Gli elementi in ferro sviluppano una geometria ripetuta centinaia di volte, che sembra creare un vortice verso il cielo azzurro. Dalla cima del vortice un braccio meccanico si slancia all’orizzonte. Non si tratta di una moschea con le classiche geometrie islamiche, ma della gru che i restauratori ceceni stanno utilizzando per restaurare e in parte ricostruire la moschea degli Omayyadi di Aleppo.
Anche tutto attorno fervono i lavori per ripavimentare la via che porta al luogo di culto. Ma questo segno di speranza, insieme ai lavori di restauro del vecchio souq, condotti tra mille difficoltà dall’Agha Khan, sono gli unici segni di speranza che vedo ad Aleppo.
Per il resto, le macerie del centro storico, parzialmente distrutto, sono ancora tutte lì, accantonate ai lati dei resti dei palazzi, in attesa di essere ricomposte come un enorme puzzle.
Dal 2019 poco sembra essere cambiato, anzi a seguito del drammatico terremoto che ha colpito la Turchia e il Nord della Siria qualcosa è anche peggiorato. La responsabilità è in gran parte anche della comunità internazionale, che non ha attuato alcuna vera politica di salvataggio del patrimonio culturale della città.
Bisogna intanto sfatare una notizia troppo spesso ripetuta e in gran parte falsa, il mantra che Aleppo sia persa per sempre. Non è affatto vero, la città non è messa peggio di come era Sarajevo dopo la guerra. Eppure Sarajevo è stata restaurata perfettamente. Anche qui i palazzi antichi sono solo parzialmente crollati e le pietre sono rotolate a ridosso degli edifici. Sono state in gran parte accumulate ai lati, in attesa della ricostruzione.
Solo che per ora la ricostruzione la stanno facendo solo i ceceni, con la moschea degli Omayyadi e l’Agha Khan, che a detta di tutti sta facendo un ottimo lavoro restaurando il vecchio souq, tra mille problemi.
Il resto della città è più in pericolo che mai, perché essendo in gran parte case private se nessuno metterà i fondi per rimontarle per anastilosi prima o poi i privati che non hanno lasciato la città finiranno per abbattere tutto e ricostruire delle case moderne, secondo i loro gusti personali.
Servirebbe una seria riflessione sul perché la comunità internazionale stia infrangendo la regola che ha condotto alla creazione dell’Unesco e non stia investendo in massa per il salvataggio di questo patrimonio dell’umanità, usando come alibi il considerare la Siria un paese con cui non si vogliono avere rapporti politici. Non sarà condannando a morte il patrimonio storico del paese che si renderà giustizia alle vittime della guerra civile; credo che nemmeno i rifugiati sarebbero contenti di sapere che il patrimonio storico del paese potrebbe essere salvato ma nessuno se ne cura, e che i loro figli potrebbero non vedere mai la vecchia Aleppo, quando tra vent’anni torneranno magari in Siria per scoprire il paese dei padri.
Il nostro giro in centro inizia proprio dalla Moschea degli Omayyadi, i cui lavori sono segno di speranza per la città. La moschea non è ancora visitabile, ma già si vede il minareto riscostruito svettare nel cielo terso.
Camminiamo fino alla Cittadella, che pure avevo visitato nel 2019, pochi mesi dopo che il governo di Bashar el Assad riprendesse Aleppo: ora invece è chiusa per i danni del terremoto. Per fortuna sono crollate solamente alcune parti, il grosso è ancora lì. Ma va messa in sicurezza e anche qui vanno raccolte le pietre, per permettere poi di rimontarle.
L’isola pedonale tutto attorno è sempre molto attiva. Piena di venditori ambulanti, ristoranti, bar e bambini che giocano a pallone. I palazzi attorno sono invece in condizioni peggiori di come li avevo lasciati nel 2019. Anche qui il terremoto ha ampliato i danni e vi sono nuove pietre per terra, ancora da catalogare e ammonticchiare.
Nonostante tutto la città è viva, anche se molto più depressa di Damasco. Qui l’economia ancora non gira e la gente ha l’aria più malinconica. Ma nonostante tutto escono la sera, nei quartieri non distrutti dal conflitto. Non bisogna mai dimenticare che la guerra siriana è stata un conflitto di trincee all’interno delle città. I quartieri che sono sempre rimasti nelle mani del governo, soprattutto quartieri moderni, non hanno subito danni. Anche la cittadella era sempre rimasta nelle mani del governo e questo spiega perché non abbia subito grossi danni durante il conflitto. Mentre nel centro storico ogni singola casa e monumento, eccetto la cittadella appunto, ha subito danni. La vita ha riconquistato i piani bassi degli immobili parzialmente crollati grazie alla riapertura di molti negozietti.
