Gallup, New Mexico: la notte ci accompagna il rombo dei lunghi autotreni che sbucano dalle tenebre e nel nulla delle tenebre ritornano, illuminati e sfolgoranti come minacciosi alberi di Natale. Dalle balconate di legno brunito al secondo piano del Motel 'El Rancho' puoi vigilare sulla curva arrembante della Route Sixty Six: la “madre delle strade”, che taglia il grande Paese da est a ovest, attraverso deserti e aride montagne, canyon, piatte cittadine e fiumi maestosi. America anno zero, appena ieri Donald Trump è stato incoronato 47esimo presidente degli Stati Uniti e da allora ogni giorno si affaccia da tutti gli schermi televisivi un Potus trionfante, minaccioso e vendicativo.
Inutile nascondersi. Se non puoi fuggire da questo incubo ad occhi aperti l’istinto di sopravvivenza ti spinge indietro verso il passato, e nel passato si rifugia: l’America che amavi, il sogno contraddittorio dei tuoi antichi venti anni. In questo vecchio Motel quel passato è scritto su ogni mattone, riflesso in ogni specchio brunito, impresso in ogni scalino scricchiolante. La nostra angusta camera – piena di cimeli - è dedicata a Glenn Ford, e sta alla sinistra di quella intitolata a Henry Fonda. Passi perduti: in fondo al corridoio una coppia ciarliera si è appena chiusa alle spalle la porta massiccia con la firma di Burt Lancaster.

Nostalgia di come eravamo e di come splendeva ad Occidente questa grande nazione. Ma era davvero questa l’America amata-odiata dei nostri sogni giovanili? Penso a “Hejira”, il mitico album in cui una giovane Joni Mitchell racconta se stessa - i sogni e gli amori - mentre descrive i luoghi conosciuti in quel lungo viaggio che la portò ad attraversare il Paese da ovest ad est e poi di nuovo al contrario, dalle coste del Maine fino al sole della California. Le stazioni di servizio, i motel, il sole a picco, le grandi distese solitarie degli Stati del sud: fuga e insieme disvelamento. Hejira come Egira, che fu il viaggio purificatore di Maometto dalla Mecca a Medina nel 622 dopo Cristo, nell’anno iniziale della cronologia islamica. Mi piace pensare che Joni si sia fermata qui, abbia fatto rifornimento alla gasolinera che vedo dalla mia finestra, abbia riposato a 'El Rancho' per poi attraversare Gallup, piatta anonima cittadina in cui ora arrivano gli echi lontani di un incredibile presidente.

Ricordo che nel lontano 1976, mentre la giovane cantante attraversava gli Stati del sud, il grande Paese si affidava a un candidato democratico: Jimmy Carter, l’uomo delle campagne, il mite coltivatore di peanuts, l’eroe borghese morto centenario proprio nei giorni del trionfo di Donald Trump. L’America veniva allora da uno shock politico senza precedenti: eppure alle dimissioni di Nixon e dopo il breve intermezzo di Gerald Ford seguì per un solido copione politico la prevista vittoria dei democratici. Era quella un’altra America: certamente ipocrita, ugualmente violenta nel gioco del potere, ma così diversa – irriconoscibile - da questa feroce incarnazione di democrazia autoritaria. Mi chiedo ancora chi era Presidente, quando negli anni Trenta la famiglia Joad – sfrattata dalla casa e dalla terra – si mise in viaggio insieme a migliaia di contadini dai deserti di polvere dell’Oklahoma verso la terra promessa della California. Oggi, nel rombo dei grandi autotreni e sotto le raffiche di vento che spazzano le pianure del New Mexico, percorro la madre delle strade, protagonista spietata del grande romanzo americano: quel Furore, “The Grapes of Wrath”, che John Steinbeck concepì e scrisse in una furiosa trance letteraria lunga cinque fatidici mesi, dal giugno all’ottobre del 1938.

Tragica epopea bianca, che i libri di storia raccontano come tappa cruciale dell’impassibile costruzione del capitalismo americano: il trattore contro l’aratro, il contadino trasformato in salariato, l’agricoltura trasfigurata in industria, la rovina di molti e la fortuna di pochi. Furono Woody Guthrie e la sua chitarra a dar voce a questa silenziosa sconfitta: “Avevo una piccola fattoria e la chiamavo Paradiso, ma la pioggia cessò e il vento ruggì e una tempesta di polvere nera riempì il cielo. Ho scambiato la mia fattoria con una Ford e ho iniziato a viaggiare ('rocking and a-rolling') lungo deserti e montagne per raggiungere la California. Avevo una ragazza, giovane e dolce, ma la tempesta l’ha sepolta sotto metri di sabbia…” Cento anni dopo, lungo questo serpente di asfalto, umili targhe e minuscoli musei cittadini ricordano le tappe di quella tragica migrazione: centinaia di migliaia di famiglie di contadini senza terra in marcia dagli Stati del Midwest verso il miraggio assolato dell’ Ovest. I nuovi poveri, bianchi e protestanti, espropriati dalle banche e in fuga dalle loro fattorie trasformate in deserto sterile dalle tempeste di polvere. Per loro, alla fine del viaggio, non c’è né vittoria né riscatto, ma solo rabbia: “E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili maturano i frutti del furore e si avvicina l’epoca della vendemmia.”

