LUANG PRABANG
IL LAOS
DEI MILLE
BUDDA

C’è un solo modo per incontrare davvero l’essenza di Luang Prabang: girare senza sosta, muoversi lentamente, a piccole tappe, impadronirsi di un ritmo slow, cominciare - per il tempo che si ha a disposizione - una sorta di pellegrinaggio tra bar (di notte), templi (di mattina), fiumi (al tramonto) e persone dal sorriso perenne (in ogni momento). È col camminare che nell’antica capitale del Regno del Milione di Elefanti, ovvero il Laos, si rintracciano vestigia, report coloniali e straordinari dettagli che hanno fatto di questo luogo - piazzato nella valle dove il Mekong e il fiume Nam Khan si congiungono - un sito Patrimonio dell’Umanità fin dal 1995. E respirando l’aria satura di spezie, bevendo l’acqua di zucchero di canna, annusando fiori ignoti, assaporando lo sticky rice, guardando i buffi galletti domestici neri col pennacchio bianco, fotografando i frutti arcobaleno del mercato (Phousi Market), facendosi stregare dalle bancarelle variopinte di oggetti e cestini, salendo sui tuk-tuk colorati che si affollano agli incroci mentre i loro conducenti intavolano lunghissime e oscure (per chi ascolta da fuori) conversazioni. Bisogna saper sfruttare, insomma, le ore di luce per curiosare nella Città del Grande Buddha Reale (questo vuol dire Luang Prabang): è l’unica maniera di non pentirsi al ritorno per non aver visto abbastanza. È il caso di chi scrive, colpevole di aver “volato” troppo in fretta su questa meraviglia dello spirito insediata nel Nord del Laos, Paese che nelle parole di un viaggiatore d’eccezione come Tiziano Terzani è prima che un posto “uno stato mentale”. Ed è in questa Asia pastosa e profonda, lontana dal consumismo occidentale, vissuta con l’umidità che incolla al corpo i vestiti, dove è appena iniziata la stagione dei monsoni, che Luan Prabang spicca per la sua bellezza, la sua storia, l’umanità che vi si incrocia, i monaci che avanzano all’alba, in processione con il passo lieve della questua (tak bat). Daniele – la guida incontrata sulla montagna – dice che “Luang Prabang è l’unica città dove da europeo si può vivere”, lui sta qui da quattro anni e accompagna gli stranieri in montagna. “Un luogo incantevole”, ripete amaro, “ma senza futuro, perché i cinesi a furia di investire per il proprio profitto lo uccideranno”. Un’esagerazione? Forse. Ma il mio tempo è poco per inseguire la spiegazione complessa.


(Il mercato a Luang Prabang)


Nella città dove per migliaia di anni ha vissuto il sovrano (fino al 1975, quando il Paese diventa ufficialmente Repubblica Popolare del Laos), il Palazzo Reale costruito nel 1904 in stile coloniale con splendide scalinate in marmo di Carrara racconta la maestria dei mosaicisti giunti da tutto il mondo che hanno animato uno story-telling fra mito e realtà che si snoda lungo le sale del Palazzo. Il mobilio di lusso voluto dal re Sisavang Vong (1905-1959), il suo letto imponente, le foto dei balli con i capi di Stato (il charleston, per la precisione), le argenterie e i tappeti rarissimi, i dipinti, le porcellane giapponesi, i regali diplomatici dello Stato Vaticano, una collezione d’armi d’epoca, i quadri realizzati nel 1930 dall’artista Francese Alix de Fautereau, la corona Reale e perfino una scuderia di auto d’epoca del sovrano che farebbe invidia alla vecchia Ford. Un tesoro di memorabilia - ora esposto al pubblico nel Royal Palace Museum - dove sfavillano i privilegi nobiliari azzerati dal regime comunista dopo 650 anni.


(L'ingresso a Palazzo Reale.jpg


Trent’anni dall’abdicazione forzata hanno cambiato la vita a Luang Prabang, tuttavia non l’anima. Quella è custodita nel Wat Xieng Thong, “il tempio più grande”: sta lì da metà del Cinquecento, sorto sotto la protezione reale, riconoscibile ovunque per la classica architettura Lanexang dai tetti a pagoda. Nove tetti riccamente decorati con immagini del Buddha che scendono verso terra come una cascata dorata e salgono con i vertici verso il cielo. Più che un monumento sacro, il Wat Xieng Thong (Tempio della Città D’Oro) è da sempre un riferimento per i buddisti laotiani. E non solo. Il gong scandisce la vita e il tempo della meditazione. I monaci colmano gli occhi stranieri con i loro abiti arancio-marron-rossi-ocra-gialli e la testa rigorosamente rasata.


