Una delle maggiori differenze fra le generazioni giovanili della Ribellione e tutte quelle successive è la solitudine. Non parlo della solitudine che si può provare ogni tanto, quando viviamo un periodo di concentrazione intenso e siamo assorbiti da ciò che stiamo facendo. Quando vediamo solo poche persone, o forse nessuno, e ogni tanto ci sentiamo soli. E allora andiamo al mobile-bar e ci riempiamo mezzo bicchiere di scotch, e ci rammarichiamo con noi stessi ascoltando Chopin.
No, questo accade ogni tanto a tutti noi. Non sto parlando di questo.
Sto parlando di una sorta di “doppia mutazione genetica” che è intervenuta nei ragazzi dell’Occidente dal dopoguerra a oggi.
Sto parlando di modelli culturali. E insieme economici, s’intende.
Proviamo a calarci nel pozzo di questi pensieri.
La generazione dell’oggi tanto deprecato ’68 aveva girato l’interruttore del proprio stile di vita, da solitario a collettivo. In un istante. Forse era anche diventata un’ossessione per loro, ma la dimensione collettiva dell’esistenza aveva determinato un salto in avanti del modo di vivere di quei ragazzi, con tutte le conseguenze positive e negative che questo comportava.
Il modo di vivere collettivo condivideva e metteva in comune sogni, pensieri, ideali ma anche sforzi, mancanze, necessità, e perfino il modo di studiare e di apprendere, e alla fine il modo di prendere le decisioni anche importanti.
Nelle scuole e nelle fabbriche si erano formati dei “collettivi”, dove la gente che partecipava arrivava con una predisposizione mentale completamente diversa da quella che attanaglia le generazioni attuali. Nel collettivo si da e si prende, si immettono i propri problemi e si cerca di trarne soluzioni comuni, per se stessi e contemporaneamente anche per gli altri. Senza che questo comporti un conflitto.
La base di un collettivo è la solidarietà umana, la comprensione reciproca. Nel collettivo si concretizza il dialogo, come affermavo in un precedente articolo: la messa in comune fra (“dia”) tutti i partecipanti di un pensiero (logos) che viene dibattuto, criticato, valutato, soppesato e alla fine condiviso.
Senza questa condivisione finale, senza arrivare ad un punto in comune, il dialogo fallisce, e il collettivo si sfascia.
Non era solo un modo di fare, ma ― avrebbe scritto il grande filosofo Ludwig Wittgenstein in "Della Certezza" ― una vera e propria “forma di vita”, un modo particolarissimo di condurre la propria esistenza, non pensandosi più soli. Non come dato occasionale, ma come sistema, come struttura.
Naturalmente, i ragazzi del ’68 lo avevano solo “intuito”, molti lo facevano anche per moda, per non essere da meno degli altri. Ma c’era il gruppo di testa che trainava gli altri, che aveva compreso come — anche rafforzando il proprio credo in una società nuova e diversa — quel modo di essere si contrapponeva ipso facto alla società capitalistica, imperniata sull’individuo, sul merito, sull’affermazione personale, sulla ricchezza a tutti i costi e sul possesso di tutti gli oggetti che con essa si potevano acquistare. Soldi, soldi, tanti soldi. E anche l'amore e famiglia erano inclusi, fra le cose da comprare.
Questo era il modello di vita del boom economico, che aveva diffuso una mentalità arrivista, affarista e accaparratrice nei paesi liberati dai totalitarismi fascisti.
Lo abbiamo chiamato “consumismo”. La società dei consumi.
A quella si contrapponeva un “comunismo” giovanile, che era critica dei valori borghesi e materiali ma soprattutto era una pratica di vita, concreta, reale, attuata, una pratica di vita collettiva. E di pensiero collettivo.
I ribelli del ’68, e del paio di generazioni che la seguirono, rifiutarono di accettare i valori borghesi, di farne il cardine della propria esistenza, dello studio, del lavoro.
E siccome, parafrasando Georges Perec, non era ancora stato scritto un “Manuale di vita collettiva”, occorreva loro sperimentare in prima persona nuovi modelli di comportamento, in grado anche di mettere in tensione progressiva la propria psicologia, il proprio equilibrio mentale e psicofisico, la propria stabilità mentale. La coscienza.
I ragazzi ribelli nelle scuole cominciarono a contestare il sapere borghese, e lo fecero attivando i “collettivi” di classe, di sezione, i collettivi politici che si riunivano per dare modo agli studenti di un istituto di confrontarsi tutti insieme, per decidere le iniziative di contestazione o di partecipazione da proporre agli altri studenti della scuola, e agli altri studenti della città.
