Dopo il bell’articolo di Massimo Cavallini sugli anni di piombo, appena pubblicato su questo sito, e in un tempo di guerre che si alternano alle porte di casa, forse non sarà inutile soffermarsi sulla parola violenza.
Ci sono concezioni di vita, come quelle “nonviolente”, che rifiutano la violenza a prescindere, e fanno di questo rifiuto un atto di civiltà e di cultura superiori. Fra l’altro, alcune delle argomentazioni “forti” di questa posizione sono state utilizzate da più di una parte per argomentare l’appoggio ad una ipotetica risposta passiva e rinunciataria dell’Ucraina nei confronti dell’aggressione russa.
Secondo queste posizioni, sarebbe stato inutile per l’Ucraina contrastare l'aggressione, perché tanto avrebbero perso comunque, mentre accettare l’invasione avrebbe risparmiato centinaia di migliaia di vite umane, e avrebbe salvato gli scambi commerciali con lo zar.
La guerra, che è fatta di violenza, porta con sé la morte. Soprattutto dei civili e degli innocenti. Ma anche dei ragazzi che indossano una divisa e che vengono mandati al fronte. Con le armi della diplomazia e la creazione di un esteso fronte politico avverso ― dicono alcuni ― si sarebbero ottenuti risultati perfino migliori, e l’Ucraina non avrebbe pagato il prezzo di vite umane che ha pagato. E neanche la Russia.
È possibile.
Ma è anche probabile?
Leggendo i libri che raccolgono le analisi e gli articoli di una eroina dell’informazione, Anna Politkovskaja, corrispondente russa di Novaja Gazeta, mandata in Cecenia per raccontare cosa accadeva in quel paese occupato nella seconda campagna militare dalle stesse truppe russe che poi sono state spostate in Ucraina, non sembrerebbe. Lì la popolazione è rimasta inerme ma ha ugualmente subito ogni forma di violenza raccapricciante e insensata, con una strage continua di civili inermi.
I russi in Cecenia hanno fatto una strage non perché la popolazione si sia opposta a loro, ma per amore della violenza dell’uomo sull’uomo, o preferibilmente sulla donna. Tutto ciò che abbiamo visto accadere in Ucraina era accaduto già, uguale-uguale, in Cecenia.
Cosa significa la proclamazione russa di voler “denazificare” l’Ucraina? Stanno alludendo forse ad una strage? E se l’Ucraina molla e quelli li ammazzano tutti, poi non potremo dire di non essere stati avvisati.
Non abbiamo detto niente sulla Cecenia. “Questioni interne”. Ma se l’Ucraina non si fosse opposta, non sarebbe stata fuori luogo la domanda “chi il prossimo?”. Tanto è vero che i neutralisti stati baltici si sono affrettati a chiedere di entrare nella Nato. Non si sa mai.
Per queste sue cronache dal fronte, lo ricordiamo, la Politkovskaja venne uccisa a poca distanza dal Cremlino, il giorno stesso del compleanno di Wladimir Putin. E solo uno sprovveduto non farà caso alla coincidenza.
Basta riandare indietro nel tempo, all’immediato secondo dopoguerra, per incontrare il momento più forte dell’azione violenta di civili contro truppe di eserciti regolari. Fu la nostra Resistenza, che ci guadagnò il diritto di scrivere una Costituzione e di riprendere il posto in un consesso civile, sebbene la rimozione delle enormi colpe dei nostri padri abbia costituito una minaccia continua alle istituzioni democratiche e abbia marcato con una striscia nera tinta di rosso gran parte degli attentati che hanno segnato il rosario macabro della strategia della tensione.
Chiediamoci allora: è possibile utilizzare la violenza in modo giusto? Quand'è che una popolazione ha diritto di usare violenza contro il potere costituito, o contro altre persone, magari in divisa?
Se la risposta a queste domande è: “Non in mio nome, non io”, allora non c’è discussione. Ci fermiamo subito.
