SAIGON
IL TURISMO
ALLA MEMORIA
DEI VIETCONG

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A Saigon, anzi Shaigon se vogliamo renderne la pronuncia corretta, ci accoglie un’altra Anna. È un vulcano ’sta ragazza. Ha sempre qualcosa da raccontare, un cibo da farti assaggiare, una pianta da farti annusare. Non sta zitta un momento, per nostra fortuna, perché è una miniera di informazioni.



Mentre ci accompagna in bus all’Hotel, Anna ci illustra il programma del giorno dopo e ci dà indicazioni per qualche posto dove cenare (abbiamo il solito problema che dopo le nove le cucine dei ristoranti chiudono, salvo poche eccezioni). Io mi assento a fantasticare. Mi risuonano in mente l’arpeggio e la voce di Joan Baez che canta Saigon Bride, una delle tante canzoni pacifiste degli anni ’70: “Farewell my wistful Saigon bride, I’m going out to stem the tide…”. Ne ho dimenticato gli accordi e le parole, parole e note che non servirono a fermare la guerra, o forse sì, chi lo può dire? Mi trovo a Saigon, in questo posto lontanissimo che nella mia adolescenza sembrava il centro del mondo, perché era nei telegiornali, nei film, nelle manifestazioni studentesche, nelle canzoni dei miei idoli con la chitarra. Sono qui a fare il turista, cinquant’anni dopo quei tempi, quelli di “Hair”, di “The Age of Acquarius”, di “Give peace a chance”, e cerco emozioni ormai svanite, dissolte, evaporate. La mente allora torna alla Duras e al suo libro: "La visita a Saigon prevede anche il quartiere cinese, Cholòn?" chiedo ad Anna ridestandomi dal mio temporaneo straniamento.


(Il museo della guerra)


Anna mi risponde che non è previsto nel nostro giro e mi chiede come mai sono interessato. Nomino il romanzo che ha suscitato la mia curiosità e scopro che Anna ne è una vera e propria cultrice. Lo conosce a fondo, ne ama i luoghi, i protagonisti. Ribadisce che è una storia vera, sa che un figlio del protagonista è ancora vivo e abita in America. Se domani mattina siamo disponibili ad anticipare di mezz’ora la partenza per Cu Chi, nel pomeriggio lei può accompagnarci a Cholòn e mostrarci i luoghi del libro. Sono interessatissimo, ma sto zitto. Sottrarre una ulteriore mezz’ora di sonno al gruppo per la mia curiosità mi sembra a dir poco scortese. Invece i miei nuovi amici, in testa Marilia, si dichiarano interessati e curiosi. Leggeranno il libro al ritorno, ma sono stuzzicati a vedere i posti. Ripeto: potevo trovare compagnia migliore?


(Il pesce piccante)


La cena è allo Street Food Market di Ben Thanh, una specie di mercato in cui puoi scegliere il cibo, fartelo cucinare e poi portartelo ai tavoli per consumarlo. Il pesce che dividiamo io e Massimo è incredibilmente piccante: da oggi in poi il nostro mantra, quando ordiniamo, sarà “no spicy”!

Approfittando del fatto che abbiamo due notti a Saigon lasciamo un po’ di cose alla lavanderia dell’albergo. Saranno pronte domani a costi più che ragionevoli. Siamo partiti leggeri e abbiamo sottovalutato il fatto che da queste parti potrebbe non bastare cambiarsi due volte al giorno.

Al mattino partiamo per Cu Chi alle 7.00. Quasi due ore di viaggio. Ci fermiamo in un negozio a metà strada, dove compriamo gallette di riso dolci e salate e vediamo come si prepara la carta di riso in cui si arrotolano gli involtini primavera di cui stiamo facendo scorpacciate. Ci cimentiamo a cuocere queste sottilissime crepes di farina di riso e posso affermare con orgoglio che non me la cavo malissimo.

