La SS n.126, che sale per le colline sulcitane, si biforca nell’estremo sud-ovest della Sardegna in direzione dell’Arcipelago del Sulcis. Sant’Antioco l’isola più grande, prima che i punici realizzassero l’istmo artificiale di collegamento, poi perfezionato dai romani. Cinque chilometri di congiunzione alla ‘terraferma’ che fanno da argine allo Stagno di Santa Caterina gremito di fenicotteri rosa.

La presenza di questa specie dalla linea elegante, ma anche un po' goffa sulle sue lunghissime zampe, che vive in grandi gruppi e si sposta lentamente ignorando il traffico delle auto vicinissime, dà una sensazione di tranquillità e leggerezza. Comincio ad abituarmi alla loro vista come ai numeri delle strade, a cui prestare attenzione. Sbagliare è facilissimo.
Lungo la via d’accesso all’isola, tra la laguna e il mare, spiccano due menhir neolitici chiamati, per tradizione popolare, Su Para e Sa Mongia (il frate e la monaca); dovevano delineare l’area che divideva l’isola dalla terra madre. Le due pietre antiochesi, erette durante il Neolitico recente (3300-2500 a.C.) e di forma vagamente antropomorfa, sono distanti tra loro. La ‘monaca’ è alta due metri e il ‘frate’ tre. La leggenda popolare, condizionata dalla morale di una sessualità proibita e infamante, racconta una storia fatta di amori illeciti e punizione divina; sarebbero stati pietrificati per i loro peccati.

Arrivo nella città di Sant’Antioco, l’antica Sulky che diede il nome alla regione del Sulcis. Il nome attuale, invece, deriva da Antioco, un medico proveniente dalla Mauritania, esiliato in Sardegna e condannato a lavorare nelle miniere di piombo per non aver abiurato la fede cristiana.

Popolata da undicimila residenti, e da decine di migliaia di visitatori in estate, è la città più antica del Mediterraneo. Una delle prime metropoli sin dall’età Imperiale Romana, in parte costruita su una necropoli cartaginese.
Cambiano le epoche, restano i monumenti e il loro utilizzo. Una parte della necropoli venne riutilizzata dai più poveri, is Gruttaius (i grottai) che vivevano di espedienti. A più riprese, dalla fine dell’Ottocento, durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e fino agli anni Sessanta, vissero nelle camere sepolcrali (il villaggio ipogeo) trasformandole in abitazioni, come è accaduto con i Sassi di Matera.
L’isola è tutto un susseguirsi di baie e di calette. La costa ovest è il paradiso dei nuotatori provetti e dello snorkeling. Cala Lunga, Cala Sapone, Cala Grotta, Is Praneddas con l’Arco ‘dei baci’ sono le più belle, ma occorre fare attenzione se soffia il maestrale.

La costa orientale è più accessibile, e adatta ai meno avventurosi. La cittadina si trova a sud di una grande area archeologica, raggiungibile dal lungomare Cristoforo Colombo, sulla collina che domina l’abitato intorno al Fortino sabaudo, Sa Guardia de Su Pisu.

Abbandonata l’auto al primo parcheggio autorizzato (i controlli dei vigili urbani e della polizia sono continui), proseguo a piedi per Corso Vittorio Emanuele, perché è alberato e a 40° fa la differenza, in direzione della Basilica di Sant’Antioco Martire costruita sulla tomba del Santo.

È il cuore pulsante dei credenti dell’isola e conserva parte delle reliquie del martire, patrono della città e di tutta la Sardegna. La basilica è inglobata nell'edificio ex municipale e dalla casa parrocchiale; resta la facciata ottocentesca che si affaccia sulla piazza. L'accesso è libero, mentre l'ingresso alle catacombe è a pagamento e prevede una visita guidata durante la quale non è consentito scattare fotografie. Si accede dal braccio destro del transetto della chiesa.

Le catacombe sulcitane sono uniche in Sardegna; hanno riutilizzato ipogei punici preesistenti, collegandoli fra loro con corridoi e cunicoli per creare un cimitero comunitario, secondo la prassi cristiana. All’ingresso c’è la tomba che ha custodito il corpo del Santo dal 127 d.C. fino al 1615.
Il legame degli antiochesi con il martire è eterno. Ogni anno viene rinnovato da un rito identico da secoli: 15 giorni dopo Pasqua il simulacro del santo viene condotto in processione per la città.
Tre musei aiutano nella conoscenza di questa popolazione: quello archeologico “Ferruccio Barreca”, il Museo etnografico e il MuMa-Museo del mare che offre uno spaccato sulla vita dei pescatori e dei maestri d’ascia. Il tempo a disposizione non mi permette una visita.
Qui vivono gli ultimi maestri del bisso, la seta ricavata dai filamenti prodotti dalla Pinna Nobilis, un mollusco marino raro, un incrocio tra una cozza ed un’ostrica. Produce una sorta di collagene cheratinato che, a contatto con l’acqua, si solidifica diventando un batuffolo marrone. Viene poi lavorato e sbiondato; solo allora diventa bisso. Chiara Vigo è l’ultima raccoglitrice e tessitrice del tessuto che viene dal mare.

Riprendo la SS126; a questo punto c’è poco da sbagliare, è l’unica strada che attraversa l’isola fino a Calasetta, il porto dei traghetti per Carloforte nell’isola di San Pietro. Durante l’attesa per l’imbarco riesco a ricaricare la batteria della macchina fotografica, consapevole che durerà poco; la temperatura rimane costante.

Mezz’ora di navigazione e arrivo sull’isola, tanto piccola quanto densa di storia. Si dice che il pesce San Pietro prenderebbe il suo nome proprio da qui, dove si presume che il santo abbia trovato riparo durante una tempesta mentre tornava dall’Africa verso Roma.