Ma quando ci vanno di mezzo anche le donne, i vecchi e i bambini, potenziali vittime di un potere stragista, o quando ci va di mezzo la possibilità di mantenersi ragionevolmente liberi e ragionevolmente democratici senza diventare schiavi alla mercé di un oppressore, forse vale la pena considerare una diversa posizione.
Cioè: al di là della mia rinuncia a offendere, devo fare i conti anche con il fatto che la mia rinuncia comporti anche l’esposizione di persone fragili o deboli che si aspetterebbero da me, e da gente come me, una protezione per riuscire a salvarsi la pelle o anche l’integrità e la dignità della loro vita. Sperano in me. Sperano che io non rinunci lasciandoli nelle mani dei trucidatori.
Per la generazione che ha fatto la lotta partigiana, combattere i nazi-fascisti fu un dovere. Erano ragazzi, moltissimi intellettuali, molti di estrazione cristiana, che pure sentirono la spinta morale a imbracciare un’arma, a recarsi in montagna e a contrastare le formazioni regolari dell’esercito occupante e dei suoi alleati italiani in camicia nera.
Non era violenza quella esercitata dalle formazioni partigiane?
Certo che lo era. E fu una spina nel fianco degli occupanti, che non si sentirono più sicuri della propria zona, circondati da una popolazione che non li voleva e che non vedeva l’ora di liberarsene.
Ma era il contesto a dire se quella violenza fosse “giusta” o meno.
Perché la violenza è solo un mezzo per ottenere un fine. Non è un’entità assoluta a prescindere, a meno di non credere che alcuni di noi nascano cattivi per natura, e che non si possa intervenire in alcun modo su di loro. E qui soggiungerei: se non con la violenza. E quindi siamo daccapo al punto di partenza.
Dunque “Il fine giustifica i mezzi”? Secondo un adagio che viene attribuito a Machiavelli, ma che quell’autore non ha mai scritto in questa forma?
Già, perché Machiavelli l’aveva posta diversamente. E aveva scritto: “Chi vuole un fine, deve volere anche i mezzi per conseguirlo”. Che è una espressione con significato ben diverso.
E lo vediamo subito applicando le due versioni alla guerra di Gaza, dove l’esercito di Israele a guida Netanyahu ha sicuramente il fine di annientare la formazione di Hamas, colpevole di una orrenda strage il 7 otobre scorso, degna dei nazisti. Ma quel fine giustifica i mezzi che sta utilizzando?
Non ci sarebbero stati altri mezzi a disposizione per raggiungere lo stesso fine?
Non andava forse usata violenza contro Hamas, ma non contro la popolazione civile, o meglio facendo ogni sforzo per preservare la popolazione civile dalla guerra contro Hamas?
Se vuoi raggiungere il fine di scardinare Hamas e di togliere per sempre dalla mente dei suoi militanti l’idea che si possa ripetere un 7 ottobre ad ogni ripresa di calendario (perché anche questo è in ballo: il rischio di una ripetizione a tempo e a ricorrenza) non sarebbe stato meglio usare una violenza diretta contro i responsabili di Hamas (ovunque si trovino sulla superficie del pianeta, ed in questo il Mossad ha dato prova di essere in grado di operare con precisione chirurgica proprio contro i torturatori nazisti superstiti, rifugiatisi ai quattro angoli della terra) piuttosto che iniziare una guerra di cortina, spazzando via la popolazione e ora costringendola in un cul-de-sac dal quale, se giunge a conclusione l’attuale strategia di Netanyahu, non si vede come quella popolazione possa uscire viva?
Come si noterà, la differenza fra le due proposizioni, una attribuita e l’altra di pugno di Machiavelli, non è difficile da comprendere.
Ma torniamo al tema che Massimo Cavallini ci ha ricordato, gli “anni di piombo”.
In quegli anni, che ho vissuto anche io in prima persona e nei quali ho anche rischiato personalmente di subire conseguenze pesanti, gruppi politici di estrema sinistra (chiamiamoli con il loro nome, senza timori di album di famiglia stracciati) decisero a freddo che fosse giunto il momento di passare in Italia alla lotta armata.
