Come non basta un foglio di carta bianca e una penna e la capacità di scrivere per diventare un romanziere o un poeta, così il fatto di possedere una massa cerebrale nello spazio cranico che separa le due orecchie non basta per trasformarci in pensatori.
Saper pensare è un’arte.
Saper saltare dal pensiero alla realtà, all’intuizione, al calcolo e ritorno è una magia.
Nel precedente articolo ci siamo occupati delle competenze matematiche, della capacità di impostare calcoli, di comprendere (e visualizzare il significato) di formule matematiche, sciaguratamente quasi sempre insegnate come formule aride e astratte di calcoli intuitivi.
Qui facciamo un passo indietro. Prima della conoscenza della matematica, infatti, sono necessarie una conoscenza e una competenza logica.
Probabilmente questa è la vera carenza della scuola italiana, di tutta la scuola nel suo insieme: a partire dai presidi, passando poi per i professori, toccando i genitori fino ad arrivare agli studenti.
A scuola non si studia la logica, che sta però alla base della nostra capacità di articolare un ragionamento, di mettere in fila i pensieri, di calcolare e valutare la possibilità che quello che ci stanno dicendo, o che stiamo leggendo, sia vero o falso.
A scuola non si diventa scrittori, ma si dovrebbe diventare almeno persone munite di capacità logica.
Lo studio della logica ci insegna fondamentalmente due cose. La prima consiste nel saper valutare la plausibilità dell’argomentazione di quello che ci viene detto o che leggiamo. La seconda, risiede nella capacità di trarre tutte le conclusioni e le conseguenze necessarie di quello che abbiamo appena appurato. Tutte, cioè sia quelle positive (per noi) che quelle negative (sempre per noi).
E siccome il funzionamento logico sta alla base dei ragionamenti di tutti gli esseri umani, perché sono tutti dei parlanti una qualche lingua che esprime il pensiero in strutture comunicative logiche, questo ci garantisce che l’argomentazione che stiamo elaborando nella nostra mente sia congruente con quelle di tutti gli altri esseri umani.
Non imparando a scuola – e nemmeno da altre parti – a valutare e controllare anzitutto i nostri processi logici, e in secondo luogo quelli dei nostri interlocutori, la speranza di poter essere uomini sensati, e anche conseguenti, si riduce purtroppo quasi a zero.
Ora, ditemi voi come sia possibile che esista una democrazia, senza la conoscenza diffusa della logica nella sua popolazione...
Se ci aggiungete il fenomeno di regressione culturale e ideo-logica cui stiamo assistendo da anni, dopo lo scoppio e il dilagare nel mondo del neoliberismo, la frittata è fatta.
Bene. Avendo distrutto il panorama che stiamo analizzando, vediamo allora come sia possibile ricostruire una speranza di un pensiero diffuso nella gente italica, perlomeno.
La prendo un po’ alla larga, per raccontarvi un caso reale e concreto. Da questo racconto credo potrete facilmente trarre molti spunti operativi.
Appena laureato, venni chiamato dai Paolini — la congregazione cattolica multimediale per eccellenza — a progettare un liceo classico-scientifico sperimentale, nel quale formare i "loro" ragazzi alle tecnologie informatiche. Eravamo alla metà degli anni ’80 del secolo scorso. E stiamo parlando di ragazzi fra i 14 e i 18 anni, molti dei quali erano ospiti del collegio annesso all’Istituto, e quindi candidati sacerdoti. Gli altri alunni, la maggioranza, erano esterni e pagavano una cospicua retta per frequentare il liceo parificato.
Preti? Informatica? Collegio?
Siamo agli albori del personal computer.
Tutto il piano superiore dell’edificio venne destinato a laboratori, fra i quali quelli di informatica. Insieme a mio fratello Roberto, grafico e designer, progettammo il nuovo spazio per computer, senza farci mancare niente. Stante il budget, acquistammo due Olivetti M24, messi al centro della stanza uno contro l’altro su tavoli disposti a cerchio, e nelle due parti laterali c’era posto per una stampante a punti da un a parte, e per un plotter con le penne colorate dall'altra.