Sant’Antioco e San Pietro hanno molto in comune.
I progenitori degli attuali carlofortini provenivano dall’isola tunisina di Tabarka dove si erano insediati, intorno al ‘500, per raccogliere il corallo per conto dei Lomellini di Pegli.
Quando due secoli dopo iniziarono a fuggire, a causa del regime del Bey, Carlo Emanuele III destinò loro l’isola di San Pietro e l’Isola di Sant’Antioco nella seconda ondata migratoria. Il paese dell’isola di San Pietro, in onore del re, fu chiamato Carloforte.

Da questo deriva l’uso di chiamarli tabarchini, come la loro lingua, una variante locale conservativa di quella parlata a Genova e a Pegli. In virtù di questi legami storici, nel 2004 Carloforte è stato riconosciuto comune onorario della Provincia di Genova e ogni anno rinnova le celebrazioni di gemellaggio con Pegli.
Di fronte al porto, allo sbarco dei traghetti,
è impossibile non notare il monumento ai caduti
del mare su cui sovrasta la statua della Madonna
con il Bambino

e il monumento a Carlo Emanuele III di Savoia nella piazza principale del paese, realizzato dal genovese Bernardo Mantero (1796). Inizialmente era solo la statua del re; due anni dopo furono aggiunte le statue laterali di uno schiavo africano e una tabarchina.

I carlofortini lo chiamano affettuosamente “Pittaneddu”, dal nome di un compaesano a cui mancava un braccio. In realtà con l’invasione dei francesi a fine ‘700, per timore che la statua fosse abbattuta, i carlofortini pensarono di occultarla sotterrandola in una buca non molto profonda. Il braccio rimase visibile e furono loro stessi a mozzare.
A inizio dell’800, a Carloforte fu riconosciuto il privilegio di Città e lì fu istituita la Regia Dogana. Il porto era l’unico della costa sud-occidentale sarda capace di accogliere e smistare le imbarcazioni cariche di minerale proveniente dal Sulcis verso le industrie continentali. Grazie a questa peculiarità, la città visse un lungo periodo di floridezza.

Quando si arriva sull’isola di San Pietro, la prima impressione è la luce di un cielo reso terso da tutti i venti, preferito da molte specie di uccelli. La campagna è selvatica e bella da esplorare a piedi; il mare ancora di più. Un angolo di paradiso che greci e romani chiamavano Isola degli Sparvieri: calette, insenature, rocce a picco sull’acqua e sabbie bianche.
A una manciata di chilometri a sud del paese si trova una coppia di faraglioni isolati di rocce vulcaniche, cui corrisponde un’età di circa 15 milioni di anni: il monumento geologico simbolo dell’Isola di San Pietro. Negli ultimi anni, per via delle forti mareggiate che caratterizzano la costa meridionale dell’isola, hanno subìto danni e il faraglione più basso si è dimezzato per diversi crolli.
Una sosta al bar è necessaria. Non tanto per stanchezza, che pure non manca; l’alta temperatura lascia senza forze. La ragazza che viene a prendere le ordinazioni è curiosa, estroversa e sorridente. Sente il nostro accento e, appena dichiarata la provenienza, mi comunica che una ragazza abruzzese si è da poco trasferita sull’isola aprendo un’attività di commercio di salumi. Approfitto della sua disponibilità e le chiedo notizie di Carloforte. È felice di parlare e mi racconta la storia della Madonna dello Schiavo, la loro protettrice. La chiesa è proprio lì vicino.

Riguarda un’incursione, a fine ‘700, di tre navi corsare algerine che sbarcarono nel porto di Carloforte. La metà degli abitanti furono catturati, deportati e tenuti schiavi a Tunisi. Un paio di anni dopo, lo schiavo Nicola Moretto, che era riuscito a farsi benvolere dal suo padrone tanto da godere di una certa libertà, trovò sulla spiaggia di Nabeul, vicino Tunisi, una statua di legno di tiglio scuro, consumato e corroso dalla salsedine. Conservava ancora i lineamenti di una Madonna Immacolata. Il ragazzo la nascose e la riportò a casa senza mostrarla agli altri servitori musulmani. La consegnò a don Nicolò Segni e tutta la comunità acclamò questo arrivo come un segno che la Santa Vergine non li aveva abbandonati.
Il periodo di schiavitù finì tre anni dopo, grazie al cospicuo pagamento di Carlo Emanuele IV di Savoia per farli ritornare in Sardegna. La piccola statua della Madonna fu portata a Carloforte e fu costruita l’omonima Chiesa.

Continuo a parlare con la ragazza che nel frattempo si è seduta vicino a me. Le chiedo della tonnara, visto che ci sono negozi e pubblicità ovunque sull’ottimo tonno di Carloforte protagonista del Festival estivo Girotonno, una vera e propria manifestazione gastronomica.
L’espressione del viso cambia nel tentativo di giustificare le antiche tradizioni dei pescatori.
La mattanza è considerata dai più una tecnica di pesca cruenta, ma secondo i tonnarotti (i pescatori di tonno) è decisamente più rispettosa dell’ambiente rispetto alle reti d’altura e alle tecnologie usate oggi per catturare i banchi di pesci. Eppure qualche volantino di protesta gira anche sull’isola.
La tonnara di Carloforte è l’unica ancora attiva nel Mediterraneo e l'ultima famiglia italiana che detiene una tonnara in funzione ininterrottamente dal 1654 è quella di Salvatore Greco.
Nel frattempo il traghetto per il ritorno sulla ‘terraferma’ è attraccato. La ragazza mi saluta con un sorriso e un po' di malinconia.
(3. continua)
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