In qualche modo anche oggi – anno di disgrazia 2025 – l’America raccoglie e vendemmia i frutti del furore bianco, la narrazione rabbiosa e vendicativa dei bianchi e poveri e incolti lasciati indietro dall’impassibile meccanica del globalismo anti-americano. La ribellione cieca degli hillbillies, gli “zotici” delle montagne e delle aree rurali, che si sono consegnati per protesta e rancore ai più svergognati padroni del sistema. Anche noi sperimentiamo - in questa corsa da Est ad Ovest e in questo frastuono di annunci, menzogne e minacce - i frutti del furore e della rabbia. Di cittadina in cittadina, da sobborgo a sobborgo, sulle modeste verande di fattorie sperdute nel nulla sventolano le bandiere a stelle e strisce. Con le ombre del tramonto un autotreno che ci corre incontro suona a lungo la sirena e annuncia l’era trionfante di “Trump” in una sfolgorante scritta al neon stampata sulla cabina di guida. “Get your kiks on ruote Sixty six”: la vecchia strada del nostro cuore corre dritta come una freccia verso Ovest, scende verso Flagstaff e poi risale, lascia il New Mexico e attraversa l’Arizona delle antiche tribù indiane, ridotte dentro miserabili riserve.

Ormai più di mezzo secolo fa, sotto Flagstaff e nel distretto di Bellemont cercarono invano ospitalità presso il “Route 66 bar and grill” i ragazzi Billy e Wyatt, ingenui rivoluzionari arrampicati sui loro chopper, in fuga dal pianeta delle convenzioni, dell’ipocrisia e della violenza borghese. Era il 1969 e “Easy Rider” ridisegnò per noi boomers europei la mappa dell’Occidente americano. Libertà contro tutte le convenzioni, sfida a ogni angusto comandamento, la bandiera a stelle e strisce indossata alla rovescia in sfregio al bigottismo delle città borghesi e alla violenza delle campagne bianche. La storia di vita e libertà di Billy e Wyatt e del loro mite compagno di viaggio George Hanson fu per noi ragazzi europei un grido di libertà contro la guerra del Vietnam che proprio in quell’anno 1969 raggiungeva uno dei picchi più alti dello sforzo militare americano, con oltre mezzo milione di soldati mandati a combattere nelle risaie e nelle giungle dell’estremo oriente. Paradossalmente: fu per noi una conferma della nostra radicale opposizione alla guerra americana e insieme un motivo in più per dirci americani. A dimostrazione che il nostro rapporto con il grande Paese al di là dell’Atlantico è stato sempre all’ insegna della contraddizione e del paradosso.

Seguendo l’epico viaggio di Easy Rider potevamo insieme condividere e ammirare il senso di libertà dei nostri coetanei e nello stesso tempo disprezzare la terra imperialista che li aveva generati. L’America tradisce i suoi figli anche in questo epico road movie: Billy e Wyatt finiscono la loro vita in una pozza di sangue sull’asfalto, uccisi quasi per caso: per sfida, per invidia, per ignoranza. In quel plotone di esecuzione di contadini analfabeti è facile individuare – a mezzo secolo di distanza - un segmento del popolo che nel novembre scorso con il proprio voto democratico ha portato alla Casa Bianca il predatore e bancarottiere Donald Trump e i suoi accoliti. Hillbilly, white trash, montanaro: il brodo di coltura che ha fatto la fortuna elettorale e politica del giovane vicepresidente JD Vance.

Il presente ha radici nel passato, ma la sua forza bruta è capace di fare a pezzi ogni passato. A 'El Rancho', la sera, gli ospiti cenano tutti nella grande stanza da pranzo al piano terra. Quasi un saloon con tavoli e tavoli di quercia e alle pareti i ritratti dei “grandi” del West: come la veglia funebre intorno a un passato di gloria. Cibo messicano, dall’antipasto al postre: guacamole, quesadillas, tacos, fajitas, ceviche. Mi chiedo: quale sarà il menu di questo e di mille Motel lungo la Sixty six quando il popolo imparerà dal nuovo presidente a mangiare cibo rigorosamente americano? Sotto un gigantesco ritratto di John Wayne, ecco una coppia che riconosco come coetanei: antichi figli dei fiori passati quasi incolumi attraverso tutti questi faticosi decenni. Bianchi, gioviali, sui settanta anni: lui indossa un cappellaccio nero da cow boy, pancia da bevitore di birra stretta alla vita da una spessa cintura di cuoio e argento, capelli lunghi e radi raccolti in una striminzita coda di cavallo. Lei in soprappeso, lunga capigliatura grigia, gonna indiana a fiori. Mangiano in silenzio, ogni tanto si passano i condimenti, sorridono soddisfatti, forse ancora innamorati. Non ho il coraggio – non ci provo nemmeno - di chiedere per chi hanno votato.