Arriviamo a Cu Chi. Siamo in piena giungla, ben spruzzati del più potente spray antizanzare in commercio, pantaloni lunghi, scarpe chiuse e cappello. Qui si visita la rete di tunnel, magazzini, dormitori, armerie, cucine, infermerie, posti di comando. Botole 20x40, troppo piccole per molti di noi, dalle quali i Vietcong uscivano sparando per poi dileguarsi di nuovo sottoterra. Cunicoli scavati a mano, con ingegnosi sistemi per mascherare le fuoriuscite di fumo e di rumore (là sotto cucinavano, si riunivano, si curavano, cucivano abiti, fabbricavano scarpe con la gomma dei copertoni e appena possibile uscivano per morire o ammazzare americani). Mujer si avventura con Elio e Sofia in un cunicolo e percorre qualche decina di metri a quattro zampe. Io, vigliacco e pigro, passo la mano. Il posto rende molto bene l’idea della guerriglia che si è combattuta qui. Due cose a me e Mujer non piacciono affatto: il poligono di tiro in cui a fine giro è consentito ai turisti di sparare a pagamento con i fucili dell’epoca e l’atmosfera ridanciana, da gita scolastica, con la quale la maggior parte dei turisti (in particolare americani) affronta questo luogo in cui, non dovremmo dimenticare, in tanti hanno trovato morte e sofferenza.


(Cu Chi, l'infermeria)


Torniamo a Saigon per il pranzo e subito dopo a Cholòn, la più grande chinatown del Vietnam. Dal bus Anna ci mostra la scuola francese, la stessa che compare anche nel film, in cui la protagonista de "L’Amante" frequentava il liceo. Poi, a piedi attraverso l’enorme quartiere, andiamo alla ricerca della garçonnière che ospitava gli amplessi della scandalosa coppia del romanzo. Al posto del vero nido c’è oggi un negozio. Più riconoscibile, a cominciare dalla porta finestra su una stradina caratteristica, è invece la stanza in cui è stato girato il film, pure essa trasformata in negozio.


(Una casa di Cholon)


Loro, gli amanti, dal loro rifugio sentivano chiaramente i rumori che provenivano dall’esterno, dalla via animata dai commerci del pomeriggio. Per me è stato un po’ come entrare sul set del film. Prima di salire di nuovo sul bus Anna ci ha intrufolato in un pittoresco tempio cinese, non chiedetemi di quale credo perché non l’ho capito, poi di corsa al Museo della Guerra e all’enorme mercato coperto di Ben Thanh, a pochi isolati dallo Street Food Market in cui avevamo cenato. Due visite previste dal programma, abbastanza frettolose e tuttavia necessarie, l’una per capire la drammaticità delle vicende della guerra e l’impatto sulla vita e, si spera, sulla memoria delle persone, l’altra, banalmente, per completare l’acquisto delle magliette ricordo per i figli.


(Il mercato di Ben Thanh)


Ultima tappa la zona commerciale Dong Khoi col Teatro dell’Opera e, al centro della piazza, l’incombente statua di Ho Chi Minh. Chiedo ad Anna se gli abitanti chiamano questa città Ho Chi Minh City o Saigon e lei mi sorride: "Pensi davvero che in quarant’anni puoi cancellare tanti secoli? Ufficialmente, per l’amministrazione e per la politica, Saigon è il distretto uno della città Ho Chi Minh. Per la gente di questa città Saigon è Saigon". Mi ricordo allora del discorso con Tuàn-Toni sulla guerra civile e chiedo ad Anna se per i Vietnamiti del Sud si combatté una guerra contro gli americani o una guerra civile contro i Vietnamiti del Nord. Ci pensa un attimo, poi: "Qualcuno anche qui ha creduto a Ho Chi Minh. Era la persona giusta, un uomo semplice che viveva in modo semplice e parlava di cose belle, uguaglianza, diritti, divisione della ricchezza. Ma la maggior parte stava bene come stava, col governo filo americano. Sì, fu una guerra civile, anche se non si può dire. E a noi non importa molto che non si possa dire. La cosa importante è che non c’è più la guerra".


(Il teatro dell'opera e la statua di Ho Chi Minh)


Arriva improvvisa la pioggia. Forte. Avrebbe dovuto disturbarci tutti i giorni secondo le consuetudini della stagione e invece è il primo episodio. Sarà stato lo “zio” (ad Hanoi lo chiamano così) Ho Chi Minh a mandarla, irritato perché abbiamo scoperto gli altarini. Attraverso la galleria di un centro commerciale raggiungiamo il nostro autista Bellicapelli, così nominato per la fluente capigliatura, e torniamo in hotel.

Cena allo Street Food Market con Lori a Massimo e poi a dormire. Domani altra levataccia.

(4. continua)

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