Non tanto per amore della violenza (c’era anche quello, in personaggi singoli, beneinteso) ma perché l’idea di fondo era quella di costituire il detonatore di una reazione a catena che avrebbe portato loro, l’avanguardia proletaria (ometto le virgolette di qui in poi, altrimenti non la finiamo più), a congiungersi con un movimento anticapitalista che, liberato dalle pastoie della sinistra legalitaria (che andava dai socialisti fino ai gruppi ufficiali di estrema sinistra) e finalmente cosciente del proprio ruolo storico, sarebbe insorto buttando fuori i padroni dalle loro seggiole, sbaragliando i militari e le forze dell’ordine, giungendo a prendere il potere per installare uno stato comunista.
In più, la raggiungibilità di qualunque “obiettivo” (leggi: "vittima") avrebbe messo in uno stato di ansia permanente e di preoccupazione personale tutti quei politici, quei militari, quei dirigenti industriali e statali, quei magistrati che con il loro agire "autoritario e antidemocratico" avessero avuto da temere dai Robinhood rossi, calmierando così la loro azione violenta e antidemocratica contro operai, popolo e anche gli studenti.
"Colpiscine uno per educarne 100", era uno dei loro motti.
Il modello operativo che avevano scelto i vari gruppi terroristi italiani che passavano in clandestinità assomigliava a quello del PCI clandestino negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, descritto da Camilla Ravera e da altri dirigenti comunisti nelle loro memorie. La suddivisione in colonne, in cellule isolate le une dalle altre. La vita dei clandestini.
Ma il parallelismo finisce lì. Perché?
Perché era cambiato il contesto. Lo strumento è simile, sono i fini e l’ambito in cui viene esercitata la violenza ad essere completamente mutati.
Prova ne sia che tutte le formazioni partigiane, di qualunque colore fossero, avevano accettato di usare la violenza e di raggiungere la liberazione del Paese all’interno di una guerra mondiale ed in connessione stretta con gli angloamericani che li rifornivano di armi e di materiale bellico, e anche di obbiettivi.
Qual era il contesto dei terroristi delle Brigate Rosse, Prima Linea, Nuclei Armati Proletari e così via?
Qual era il fine?
La sinistra parlamentare di allora, ed anche buona parte di quella extraparlamentare, capì che la decisione a freddo di passare alla lotta armata e alla clandestinità da parte delle frange più estreme e totalitarie si sarebbe rivelata mortale per la sinistra medesima. Capirono che il terrorismo "di sinistra" doveva essere combattuto innanzitutto dalla sinistra stessa. Certo, alcuni parlarono di "compagni che sbagliano", con tutta l'ambiguità dell'incomprensione della fase storica che stavano vivendo. Altri si dichiararono "neutrali", ovvero "Né con lo Stato né con le BR", come se quello scontro non li coinvolgesse direttamente.
Ricordo perfettamente riunioni a via dei Frentani, nella sede della FGCI romana, dove sia i gruppi extraparlamentari più coscienti che i giovani della federazione comunista cercavano di coordinare in tutte le sedi — anche nelle assemblee universitarie, terreno difficile e rischioso — l'isolamento e l'espulsione delle "P38" dalla pratica delle assembplee e dei cortei. Ma era un'impresa ardua. Perchè basta uno sparo, un colpo solo, a far deragliare un corteo di migliaia e migliaia di persone contrarie a quello sparo, lasciando il marchio di "corteo terrorista" o fiancheggiatore per sempre. E invece erano tutti contrari. Tutti meno uno, s'intende. Con la conseguenza dello scatenarsi della violenza della polizia, inevitabile.
Chi lo capì invece subito, per la verità, furono quelle forze, non certo di sinistra, che avevano infiltrato questi gruppi in maniera copiosa e finanche bizzarra, come accenna Cavallini.
