La voglia di pace è talmente forte che sta annebbiando la percezione del mondo occidentale, portando tutti a vedere ogni decisione presa da paesi “non allineati” in chiave ostile e militare.
Eppure, la Storia ha ampiamente mostrato come il potere militare non accompagnato da un riconosciuto potere economico, industriale, logistico, culturale e tecnologico sia inefficace e poco duraturo.
Una decina di anni fa la Cina annunciò il rilancio della storica iniziativa della Via della seta marittima. Il termine “Via della seta” fu coniato verso la fine del 1800 e riassumeva la storia degli scambi tra Oriente e Occidente, risalenti al 200 a.C. Per apprezzare come l’Oriente abbia giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo del mondo occidentale basti pensare alle potenze navali inglesi, francesi, olandesi, portoghesi e spagnole e i loro rapporti con la lontana Asia. Senza escludere, ovviamente, Venezia.
L’iniziativa cinese, in questo ultimo lasso di tempo, ha proseguito senza interruzione. Se al momento dell’annuncio la Cina aveva già investito in 44 porti, oggi il numero ha raggiunto 150 e la presenza interessa porti in ogni parte del mondo.
Non si parla di rifacimento di banchine bensì della costruzione di una infrastruttura operativa moderna e prevalentemente a carattere commerciale. Per capire l’importanza per il paese ospitante non bisogna essere profondi conoscitori di Geografia Economica. Basta l’immagine di un moderno “porta container” per capire l’impatto economico che il suo approdo comporta.
L’occidente è ossessionato dal rischio che la presenza cinese possa svilupparsi in basi navali a carattere militare. Sembra tuttavia evidente che il Partito Comunista Cinese sia convinto che il vero potere è quello economico, in grado di influenzare i rapporti commerciali. L’investimento della Cina nelle infrastrutture portuali è il veicolo per gestire le “supply chain” mondiali, oggi forse più importanti di basi navali, essendo così in grado di regolare il trasporto internazionale di beni.
Per meglio capire il concetto, basta osservare la mappa degli investimenti cinesi in porti effettuati o in via di realizzazione.
Si contano circa 70 progetti di investimento. Il più importante è in Tanzania, dove 4 progetti ammontano a un investimento di 10,5 miliardi di dollari. Tra i primi 20 progetti, la metà sono in paesi dell’Africa e il valore totale di questi primi venti supera i 51 miliardi di dollari.
La mappa spiega anche le ragioni per cui un paese voglia aderire al gruppo BRICS, nonché il ruolo strategico che può avere nel panorama del commercio internazionale. Infatti se guardiamo il Brasile il completamento dell’investimento di circa 1 miliardo di dollari nel porto di Parangua ha reso la Cina il maggior destinatario di cereali e carni prodotti in Brasile. L’esempio valga come dimostrazione che l’interesse cinese, al momento, è tutt’altro che militare.
La divisione del mondo - tra paesi “sviluppati” e non - vede la Cina fortemente presente in quegli stati che possono fare affidamento su risorse limitate e una popolazione numerosa ma povera. Di fatto, stiamo parlando di una versione moderna del modello coloniale dove però la presenza straniera ambisce a uno scambio tra le parti e non solo a un flusso uni-direzionale di merci.
È chiaro che in un mondo simile, posto dinanzi a una scelta, un paese avrebbe maggiore interesse a una siffatta collaborazione piuttosto che a fare parte della NATO.
Cosa c’entra con le elezioni presidenziali negli USA?
La cinese CATL (Contemporary Amperex Technology Co. Limited) nasce nel 2011, appena 13 anni fa ed è “specializzata nella produzione di batterie agli ioni di litio per autoveicoli elettrici e sistemi di accumulo di energia, nonché di sistemi di gestione della batteria” (Wikipedia).
Come è facile immaginare non c’è un veicolo elettrico che non monti batterie della CATL: Tesla, Ford, VW, BMW, Mercedes, Stellantis, Nissan, Kia e Toyota. E come sappiamo non c’è casa automobilistica che non abbia investito o stia investendo nel veicolo elettrico.
Le batterie sono composte da minerali vari tra cui il cobalto, il nickel e il litio.
Il 50% del cobalto estratto viene dalla Repubblica del Congo, la maggior parte delle riserve di nickel si trova in Indonesia, Australia e Brasile mentre il 75% del litio proviene dalla Bolivia, Cile e Argentina.
Come si nota dalla mappa degli investimenti portuali cinesi, la Cina ha investito in ognuno dei paesi appena menzionati. Non l’ha fatto nella Repubblica del Congo solo perché il paese non affaccia sul mare. In compenso ha investito in tutti i paesi circostanti, che affacciano sull’Atlantico e sull’Oceano Indiano.
La Byd cinese è il maggiore produttore mondiale di veicoli elettrici (ibridi e plug-in), seguito dalla americana Tesla. La particolarità del produttore è la sua integrazione verticale che consente di tenere i costi estremamente bassi con conseguente effetto sui prezzi di vendita, anche essi molto bassi rispetto alla media. Indubbiamente, l’approvvigionamento di materie prime a basso costo offre un vantaggio competitivo incomparabile e la strategia attuata dalle autorità cinesi di gestire, o possedere, le infrastrutture portuali sta dando, meglio dire ha dato, alla Cina il controllo della maggior parte della supply chain mondiale.
Le sanzioni che gli USA vorrebbero applicare sulle auto cinesi, già oltre il 35%, potrebbero salire. C’è chi propone addirittura un dazio del 100% a tutela dell’industria automobilistica di Detroit.
Se così fosse, che ne sarebbe della joint venture tra Tesla e CATL? E come andrebbero a modificarsi i rapporti tra CATL e tutte le case automobilistiche, anche americane?
L’elettore che supporta il candidato deciso ad erigere barriere commerciali nei confronti della Cina forse non sa che non solo sarebbe controproducente (come già accaduto per i semi-conduttori) ma anche impossibile.
Il “decoupling” (il rendersi indipendenti) dalla Cina, anche per bocca della Ministra del Tesoro USA Janet Yellen, non è un’opzione.
E credere a chi lo propone sarebbe sciocco.
(3. continua)