Ci addentriamo in quel che resta del grande Souq di Aleppo. Tra parti in cui l’architettura si è conservata ma è comunque andata a fuoco e parti in cui sono rimasti solo cumuli di pietre numerate si arriva alla zona perfettamente restaurata dall’Agha Khan. Non è enorme, ma è comunque una goccia di speranza in un mare di pietre, centinaia di migliaia di pietre, forse il più grande puzzle al mondo in attesa di essere terminato: testimonianza di un mondo dove tutti a parole proclamano amore per la cultura ma che nella pratica non si scandalizza più davanti alla lenta morte di una città.
Nel nuovo souq vi sono già dei negozi che vendono spezie, tappeti, profumi e molto altro. Perdendoci nel centro storico arriviamo in un’antica fabbrica di sapone di Aleppo che ha ripreso l’attività. Entrarci, per un amante come me del sapone di Aleppo, è un piccola magia in mezzo alla malinconia. Anche qui vi sono migliaia di mattoncini ammucchiati, solo che sono di sapone e in attesa di essere esportati in tutto il mondo. Gli elementi che servono per fare il sapone vengono stesi, ancora liquidi, su tutto il pavimento, in vasche profonde cinque centimetri. Si crea un intero pavimento di sapone di Aleppo. Quando il liquido si asciuga, viene tagliato dagli operai in pezzi e ognuno viene marchiato a mano. I saponi vengono poi ammucchiati ai lati. Non tutti hanno la stessa percentuale di alloro e di olio d’oliva. Più alta è la percentuale di alloro, più è ricercato il prodotto.
Non siamo gli unici europei, vi è anche un gruppo molto più grande del nostro che entra nel momento in cui abbiamo finito la visita. Compriamo alcuni saponi e ci immergiamo nuovamente nell’antico centro. Ci dirigiamo verso una delle porte, fuori c'è un coloratissimo mercato della frutta e verdura. Ci fermiamo tra i venditori, a osservare la folla che contratta sulle mercanzie.
Nel pomeriggio la guida ci porta a ridosso delle mura della città, in alcune case in cui hanno trovato rifugio dei terremotati. Ci fermiamo a parlare con loro, la guida porta loro dei vestiti e altri beni che possono essere di aiuto. Lasciamo anche un po' di soldi. Le case in cui vivono sembrano tenersi su per miracolo.
La sera mi perdo nella notte aleppina con un amico del posto, che mi porta in giro nei caffè e nelle gallerie di arte contemporanea di una città che rimane colta, nonostante le infinite difficoltà. Finiamo la serata con una passeggiata lungo il piccolo fiume che bagna la città, il Quwayq.
La mattina ci svegliamo e facciamo colazione in una pasticceria piena di gente del luogo; si mangiano dei dolci al latte con una consistenza tra crema e budino, davvero ottimi, insieme a un bel chai fumante.
Pieni di energia affrontiamo la nuova giornata, ci perdiamo nei mercatini. I banconi sono colmi di frutta e verdura di ogni genere e i clienti si affollano intorno ai banchi, nonostante la crisi.
Mangio un panino con il falafel fritto sul momento da un ambulante e in mezzo alle antiche case diroccate trovo un negozio che vende ottima tahina artigianale, ne compro un bel po' da portare in Italia.
Verso il primo pomeriggio ci dirigiamo al quartiere cristiano. Una delle chiese più grandi è per fortuna rimasta in piedi. Dietro, il rione è molto mal ridotto, ma come per il resto del centro le pietre sono ancora tutte lì in attesa. Per fortuna stanno costruendo un hotel di archittettura tradizionale ben fatta, che dovrebbe aprire a breve. L’aspetto è rassicurante. Mentre passeggiamo per la città vecchia, un anziano cammina con dei bambini per mano. Una scena di grande potenza, la generazione nata e invecchiata prima della guerra che cammina con i bambini nati durante la guerra. Mentre li guardo mi chiedo se gli anziani sapranno trasmettere la storia millenaria di questa città e la voglia di farla rinascere dalle sue rovine come un’araba fenice, nonostante l’impotenza economica.
(3. continua)