Si parlava di tutto, dalla situazione politica interna a quella internazionale (allora c'era il Vietnam al posto dell'Ucraina-Gaza), a come uscire dalle scuole ed incontrare dialetticamente “il quartiere” (oggi si direbbe “i territori”, al plurale ― non ho mai capito bene perché).
Naturalmente, era il collettivo che decideva la partecipazione alle iniziative cittadine o nazionali, alle manifestazioni, alle assemblee cittadine o ai raduni nazionali. Ma i collettivi organizzavano pure momenti di studio (i "gruppi di studio"), momenti anche di vacanza in comune, di festa, i concerti che si tenevano nelle scuole, i cineforum con discussioni finali interminabili, spesso essendo presente il regista o qualcuno del cast.
Tutto bello? Tutto liscio?
Macché! Ai ragazzi della Ribellione toccò scrivere quel Manuale di vita riga per riga, pagina per pagina. Nessuno aveva mai neppure immaginato si potesse svolgere una vita in quel modo. Ed invece stava accadendo. Stava accadendo a Berkeley, stava accadendo a Parigi, stava accadendo a Milano e a Roma, stava accadendo a Berlino. Stava accadendo perfino oltre cortina, a Praga.
Oggi è ancora troppo presto per capire cosa sia stata quella ribellione per le coscienze individuali e per la società nel suo complesso. Ed è difficile pensare che una stagione del genere si possa ripetere, anche perché su quel terreno sono state gettate tonnellate di sale.
Molti ragazzi della Ribellione entravano facilmente “in crisi”.
E non poteva che essere così.
Il conflitto fra i valori che avevi a casa, in famiglia (“tagliati i capelli e vai a lavorare/studiare!”, “pensa a te stesso!”,e così via), a scuola, in chiesa, nella televisione (“Dada-um-pà!”) ti trascinavano in direzione opposta. E la tua anima era dilaniata fra il rituffarsi in una vita conosciuta e nota, e l’altra — un modo diverso di vivere coi tuoi compagni di vita e di lotta una esperienza unica e irripetibile, dove però il protagonista non eri più tu, con la tua soddisfazione immediata dei tuoi bisogni individuali, ma il gruppo, il collettivo nel suo insieme, con logiche e soddisfazioni ancora tutte da scoprire e da inventare.
Questa esperienza stava alla base anche di una grande separazione, fra tutti i gruppi e i gruppetti che fiorirono a decine nella vita politica dell’Europa (allora si chiamavano “gruppi extraparlamentari di estrema sinistra”), e gli aderenti ai Partiti Comunisti, radicati nelle società borghesi dell’Occidente.
Se guardate anche le differenze linguistiche fra queste due tipologie, ve ne rendete subito conto.
I ribelli parlavano di “collettivi”, i tesserati comunisti parlavano di “comitati” (riunioni temporanee di singoli). Le ribelli si organizzarono in "collettivi femministi", dove si praticava l’”autocoscienza” come condivisione con le altre compagne di una gamma molto estesa di pensieri e di pratiche. Dall’altra parte si parlava di “emancipazione economica della donna”.
Spesso i “gruppettari” (come venivano icasticamente definiti i ragazzi ribelli, per l’adesione ai succitati gruppi di estrema sinistra) erano figli di operai o di genitori con la tessera del PCI in tasca, e il conflitto familiare allora esplodeva spesso con toni drammatici perché l'ambiguità di fondo diventava insopportabile.
Insomma, il modo di vita dei Ribelli di tutto il mondo era diverso, collettivo, sperimentale, una continua messa in discussione dei valori in cui credere e per cui impegnarsi, un continuo bilico tagliente fra flusso rivoluzionario e riflusso borghese. I Ribelli non volevano "diventare qualcuno", non gli interessava fare i soldi, comprarsi vestiti, orologi d'oro, macchine sportive, case di lusso.
C’è una bella scena del film Matrix (il primo) dove uno dei ribelli, Cypher (diminutivo di Lucypher) non ce la fa più a vivere di stenti e di tormenti nel collettivo della sua nave, e decide di tradire, di ritornare alla vita borghese. Decide di rientrare dentro Matrix, vale a dire nel mondo illusorio borghese, purché gli agenti Smith (che sono anonimi e mutevoli, uno nessuno e centomila) gli garantiscano agi, piaceri e soddisfazioni individuali adeguate e pre-programmate.
Possiamo prendere la scena a metafora di quel conflitto interiore che per una decina d’anni ha attraversato due o tre generazioni di ragazzi occidentali.
Non volevo però, in queste poche riflessioni, coinvolgervi nell' esaltazione di un qualcosa che non esiste più. Siamo rimasti in pochi “One Kenobi” a sapere e ad apprezzare ciò che di buono la Grande ribellione ha comportato. Ma volevo riflettere insieme a voi sul suo opposto.