Ho un ricordo preciso che per me costituì allora la cartina al tornasole e la guida per i rischi che mi presi.
All’indomani del golpe in Cile (11 settembre 1973) l’Italia accolse molti espatriati. A Roma questi cileni formavano una piccola comunità in grande difficoltà, e spesso ce li portavamo a cena (diluendo la loro quota nella divisione del conto alla romana) in maniera da farli sentire meno soli e abbandonati.
Durante una di queste cene a base di pizza, mi intrattenni con uno di loro, un ragazzo che studiava in un liceo di Santiago e che era riuscito miracolosamente a scappare. Mi raccontò che l’inizio della fine del movimento degli studenti fu la decisione di armare con pistole il servizio d’ordine a protezione dei cortei.
Negli ultimi mesi del governo di Salvador Allende, e soprattutto nei primi mesi successivi al golpe, la polizia non assistette inerme alle manifestazioni degli studenti, ma provocava attivamente i cortei, anche con cecchini disposti sui tetti del percorso. Quando scattavano queste provocazioni, naturalmente il corteo si disperdeva e rimaneva il servizio d’ordine a contrastare con le pistole in pugno. E lì si scatenava l’inferno. Che venne esportato anche nelle assemblee degli istituti e universitarie. Risultato: il movimento venne ammutolito e zittito. E finì tutto in un bagno di sangue.
Pensai allora: quando inizieremo a vedere le pistole nei nostri cortei degli studenti, la fine del movimento sarà segnata.
E andò esattamente così: le armi zittirono il movimento e gli alienarono i consensi, perché il cosiddetto “innalzamento del livello dello scontro” (il burocratese in versione terrorista!) ― tradotto: il passaggio da qualche scazzottata o manganellata alle armerie vere e proprie ― trasformò la qualità di un movimento di ribellione ai valori borghesi (fatta anche di femminismo, di riappropriazione del corpo, di trasformazione coraggiosa della coppia, di studio, di riflessione, di miglioramento personale e collettivo, di attenzione per i diritti negati ai diversi e ai poveri...) in quantità di colpi sparati e di capi d’imputazione pendenti.
E la frittata era fatta. Senza poter più tornare indietro.
Fra gli infiltrati nelle Brigate rosse, per la verità, a me pare che ci fosse anche qualche testa molto fina. Ciò che citavamo allora come una invenzione, il cosiddetto SIM o “stato imperialista delle multinazionali”, si potrebbe sostenere oggi che sia stata in realtà una previsione accurata, formulata magari da qualcuno di alto livello. In fondo somigliava abbastanza a quelle che poi sarebbero state le strategie di globalizzazione: una suggestione che all’epoca poteva dare alle BR solo qualcuno che si trovasse in un punto di osservazione elevato, su processi mondiali ancora in gestazione.
Mario Moretti Renato Curcio non erano assolutamente in grado di elaborare una previsione del genere, e questo avvalora ancor di più la convinzione che tutto il disastro fosse ben pilotato, e attraversato da messaggi che solo chi doveva capire ha capito. Che i terroristi in definitiva furono utili idioti, che raggiungensero aattraverso la violenza il fine esattamente opposto a quello che pubblicamente si proponevano.
Per concludere questa nostra riflessione, gli anni di piombo spezzarono sciaguratamente tante vite. Ma il grosso risultato fu quello di spezzare il movimento di sinistra che stava portando il PCI alle soglie del governo, e che nelle frange più ribelliste provava a sperimentare nuovi modelli di vita e di comportamento sociale, naturalmente nell’alveo di una mutazione antropologica che venne interrotta, prima con il già ricordato golpe in Cile e poi con il crollo del muro di Berlino, e che disintegrò i partiti più radicali e cedette al’onda del neoliberismo imperante.
Se una lezione si può trarre da tutto questo, è che senza valori positivi e senza una visione di crescita culturale avremo probabilmente sempre più violenza, e sempre più immotivata, per così dire. Occorre tornare ai valori fondamentali, e di corsa.