Nel frattempo, la scuola dello Stato italiano dormiva sonni tranquilli. L'informatica non sapeva nemmeno cosa fosse. Probabilmente ne sa poco ancora oggi.
Lo spazio prevedeva una doppia platea di sedie con tavoletta disposte a semicerchio dietro i monitor: visto dall’alto l’ambiente assomigliava ad un elica a due pale, con al centro i due computer e alle loro spalle la platea di sedie che formavano le due pale.
Bene, cosa insegniamo ai ragazzi? Quali sono le materie per formare la generazione di studenti che dovrà affrontare l’era informatica?
Non ebbi dubbi. Bene la matematica (c’era un giovane professore che mi stava dietro), bene anche l’informatica, vale a dire i linguaggi di programmazione come il Basic, il Pascal, perfino il dBase che funzionava ancor meglio per alcune cose.
Mi impuntai sulla logica.
Non mi sembrava infatti possibile pensare che dei ragazzi apprendessero casualmente o implicitamente la struttura mentale logica — indispensabile per trattare con algoritmi e con linguaggi di programmazione che li mettevano in gioco — desumendola empiricamente e a casaccio da ciò che studiavano. Molti sostengono ancora oggi che il latino — materia ampiamente insegnata nei due rami del liceo di allora — sia il carburante giusto per apprendere la logica, ma non è così. Siamo su due pianeti completamete diversi.
Certo, meglio il latino che niente. Ma l’arte di dedurre e costruire una argomentazione logica è tutt’altro.
Conoscevo bene la logica. E conoscevo il suo potere formativo e di consolidamento della mente umana, per averlo sperimentato su me stesso. Tre annualità universitarie con tre trenta e lode mi avevano fatto capire quanto quella materia fosse necessaria per affrontare i circuiti logici dei computer.
E, per tutta onestà, devo dirvi che i linguaggi di programmazione sono ancora oggi molto più matematici che logici, pieni di trucchi, trucchetti e scorciatoie tipiche dei matematici intuitivi, ma conservano a loro fondamento una logica che è poi anche il modo di funzionamento dei microprocessori.
Quindi proposi quella materia a fondamento della formazione dei nostri nuovi studenti.
Il tutto venne vagliato e valutato dall’IRRSAE, la struttura ministeriale deputata ad autorizzare le sperimentazioni nei licei di allora, e passò.
Io credo che non capirono neppure una parola di quello che c’era scritto sulla relazione di presentazione, ma passò. E così divenni professore di logica e linguaggi di programmazione.
La logica all’università è una cosa, ma nei licei? Con menti giovani, mai addestrate al rigido e millimetrico argomentare?
Era una sperimentazione? Ebbene, allora si doveva sperimentare! E sperimentammo.
Avevo lavorato con il prof. Massimo Prampolini su un testo che lui aveva tradotto dall’inglese ed adottato nei suoi corsi alla Sapienza, e che in Usa era considerato uno dei testi base per consentire agli studenti universitari di effettuare con successo i test di ammissione nelle principali università.
Detto di passaggio, molti dei test di ammissione dei nostri docenti ai concorsi abilitanti sono basati su quelle conoscenze, e invece diventano un terno al lotto per l’ammissione dei futuri docenti, totalmente ignari della materia.
Il libro spiegava passo-passo, in maniera molto semplice, tutte le argomentazioni e le regole della logica vero-funzionale e del calcolo dei predicati, ed era pieno di esercizi. Mancavano le soluzioni. Per cui i nostri studenti di logica alle prime armi non riuscivano a sapere se le loro argomentazioni fossero giuste o sbagliate. Con Giuseppe Laterza, l’editore, concordammo di aggiungere al libro un’appendice con la soluzione degli esercizi di logica nella successiva edizione.
Grazie ai laboratori del liceo, stampai tutte le argomentazioni e le soluzioni degli esercizi. Le pagine puntinate dalla stampante vennero poi fotografate e poste in appendici al volume.
