara al “fratello Fidel” poco prima di partire verso la grande utopia che si dissolverà nell’ultimo atto della sua vita. “Altre sierras nel mondo reclamano il contributo delle mie modeste forze. Io posso fare quello che a te è negato per le responsabilità che hai alla testa di Cuba, ed è arrivata l’ora di separarci (…) Non lascio a mia moglie e ai miei figli niente di materiale, ma questo non è per me ragione di pena: mi rallegro che sia così; non chiedo niente per loro perché lo Stato gli darà il necessario per vivere e per educarsi...”.

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Più in là due ragazze si fanno un selfie ai piedi della statua del Comandante. Poi una di loro affida lo smartphone al soldato di guardia per una foto vecchia maniera. Il telefonino simula il suono dello scatto di un otturatore e poi lascia il campo a sorrisi e ringraziamenti. Perché qui a Cuba il desiderio di socializzare non è (ancora) affidato agli emoji.


(5. continua)

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