(I mosaici-storytelling al Royal Palace Museum)


Povertà e ottimismo. A Luang Prabang è proprio l’atmosfera “ad alta spiritualità” a catturare i viaggiatori del sud est asiatico che, immancabilmente, sbarcano qui dal Vietnam, dal Myanmar o dalla Cambogia. Il Phu Si, la collina alta più di centro metri sulla cui cima è piazzato uno stupa dorato da 24 (il famoso That Comsi illuminato in notturna) veglia sul centro storico tra i bar-bistrò, segna con un tramonto spettacolare (dall’alto si vede il panorama bellissimo) l’ora dell’aperitivo o magari della cena. In Laos si mangia presto la sera, e in città la birra Lao (unica birra nazionale) scorre ai fiumi tra i turisti almeno dagli anni Ottanta. Si sente musica europea (e americana) mai sentita altrove, la coppia hamburger-patatine prende il posto del pesce di fiume un po’ stopposo che costituisce il pasto base laotiano insieme al riso glutinoso. Piccola movida asiatica che stride un po’ con ciò che si è visto nel resto del Paese (isole sul Mekong a parte), dove il silenzio accompagna le giornate. Poco traffico di bici e motorini perfino nella capitale Vientiane, ritenuta caotica all’ennesima potenza dai laotiani. Un popolo tranquillo che si autodefinisce – secondo Tin, guida locale e insegnante di scuola elementare – “con un proverbio popolare” che fa così: “I vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano germogliare, i laotiani lo ascoltano crescere”. Sarà per questo che nei bei negozi dai prezzi occidentali, nelle boutique che vendono artigianato di lusso a Luang, i laotiani hanno sempre un altarino nascosto in un angolo: s’intravedono un piccolo Buddha, un Ganesh con l’incenso acceso sopra la proboscide, a volte perfino una croce bizantina. I commessi stanchi si siedono davanti all’immagine sacra, in silenzio, più volte al giorno.


(Le Cascate Khuang Si)


Il Mekong e il Nam Khan sono un’altra buona ragione per ricercare il silenzio nella natura che circonda Lunag Prabang. Dove i due fiumi si congiungono, come arterie che portano linfa alla città, si apre il lembo di terra con selvagge grotte naturali zeppe di antichi Buddha. Ci si inerpica con il fiato spezzato sul Pak Ou, ma la fatica vale la sorpresa sacra e una vista superba sulla valle. Dal 1500 qui hanno trovato casa 5000 statue del Buddha, sculture piccole e grandi, antiche e moderne, incastonate a strapiombo nella montagna. Doni alla pace, messaggi di felicità, preghiere su foglietti di carta, corone di frangipane odorosi e piccoli piatti in bambù. Sono i lasciti del pellegrinaggio a Pak Ou: un diktat per i buddisti, un suggerimento di visita per chi non crede.



Oltre la valle. Oltre la montagna. L’acqua dei fiumi arriva a disegnare scenari indimenticabili da mostrare a chi arriva fin quaggiù. Come? Formando cascate cristalline, rapide ai cui piedi si trovano placidi stagni di ninfee, pozze larghe, piscine naturali come se ne vedono solo a Khuang Si. Sono ad appena una trentina di chilometri da Luang Prabang e prima di tuffarci nelle vasche tra gli alberi per sconfiggere il caldo (almeno per qualche minuto) abbiamo attraversato la foresta e (non ci crederete!) abbiamo visto gli orsi. Sì, perché qui sono state portati e messi in libertà (protetta) nel Bear Rescue Center gli animali vittime di bracconaggio e mercato illegale di pelli. L’organizzazione che gestisce il Tat Kuang tutela una particolare specie di orso asiatico che somiglia vagamente al nostro orso marsicano. Chi vuole immergersi nell’habitat dove i plantigradi sonnecchiano su piattaforme di legno, casette tra i lecci, amache, può prenotare un tour con l’associazione e godere degli incontri a distanza ravvicinata per un paio d’ore. Un’esperienza da raccontare agli amici, volendo ma anche il sopralluogo a distanza riserva le sue emozioni. Tremiti e sorrisi che il Laos regala a piene mani.


(Monaci)


Al ritorno dalle cascate, volendo spendere tempo semplicemente girovagando tra le strade di Luang Prabang ci si può dedicare ad individuare le mescolanze di colori e di stili per scattare qualche foto. I contrasti, come già detto, sono singolari e abbondanti. Non fanno eccezione le case laotiane in legno, con il portico-pedana dove giocano i bambini e le piccole finestre al piano sovrastante. Edifici bassi che fanno da intermezzo alle coloniali francesi con tanto di persiane e colonne decorate spesso con disegni liberty. Qui sono ancora molte, a volte un po’ délabré, ma convivono perfettamente con le architetture moderne e aggiungono atmosfera al fascino. Vedere per credere.

(2. continua)

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