TRUMP E VANCE
GLI EREDI
DEL SUD
SCHIAVISTA

Quando Donald Trump chiama la sua rivale Kamàla, e non Kàmala, non è solo perché agli americani viene naturale mettere l’accento sulla penultima sillaba e conoscono poco le parole sdrucciole. Come ha scritto il linguista John McWhorter sul New York Times, Trump sta mandando segnali a quella parte del paese che si crogiola nell’ignoranza degli accenti stranieri, anzi, di tutte le cose straniere; in poche parole, al suo elettorato.

Anni fa quell’America ignorante e provinciale era dappertutto, come se la diversità dei suoi cittadini non fosse costitutiva del paese. Ricordo ancora la “WOP salad”, forse una distorsione di “guappo” ma comunque termine insultante per definire un italiano, servitami negli anni Novanta in un ristorante del Texas: lattuga, pomodoro, cipolle, cetrioli, e imitazione gorgonzola. Oggi il cambiamento è evidente: la rucola, qui nota come arugula o rocket all’inglese, impera, come il balsamico e la mozzarella, e nessuno viene insultato per questo.



Ben più pesanti sono gli altri segnali che Trump manda agli elettori nel suo modo falsamente spontaneo. Quando dice che Kamàla (il cognome viene spesso ignorato) si presenta solo ora come nera mentre avrebbe sempre messo avanti la sua identità sud asiatica di indiana, Trump non solo vuole distanziare la Harris dall’elettorato nero, provando a far dubitare dell’autenticità; vuole anche significare che l’identità razziale è unica per ciascun individuo, e non può essere scelta, ma va definita “oggettivamente.” La domanda disonesta di Trump, “È indiana o nera?” sorvola sulla realtà del Census (il bureau governativo che produce dati di qualità sulla composizione della popolazione) secondo il quale l’identificazione razziale è soggettiva, e la progenie di razze miste può scegliere come presentarsi. Trump sta evocando il repellente e non troppo lontano passato della definizione legale di razza e dell’avversione al mescolamento del sangue.

Nel Census del 1890 si usavano le definizioni di “quadroon” e “octoroon”, cioè persone con un quarto o un ottavo di sangue nero. Sembra quasi che gli autori tedeschi delle leggi di Norimberga del 1935, che contavano quanti nonni ebrei avesse una persona per essere considerata ebrea, e destinata allo sterminio – avessero studiato alla scuola dell’America Confederata, degli stati schiavisti usciti perdenti dalla guerra civile. Dopo che la schiavitù fu abolita nel 1865 con il Tredicesimo Emendamento alla Costituzione e con il Quindicesimo Emendamento del 1870 gli schiavi liberati ottennero il diritto al voto, la regola del “one-drop of blood” definì l’identità nera sulla base di una goccia di sangue nero.



Fino a sessant’anni fa, nell’epoca del “separati ma uguali”, essere nero comportava una lunga serie di discriminazioni. Parliamo del diritto al voto tanto per fare un esempio di queste discriminazioni, ma anche perché con le sue uscite infelici e studiate, il vicepresidente di Trump J.D. Vance evoca lo stesso passato razzista. Dopo il completo ritiro delle truppe dagli stati del sud nel 1877, il diritto al voto dei neri fu quasi annullato non solo da intimidazioni, frodi, e violenza, ma anche da leggi statali. Erano leggi che richiedevano per poter votare il pagamento di una tassa (poll tax), un test di alfabetizzazione, e la “grandfather clause”. Questa clausola limitava il diritto di voto a chi aveva una storia famigliare di elezioni risalente fino al nonno, ma i discendenti degli schiavi non potevano certo qualificarsi.

Che c’entra Vance? Fatte tutte le dovute differenze, quando sostiene che le persone con figli dovrebbero avere più peso nelle elezioni perché hanno più a cuore il destino del paese, intende dire che il sistema democratico di “una persona un voto” non è giusto, che ci sono degli americani che dovrebbero contare più di altri. Forse non accadrà mai che padri e madri avranno tanti voti quanti sono i loro figli. Tutti e due? O solo i padri? Trump e Vance però non si stanno presentando come riformatori che pensano ad alta voce, ma piuttosto come radicali eversivi che se vincono vogliono cambiare la democrazia americana.



Forse non ci sarà problema, perché Trump ha giá detto che se vince non si voterà più. Per ora basta pensare che l’idea di Vance evoca quella dei suprematisti bianchi, all’epoca del partito democratico, convinti che alle urne i neri, razza inferiore, non dovessero contare quanto i bianchi. E così fu fino a quando il movimento dei diritti civili spazzò via questo pensiero e le sue pratiche razziste, ma si dovette aspettare fino al 1964.

Trump e Vance fanno allusioni alla “grande” America del passato, dove tutti conoscevano il loro posto, in modi più o meno crassi. Ma tutti i loro messaggi sono studiati, mirati, e funzionano per infondere energia al loro elettorato. Sono i leader di quella che in un articolo di qualche anno fa ho chiamato l’eterna Confederazione, prendendo a prestito il concetto dell’ "eterno fascismo" da Umberto Eco. I due repubblicani sono pronti a far rivivere la Causa Persa del sud schiavista, come dice il grande storico di Yale David Blight.

L’eterna confederazione è riconoscibile, seguendo Blight, da alcune tipiche caratteristiche: 1. Il mito di un’America cristiana, rurale e bianca fondata su valori antichi, inclusa l’inferiorità delle donne, dei neri e di altra gente di colore; 2. Il mito delle grandi città contaminate dalle grandi masse di neri, gente di colore, ed elite intellettuali; 3. L’odio per le elite intellettuali e i media che sarebbero tutti liberali per definizione ed ebrei per composizione, in quanto nemici dei valori antichi; 4. La paura degli immigrati come inquinanti della purezza dell’America; 5. Il rifiuto della diversità, che si traduce in razzismo; 6. Un senso esagerato della propria superiorità che non potendo essere dimostrato si trasforma in mascolinità tossica ma fondamentalmente così debole da aver bisogno di armi per essere esibita; 7. La convinzione che la società bianca e cristiana di prima della caduta può essere restaurata con la violenza di pochi. La piattaforma di Trump e Vance è tutta lì. E anche l’intento di eversione.

*Anna Di Lellio insegna politica internazionale alla New York University. Da trent'anni segue le elezioni presidenziali americane e partecipa alle campagne del candidato democratico nelle attività di porta a porta.

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