Chi non sta vivendo oggi la condizione giovanile, fatica a sentire il Grande Freddo dei nostri ragazzi di oggi. Il loro stile di vita è diventato atrocemente solitario, la loro condizione di marginalità e insussistenza — che normalmente li dovrebbe spingere ad unirsi per lottare insieme ed affermarsi — invece è diventato spirito di branco, di tribù. Non più la scuola, ma i social network. Non amici con cui fare gruppi di studio, o concerti, ma influencer e "amici con un click", in realtà sconosciuti con i quali sbranarsi o fare cose assurde per poi postarle.
Il crollo degli ideali ― confusi troppo semplicisticamente e troppo frettolosamente con la cattiva “ideologia” ― ha spianato e desertificato il panorama intorno a loro. La piramide sociale ha chiuso gli ascensori che portavano in alto, e le caste ristrette al potere non consentono più un accesso da parte di uno strato significativo di giovani esterni. Solo ai loro rampolli.
Inoltre, il terrorismo psicologico e mentale profuso a piene mani per contrastare un terrorismo politico in cui lo stesso potere si era infiltrato e si era reso responsabile di azioni indicibili, hanno fatto il resto. Le montagne di sale di cui parlavo prima. Che hanno avuto come esito l’azzeramento della Ribellione, certo, ma anche l'azzeramento della nostra gioventù.
Le Brigate Rosse, e tutte le organizzazioni loro affiliate, sono stati il vero assassino del Movimento dei ribelli. La loro campana a morto.
Le Brigate Rosse non hanno ucciso solo Aldo Moro. Quello se lo sono ucciso anche i "poteri forti", per mano dei Moretti e delle Balzarani. Ma il grande risultato che hanno ottenuto, e per cui tutte le spie controrivoluzionarie gli sono saltate in groppa, è stata l'interruzione e la morte definitiva della Ribellione, trasformandola in un bagno di sangue. Con parole d’ordine inaccettabili da chiunque volesse lottare per una società nuova, diversa, alternativa. Azzerando e ammutolendo tutti, e passando la parola dai collettivi alle armi.
La loro responsabilità nella storia dell’umanità è elevatissima. Hanno fatto molti, ma molti più danni a sinistra che a destra, e le commemorazioni attuali di quei tempi, non a caso, tralasciano tutto ciò che ho raccontato prima, per concentrarsi sulla storia dei crimini commessi dai terroristi, accomunando quelli a questi, senza comprendere dove sta il vero dramma.
Torniamo ora al nostro ragionamento, che non vuole essere storico ma vuole riflettere sulla situazione attuale dei nostri ragazzi, con la speranza che dalla comprensione nasca un diverso atteggiamento.
Quando ha cominciato a diffondersi la solitudine come forma di vita tra i nostri ragazzi?
Difficile dirlo. Ma lo possiamo monitorare attraverso un gradiente che è contenuto, ad esempio, nelle canzoni. Nel modo in cui i ragazzi, attraverso testi e musica, si riconoscono e si identificano.
Non sto dicendo che le canzoni facciano della sociologia, ma che il fatto che grandi masse di ragazzi si riconoscano in quelle canzoni le trasforma da atti di creatività artistica, veicolata da un mondo di produzione commerciale organizzata (il circo dei gruppi musicali, dei concerti, delle clip video) in manifesti sociali, in una sorta di carte di identità della loro condizione generazionale.
Magari non è così, ma vi propongo alcuni passaggi significativi in quel campo.
Credo che il primo segnale evidente di questa nuova condizione "ontologica" giovanile, individuale, solitaria, e assolutamente glaciale per il loro stato d’animo, sia una canzone di Sting, “Message in a bottle”.
Il testo della canzone, della metafora del naufrago (castaway) che cerca di mandare un messaggio in bottiglia al mondo nella speranza che “qualcuno” lo trovi e lo venga a salvare, si conclude con una immagine sorprendente, che ci fa capire come il "collettivo" si sia trasformato in qualcos’altro di natura affatto diversa.
Ecco la strofa finale della canzone:
“Walked out this morning, I don't believe what I saw
”
Hundred billion bottles washed up on the shore
Seems I'm not alone at being alone
Hundred billion castaways, looking for a home
"Stamattina sono uscito, e non riesco a credere a ciò che ho visto.
".
Centinaia di miliardi di bottiglie spiaggiate sulla riva del mare
Sembra che non sia l'unico ad essere solo
Cento miliardi di naufraghi, in cerca di una casa
Questo è il manifesto di una generazione, un presagio che non si era ancora realizzato con la sua geometrica potenza all’epoca in cui Sting la proponeva dai palchi (1979), ma certo i ragazzi che lo applaudivano e che compravano i suoi dischi si riconoscevano in pieno dentro quel testo, centinaia di migliaia di turaccioli nella risacca, aspettando lo schiaffo d’onda che avrebbe scagliato la bottiglia a frantumarsi sulla scogliera.