Per chi fosse interessato all’argomento — e penso che il 90% delle persone che stanno leggendo questo articolo ne trarrebbe un enorme giovamento, ma ancor di più i loro figli e nipotini — il libro si chiama “Elementi di logica”, l’autore è E.J. Lemmon. Editore Laterza, ovviamente.
E iniziarono le lezioni.
Ero un professorino alle prime armi, vi erano pochi anni che mi separavano dai miei studenti di allora.
Con pazienza e rigore, iniziammo a studiare le tavole di verità, i “modi” delle argomentazioni, la regola del Modus Ponendo Pones (MPP) e il Modus Tollendo Tollens (MTT), e poi tutti gli altri modi di argomentare, la partenza dalle assunzioni e il raggiungimento della deduzione finale, con il “Come Volevasi Dimostrare” a suggellare la correttezza del ragionamento.
Nei primi colloqui con i genitori, più di una madre mi confermò che il proprio figlio passava le serate a combattere con la logica, senza presentarsi a cena. Ma senza protestare, con la sensazione di star facendo qualcosa di straordinariamente importante.
La medicina fu efficace. Molto efficace.
Sui linguaggi di programmazione poi i ragazzi presero il largo, e molti di loro persero anche il sonno per il piacere di imparare e di scoprire.
Ricordo una madre che venne a dirmi che per molte notti aveva visto una luce provenire dalla stanza del figlio, quando tutti dormivano. E avvicinandosi silenziosamente alla sua porta lo aveva scoperto a programmare, immerso nel codice e nella logica.
Per quattro anni ho fatto il docente, conseguendo nel frattempo l’abilitazione, poi basta.
Molti anni dopo, un gruppo di quegli studenti, diventati nel frattempo professionisti e manager, mi invitò ad una loro cena commemorativa. Mi chiamavano ancora “Prof”, ma ovviamente erano degli uomini maturi.
Mi ringraziarono infinitamente per la formazione che ero riuscito a dare loro in quei pochi anni sperimentali, e le loro carriere di primissimo piano testimoniavano che il risultato era stato del tutto eccellente.
Naturalmente, con loro non andai molto oltre la logica di base.
Esistono altri tipi di logica, come la logica modale, la “fuzzy logic”, e poi da quella parte si sale su, su, su, per una scala impervia, sempre più astratta e complessa, ma che testimonia le capacità della mente umana di raggiungere complessità straordinarie. Addirittura, vi è un livello nel quale tutto crolla e sembra franare, gli assiomi si sfasciano e le deduzioni risultano impossibili. Ma al livello superiore successivo, tutto riprende normalmente e si complica maggiormente. Da meditarci un bel po' sopra.
Quel livello critico mi ha sempre fatto pensare alla celeberrima Variation 25 delle Variazioni Goldberg di J.S. Bach, che una famosissima clavicembalista chiamava "Il Cigno Nero". Se riascoltate le Variazioni di Glenn Gould registrate a fine carriera (le prime lo avevano imposto sulla scena mondiale per il suo mirabile virtuosismo e la velocità delle dita mostruosa, ma erano mal digerite e prorompenti) vi renderete conto che si passa da canone a canone con la precisione svizzera di un artigiano orologiaio. Fino alla 25, dove la tonalità il ritmo, il tempo vanno tutti a farsi benedire. L'intuizione del genio assoluto! Poi riprendono come se niente fosse, e tutto giunge alla sua logica conclusione. Ma quel geniaccio di Bach, che era anche un matematico straordinario, aveva dato una rappresentazione artistica definitiva e inusitata della logica umana. L'aveva fatta toccare con mano, anzi con le orecchie della mente, a tutta la nostra specie.
Non dico di arrivare fino a quel punto, ma la logica di base, insegnata nella nostra scuola, dovrebbe essere un must, imprescidibile. Serve, se vogliamo avere dei cittadini democratici e degli uomini migliori.
Altroché se serve!
Come la serva di Totò. Provare per credere.