MEKONG
FIUME MADRE
CINQUE PAESI
E 130 DIGHE

Fatevi un’idea (aridamente contabile) della sua potenza. Sulle sue sponde vivono quasi sessanta milioni di persone ed è considerato la “ciotola di riso” del mondo intero. “Madre di tutte le acque” (così dicono) e padre di cinque Paesi, il Mekong ne ha cambiato la vita, la storia e - nell’ultimo scorcio di secolo - sta mutandone rischiosamente l’economia. Il suo spirito aleggia, danneggia e protegge come un padrone l’esistenza di Yunnan (Altopiano del Tibet, Cina) Myanmar, Cambogia, Laos per poi perdersi nel delta del Vietnam. Lo chiamano il fiume dei Nove Draghi per via dei nove affluenti (giganteschi) che sboccano in mare e sembra sia stato individuato da Marco Polo già nel XIII secolo, tuttavia a scoprirlo davvero fu un missionario portoghese del 1500. È lungo 4800 e qualche decina di chilometri e il suo bacino è stimato in 810.000 chilometri quadrati di raccolta. Di acqua, insomma, pare ce ne sia in abbondanza, peccato che l’inquinamento abbia dimezzato le oltre 500 specie di pesce che da sempre il Mekong offre ai suoi popoli per sfamarsi.



Perché? È stato utilizzato come scarico industriale da ben 210 siti per anni, con il risultato che oggi figura tra i dieci fiumi più inquinati al mondo. Dentro c’è di tutto: metalli pesanti, plastiche e perfino l’arsenico. Non solo. Come abbiamo già cercato di spiegare (nella prima puntata di questo viaggio in Laos), la Cina ha deciso nell’ultimo ventennio di costruire sempre più dighe per soddisfare il suo bisogno di energia elettrica a scapito dei paesi più poveri bagnati dal Mekong. Laos in primis. Oggi le dighe nei cinque Paesi sono circa 130. L’obiettivo finale è quello di bloccare l’acqua nella stagione delle piogge e tirar su altre dighe per sfruttarla quando arriva il periodo secco dell’anno, sempre più esteso a causa del cambiamento climatico. La guerra dell’acqua, quindi, è appena agli inizi.



Oltre agli assai seri cahiers de doléances c’è, comunque, la vita della gente. In Laos la difficile esistenza addolcita dal buddismo si specchia per mille chilometri nel fiume (è il tratto più lungo tra i cinque Paesi che attraversa) e sul Mekong rispecchia la propria quotidianità. La domenica diventa passeggiata con bici e motorini carichi di intere famiglie: avanti, avanti fino a fermarsi sulle sue rive più verdi per il picnic della festa. O magari per la preghiera dei monaci che si piazzano tra le fronde basse gli alberi in solitario silenzio.



E ancora Mekong: il bagno dei bambini, i panni da lavare, le tuniche da tingere, il lungofiume cittadino e popolato di negozietti, i templi, gli altarini, il muoversi dei bufali d’acqua accaldati dopo il pascolo. E poi c’è il lento andare delle canoe dove prendono posto i turisti a due a due. E la successiva sosta in improvvisati chioschetti dove mangiare mango succulento e bevanda di zucchero di canna. A volte sui banchetti ci sono anche spiedini di rane, cavallette arrostite, serpentelli, di fronte a cui le coscienze vegane rabbrividiscono. Ma qui si mangia di tutto, spesso senza pensarci troppo. La bicicletta, dicevo, è il mezzo principe per spostarsi, insieme alla barca: energia meccanica-umana. La stessa che si usa negli allevamenti di gamberetti. Oppure tra le risaie che le acque ospitano per chilometri e chilometri.



Dimenticate le linee rette, il Mekong è sinuoso nel suo correre al delta vietnamita e, superata Vientiane, curva e punta a sud. Poi, arrivato nel Laos meridionale, si insinua all’interno, nella regione di Pakse. Ed è qui che si trova, da ormai ventiquattro anni, l’unico ponte che mette in comunicazione le due sponde del Paese. Proseguendo verso nord, il fiume dei Nove Draghi si allarga dando vita all’area del Si Phan Don, ovvero delle Quattromila Isole. In realtà non si sa quanti siano davvero gli istmi, le isolette, gli atolli che si vedono tra una riva e l’altra. Spesso non si riesce a distinguere quale sia la terraferma e quale l’isola. Le oasi fluviali possono essere visitate a piedi, in bici o attraversando ponti di bambù. Tanti anche gli approdi per le tre isole più grandi: Don Khong, Don Dhet, Don Khon caratterizzate da locande, b&b, bar e locali che animano con musica e drink le serate dei ragazzi europei. Un’eccezione per il quieto Laos, eccezione che fa il paio con la movida vissuta nella splendida Luang Prabang.



E poi ci sono le cascate. Tante, imponenti, a volte impetuose come quelle di Khone Phapeng che delimitano il confine con la Cambogia. Alte più di venti metri, si snodano lungo il Mekong alternandosi a rapide selvagge che catturano i viaggiatori per quasi dieci chilometri. Altre volte più dolci come quelle di Kuang Si che con i loro tre livelli (si trovano a una trentina di chilometri da Luang Praband) formano prima piscine poco profonde e poi via via più alte, dove fare il bagno e nuotare. La caduta principale è di quasi sessanta metri, l’acqua è cristallina, la calura dura da reggere e il refrigerio più che voluto. Così i laotiani (ma anche i turisti) si affollano nei bacini come nei bagni sulla spiaggia di Rimini. Lo spettacolo svilisce la bellezza della natura e le bizzarrie del grande Fiume.

(3. fine)

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