Non c’è tempo qui per analizzare decine e decine di testi come questo. Concedetemi solo un'altra canzone, e se tirate un filo rosso fra l'una e l'altra capirete bene cosa intendo dire.
Vasco.
“Siamo soli”.
“Ah, non ci posso credere
”
Sei nervosa e, e non sai perché
Eh, non è mica facile
Fai l'amore e, e non pensi a me
Eh, cosa vuoi rispondere?
Siamo qui
Non mi senti
Eh, noi parliamo spesso, sì
Ma è così
Siamo soli
Eh, tu non puoi pretendere
Siamo qui
E siamo vivi
Eh, tutto può succedere
Ora qui, siamo soli
Questa non è più una richiesta di aiuto, come in Message in a bottle, ma è un manifesto di sopravvivenza individuale. Al tempo dei Terminator finanziari. È un urlo di disperazione nel vuoto, sapendo che anche due, insieme, fanno sempre uno. E tre, insieme, danno sempre uno.
Già dal titolo il brano non richiede ulteriori specifiche. Le richiedono invece tutta un’altra serie di considerazioni. Non so se avete fatto la prova ad andare ad un suo concerto, di Vasco, ma ne potete avere facilmente un’eco anche guardandone i filmati su Youtube.
A differenza di molti altri artisti, e di molti altri concerti, i ragazzi che vanno ai concerti di Vasco non lo lasciano solo, ma cantano prepotentemente insieme a lui. Non si riconoscono, si identificano in lui: è molto più un transfert che una adesione o un apprezzamento estatico. Non stanno zitti, ad ascoltare, per poi applaudire, ma è un unico infinito coro, cantano loro. Al punto che una volta Vasco si è messo da parte, ed ha lasciato che il suo pubblico cantasse quasi al posto suo. Guardate bene cosa significhi, cercate di capire cosa succede a quelle vite spericolate. Youtube non lo fa condividere, ma se volete fare la prova lo trovate qui: "https://www.youtube.com/watch?v=sjoqahPOH2c"
I nostri ragazzi sono nel Grande Freddo. Sono il Grande freddo. Una condizione disperante, che li ricaccia continuamente indietro.
E mentre la Ribellione delle generazioni del post-boom-economico era una forma di Redenzione, e di riscatto, e nello stesso tempo si era avviata una forma di mutazione antropologica, per i ragazzi di oggi questa redenzione non c’è. C’è solo marginalità, precarietà, abbandono da parte della società dei vincenti e delle caste.
E allora la vita si divarica fra una normalità formale, la società con le sue regole e le sue leggi, quella che vedi nelle pubblicità sorridenti e soddisfatte, i suoi supermercati sui territori e online, i suoi scopi globalistici che smerciano individualismo e neoliberismo a ciclo continuo, e una vita “border line”, fatta di un lavoro scombinato purchessia, un cantuccio dove rintanarsi e non essere attaccati o disturbati, e droga come sostituto dell’ideologia "cattiva".
Chi è fortunato si trova un lavoro stabile, ma non per merito, quasi sempre per familismo. I figli fanno lo stesso mestiere dei padri, come nelle gilde medievali, e guai a ribellarsi. Le caste si chiudono a riccio. Chi è dentro è dentro (pochi). Chi è fuori: good luck, le scorciatoie della criminalità e del malaffare sono le uniche che consentano rapidamente di arrivare al sogno individualista.
Per un Obi One Kenobi come me, lo dicevo prima, l’unica cosa sensata da fare è cercare di passare tutta la mia conoscenza, tutte le mie competenze, buone o cattive che siano, ai ragazzi. Fare loro da trampolino da rampa di lancio. Dovrebbe essere il fine di un'intera società, ma non è così. Nel mio piccolo, qualcosina la faccio. Ma è pochissimo, una goccia nel mare dei turaccioli nella risacca.
Ma per la nostra società nel suo complesso, che è ridotta ad una sorta di crisalide vuota, dove esternamente le apparenze e le forme ci sono tutte e vengono rispettate (come la Costituzione), ma dall’interno della quale la farfalla della vita è volata via — la valutazione, la considerazione e il rispetto verso i nostri ragazzi deve, ripeto, deve assolutamente cambiare.
Finché li considereremo dei bambocci stesi sul divano ad aspettare il reddito di cittadinanza, o figli di ricchi radical-chic che vanno a picchiare poliziotti figli del popolo (un Pasolini d'antan in salsa Forza Italia, roba da far rabbrividire) ci faremo sempre più male, molto male.
Napalm su noi stessi.